Slan Hunter

Home > Science > Slan Hunter > Page 17
Slan Hunter Page 17

by Kevin J. Anderson


  Anthea deglutì, esitò, poi prese una decisione. Quando entrò nell'ufficio di Reynolds, il bibliotecario vedendola sussultò. «Non mi colpisca ancora!

  Non le farò nulla.»

  «Adesso direbbe qualsiasi cosa pur di liberarsi.»

  Reynolds abbassò il capo. «Sì, è vero, probabilmente lo farei. Non capisco chi è lei, o cosa vuole...»

  «Voglio solo vivere in pace, tirare avanti di giorno in giorno senza che degli estranei cerchino di uccidermi!»

  «Ma ha un bambino slan, signora. Anche se volessi, come potrei nuocer-le? Non può semplicemente... manipolarmi i pensieri? Perché non mi fa il lavaggio del cervello, così non ricorderò nemmeno che è stata qua?»

  Anthea marciò verso la sedia su cui era legato. «Adesso mi ascolti, signor Reynolds.» Gli mostrò la parte posteriore della testa, e anche senza le sue lenti il bibliotecario vide benissimo che lei non aveva antenne. «Non sono una slan. E neppure mio marito lo era. Ma per chissà quale motivo ho messo al mondo un bambino con le antenne. Non lo chieda a me com'è successo.» Tornò a voltarsi, lasciò che Reynolds guardasse la faccia innocente del neonato. «Non mi sarei mai aspettata una cosa simile, ma non ho intenzione di rinunciare al mio bambino. Non permetterò che gli venga fatto del male da folle inferocite di individui ignoranti e prevenuti. Ce ne andiamo via di qui, al sicuro.»

  «Ma... ma, signora... io non l'ho minacciato in alcun modo.»

  Anthea incrociò le braccia. «Ho visto l'espressione di orrore sulla sua faccia.»

  «Probabilmente era più un'espressione di sorpresa. Non ho mai visto un bambino slan. Anzi, non vengono molti bambini in biblioteca.» Un'espressione allarmata gli attraversò il viso. «Aspetti! Se adesso va via, per favore non mi lasci legato così!»

  Anche se cercò di essere severa, Anthea non era proprio capace di mostrarsi dura. «È il suo giorno fortunato, signor Reynolds. Ho deciso di non lasciarla legato.»

  «Il mio giorno fortunato...» gemette il bibliotecario.

  Anthea gli tolse gli occhiali dalla tasca e li posò su uno schedario nell'angolo opposto della stanza. «Voglio solo un vantaggio iniziale.» Gli slegò le braccia. «Può liberarsi i piedi da solo. Quando si alzerà da questa sedia e troverà i suoi occhiali, noi ci saremo dileguati nelle strade. È inutile che provi a inseguirci.»

  «Non ho nessuna intenzione di inseguirla, signora! Mi darebbe semplicemente un'altra botta in testa. Vorrei che avesse chiesto il mio aiuto invece...»

  Anthea provò una stretta al cuore. «Anch'io, signor Reynolds. Ma la triste verità è che, se mi aiutasse, pure lei sarebbe in pericolo.» Trasalì al ricordo del povero Davis, di come si fosse fatto uccidere perché lei e il bambino potessero fuggire. Mentre stava per uscire, Anthea esitò sulla porta dell'ufficio. «Lei è un uomo colto, amante del sapere. Non lasci che il pregiudizio e l'ignoranza prevalgano su di lei. Anzi, perché non va di là nell'archivio blindato ed esamina bene quei resoconti delle Guerre Slan?

  Scopra la verità. Si sono comportati tutti in modo riprovevole, sia gli umani sia gli slan. Protegga quei documenti. Un giorno, potrebbero aiutarci a capirci a vicenda.»

  Lasciò la stanza, senza sentire nemmeno il bisogno di affrettarsi. Aveva visto un po' di fiducia negli occhi tondi del bibliotecario.

  Grazie alla misteriosa trasmissione Porgrave, Anthea aveva una conoscenza istintiva di come raggiungere la base sotterranea sicura... sempre che esistesse ancora. A quanto pareva gli slan si erano nascosti là per diverse generazioni. Il vecchio rifugio era stato costruito per durare secoli, forse addirittura millenni, come una fortezza. Tuttavia Centropolis stessa era cambiata parecchio dopo un lasso di tempo così lungo e la lenta ricostruzione seguita alle devastanti Guerre Slan.

  Anthea era fiduciosa, credeva che il rifugio esistesse ancora.

  Lasciando il riparo della biblioteca, scoprì che era un mattino nuovo, sebbene la città fosse un caos di incendi che continuavano a divampare, grattacieli crollati, automobili fracassate, corpi schiacciati. Anthea trascor-se la maggior parte della giornata avanzando cauta nelle vie, nascondendosi da chiunque potesse vederla. In tempi normali, in un mondo civile, nessuno si sarebbe rifiutato di aiutare una madre e il suo figlioletto. Adesso lei sembrava una vittima, un bersaglio facile. E se qualcuno avesse notato le antenne del bambino...

  Quando infine si fermò davanti all'entrata presunta della base segreta sotterranea, Anthea represse la delusione e lo stupore. Forse, dopo tutto, era stato un tentativo inutile.

  Il piccolo e vecchio edificio era anonimo, fatto apposta così per passare inosservato. Una piccola insegna nella finestra diceva che si trattava di un Museo della macchina da cucire... un posto che non aveva nulla di strano, ma che non avrebbe attratto grandi folle di visitatori. Nonostante i segni delle esplosioni e le macerie nelle strade, quella costruzione era intatta, non aveva riportato alcun danno. Anthea si rese conto che l'edificio era incredibilmente vecchio, che la sua decrepitezza era ingannevole, che doveva essere talmente rinforzato da essere in pratica indistruttibile. Probabilmente il piccolo museo tranquillo sorgeva in quel punto dall'epoca delle Guerre Slan.

  Guardandosi attorno furtiva, Anthea corse alla porta del museo e vide che non era chiusa a chiave. Le sembrò strano, poi però rifletté che le bande di gentaglia avevano molti posti più invitanti da saccheggiare.

  I proprietari attuali del piccolo edificio probabilmente non sapevano nemmeno che fosse collegato all'antico nascondiglio slan... o forse degli slan nascosti lo sorvegliavano. Si aggrappò a quella speranza. Se c'erano degli altri, avrebbe potuto trovare scampo in mezzo a loro. L'avrebbero aiutata a proteggere se stessa e il bambino.

  «Ehi?» disse a voce alta nell'atrio ombroso. Nessuno rispose.

  Sui tavoli e in teche trasparenti erano in mostra strani aggeggi, alberini e pulegge, cucitrici industriali per usi particolari e modelli usati dalle casa-linghe del passato. Un apparecchio dimostrativo a batteria si muoveva lentamente su e giù, spingendo in continuazione il suo ago e forando un pezzo di stoffa come una zanzara meccanica.

  «Ehi?» Anthea si portò furtivamente dietro una scrivania dove un addet-to doveva avere atteso invano visitatori paganti che non arrivavano mai.

  Trovò un piccolo archivio, un ripostiglio, una caffettiera fredda e un pac-chetto di cracker stantii che divorò, ma nessun passaggio segreto che con-ducesse al rifugio sotterraneo. Naturalmente. Se quel segreto aveva resistito secoli e secoli senza essere scoperto, la porta o la botola dovevano essere nascoste molto bene. Uscì e tornò nella sala del museo vero e proprio, non sapendo che fare a questo punto.

  Il bambino si agitò tra le sue braccia, Anthea avvertì un tamburellio nel cranio. Un altro segnale Porgrave le stava giungendo da lì, un'indicazione precisa come quella trasmessa dalla camera blindata della biblioteca. Il neonato non poteva parlare, non poteva guidarla, ma lei poteva percepire le cose attraverso il bambino. Anthea non era del tutto sola.

  Le vibrazioni sembravano più forti nella sala principale del museo, analizzatori o rivelatori clandestini che nessun umano avrebbe notato. Anthea continuò la ricerca battendo sui muri, cercando porte nascoste. Si spostò da una vecchia macchina da cucire all'altra, dai modelli ingombranti e anti-quati a quelli eleganti e moderni.

  Si sentì attirata di nuovo dal modello dimostrativo a batteria che continuava a muovere l'ago su e giù. Quando lo toccò con la mano protesa, percepì con un brivido che quella era la macchina giusta. Le antenne del bambino ondeggiarono nell'aria, e il segnale guida aumentò d'intensità.

  Anthea udì un clic. Dei sensori avevano individuato il bambino, accettan-dolo.

  La macchina da cucire si arrestò, e anche Anthea rimase immobile. Poi udì il ronzio di un meccanismo di sblocco, e il supporto della macchina si mosse leggermente. Anthea fece un passo indietro, cercò a tentoni e si accorse che tutto il piedistallo poggiava su un perno ingegnoso. Quando lo spinse, il supporto scorse facilmente su guide lubrificate, rivelando una botola nel pavimento... l'entrata!

  Mentre Anthea si chinava col bambino, una copertura metallica si aprì di scatt
o, scoprendo una scala che portava in basso in una stanza angusta. Le ginocchia molli per il sollievo, Anthea cinse con un braccio il figlioletto e scese attenta trovandosi quindi in una stanzetta dalle pareti metalliche.

  Non riuscì a vedere né porte né botole. Un vicolo cieco.

  Sopra, la copertura tornò a chiudersi, bloccandola all'interno. Producendo un ronzio, il piedistallo della macchina da cucire ruotò e riprese la posizione normale. Anthea strinse a sé il bambino: aveva la sensazione di essere in trappola.

  Non riuscì a trovare nessun comando, nessuna finestra, nessuna istruzione affissa. «Be', e adesso?» disse. Una domanda retorica.

  Poi tutta la stanza sprofondò, facendole contrarre lo stomaco. Dei cavi ronzarono e le pareti vibrarono, mentre l'ascensore scendeva a velocità vertiginosa. Tra le sue braccia, il piccino tubò e farfugliò felice, non avvertendo alcun pericolo.

  Dato che il macchinario funzionava ancora, per via del museo ben curato lassù, era certa che avrebbero trovato un'altra popolazione di slan nella ba-se sotterranea. Avrebbe chiesto il loro aiuto. Avrebbe potuto sentirsi a suo agio in mezzo agli altri profughi, che l'avrebbero protetta.

  Quando l'ascensore infine si fermò, una parete si spostò di lato rivelando una enorme caverna, calda e bene illuminata. Anthea atteggiò il volto al sorriso più cordiale di cui era capace e uscì dalla cabina portando il neonato e aspettandosi di essere accolta da un gruppo di slan, da gente che le avrebbe dato una mano, che avrebbe protetto il bambino e le avrebbe spiegato ogni cosa.

  Invece trovò solo scheletri.

  27

  Mentre la marmaglia rabbiosa lo aggrediva tra le rovine del palazzo, Jommy rimase bloccato precariamente nello spiraglio della porta della camera blindata. Il disintegratore gli era sfuggito dalle dita mentre delle mani lo ghermirono e gli afferrarono le braccia, i capelli. Cercò di lasciarsi cadere di nuovo nella camera blindata, ma qualcuno lo prese per la collottola, tirandolo ancora su.

  Se avesse lottato troppo, Jommy temeva di staccare l'apparecchio rivelatore collegato al meccanismo della porta e allora i grossi pistoni non l'avrebbero più trattenuta. Oppure c'era il rischio che l'intera camera blindata sprofondasse nello strato di macerie instabile. Ricorrendo a un trucco, Jommy si afflosciò, costringendo gli sciacalli a tirarlo fuori. Lo avrebbero sottovalutato, avrebbero creduto che fosse debole. Non appena fu libero si scatenò.

  Jommy sferrò un pugno all'uomo più vicino con una forza che sorprese gli aggressori, mandandolo a gambe all'aria. Poi scagliò lontano i due individui che gli si avventarono contro. Ruzzolarono tra i detriti come un paio di bambole di pezza, urtando le pietre puntute. Uno scivolò e cadde precipitando in profondità verso i piani inferiori invisibili. Il fragore di un ce-dimento accompagnò la caduta, coprendo le sue grida.

  Gli sciacalli assassini girarono in tondo, guardinghi adesso. «Sporco slan!»

  «Attenzione, potrebbe friggervi il cervello!»

  «Tu di cervello non ne hai mai avuto, Jerome.»

  Un uomo ossuto che indossava parecchi strati di indumenti male assortiti era molto più interessato alla camera blindata che Jommy aveva esplorato.

  Sottraendosi alla lotta, gridò: «Sembra una stanza del tesoro! Scommetto che stava nascondendo qualcosa là dentro. Tesori slan.» Cominciò a penetrare strisciando nella camera blindata.

  Jommy respinse ogni aggressore che si faceva sotto, ma un numero sempre maggiore di individui si riversava sulle macerie, almeno un centinaio, tutti armati di randelli di fortuna e tubi. Alcuni avevano armi da fuoco, ma non spararono. Jommy capì che volevano farlo a pezzi con le loro mani.

  Quando un uomo gli balzò sulle spalle, Jommy lo abbrancò per toglier-selo di dosso. Anche un energumeno dai capelli rossi si avventò su di lui.

  Jommy ruotò su se stesso, colpendolo con i piedi dell'altro aggressore che si agitavano nell'aria. Mulinando le braccia, pel di carota urtò i comandi della porta e staccò il congegno che alimentava il meccanismo di apertura.

  L'ossuto cacciatore di tesori si era infilato a metà nel varco, sbirciando nell'oscurità della camera blindata. Quando parecchie tonnellate di porta si chiusero su di lui come la lama gigante di una ghigliottina produsse un suono più simile a un colpo di tosse che a un urlo. All'esterno, le gambe separate dal resto del corpo continuarono a contrarsi.

  Parecchi sciacalli arretrarono con un'espressione schifata. Due uomini cominciarono a ridere come iene per la sventura del compagno.

  Jommy colpì un aggressore sul mento con tanta forza che sentì il rumore della mascella e del collo che si spezzavano. Poi prese pezzi di roccia accanto ai suoi piedi e cominciò a scagliarli come palle di cannone, centrando diversi altri sciacalli in faccia. Ma quelli continuavano ad arrivare brandendo i loro randelli, avvicinandosi da ogni parte.

  Jommy non poteva affrontarli tutti. Un pesante tubo gli si abbatté sul braccio sinistro, intorpidendolo dal gomito in giù, mentre un altro tubo lo colpì di striscio alla tempia. Jommy vacillò, ma continuò a combattere.

  Un uomo dalle spalle quadrate con la crosta di un taglio sulla guancia sinistra estrasse un lungo coltello e avanzò verso lo slan stordito. Jommy scagliò un altro detrito aguzzo contro di lui, ma la sua mira era imprecisa e l'omaccione schivò il colpo. Jommy alzò entrambi i pugni pronto a lottare, tenendo a stento i piedi sul terreno traballante.

  L'uomo col coltello a quanto pareva era il capo della marmaglia, a giudicare dal modo in cui sbraitava ordini e da come gli altri obbedivano. Il resto della banda arretrò per consentire al capo di cimentarsi. L'energumeno tracciò dei disegni nell'aria agitando il pugnale, irridendo Jommy. Gli sciacalli fischiarono e ridacchiarono sguaiati, godendosi lo spettacolo. Intanto altri delinquenti si riversavano sulle rovine del palazzo, provenienti da vie traverse. Mentre Jommy si difendeva dalla lama guizzante, altri aggressori gli afferrarono le braccia... troppi perché potesse divincolarsi. Il capo col coltello si limitò a sorridere, lasciando che i compagni facessero il lavoro per lui.

  Uno degli sciacalli roteò un randello che colpì Jommy in piena fronte. Il colpo avrebbe ucciso un essere umano normale, ma neppure la forza slan di Jommy bastò ad assorbirlo. Le gambe gli si afflosciarono, il giovane si sforzò di rimanere cosciente. Gli uomini che lo circondavano risero, te-nendogli le braccia e bloccandolo.

  «Cosa dobbiamo farne di lui, Deacon?»

  «Ehi! Ho un'idea! Facciamolo a pezzettini, come lui ha tagliato in due Thompkins.» Gli sciacalli guardarono torvi il corpo tranciato dalla porta della camera blindata. Le gambe staccate continuavano a tremolare, come se fossero impazienti di mettersi in cammino. L'individuo coi capelli rossi si accovacciò accanto alla metà inferiore del tronco sanguinante doman-dandosi chiaramente cosa potesse esserci nella camera blindata, ma incapace di aprire la porta.

  Deacon, l'energumeno col coltello, rimase indifferente. «Se si fosse dato da fare lottando insieme a noi, adesso non sarebbe tagliato in due. Thompkins ha avuto quello che meritava.» Batté la punta del pugnale su una guancia mentre soppesava le alternative. Jommy notò allora che il capobanda portava una collana raccapricciante cui erano appese diverse strisce di carne scolorite e avvizzite. Erano inconfondibili. Antenne slan... come trofei!

  Dibattendosi ancora debolmente, Jommy maledisse la propria stupidità.

  Avrebbe dovuto fare più attenzione, guardarsi dagli altri pericoli. Era così elettrizzato quando aveva trovato finalmente il disintegratore che si era dimenticato della mentalità della marmaglia umana. Le pareti spesse della camera blindata lo avevano schermato dai pensieri e dalle sensazioni esterni.

  «Dobbiamo ucciderlo a turno?» propose un giovane dalle sopracciglia folte. Aveva una voce smaniosa e stridula.

  «Possiamo ucciderlo una volta sola, Jerome. Non essere stupido.»

  «Oh. Volevo dire, ucciderlo un po' alla volta, molte volte.»

  Deacon tastò la lama. «Purché le antenne le tenga io.» Accarezzò i fili disgustosi che aveva al collo. «Li odio come chiunque altro, gli slan, però mi piace la mia collezione.» Jommy riusciva a stento a mettere a fuoco l'uomo ch
e girava attorno a lui, giocherellando con il coltello e prolungan-do il momento fatidico. «Anche se mi piacerebbe torturare questo serpente per una settimana intera, c'è troppo bottino da arraffare. Quindi sbrighia-moci a finire il lavoro.»

  Jommy trovò un'ondata improvvisa di energia. Lottò come una furia e si liberò di due aguzzini. Poi qualcuno lo randellò di nuovo col grosso basto-ne. Jommy barcollò, riusciva a stento a connettere. Il dolore gli echeggiava nelle orecchie.

  «Buttatelo giù e giratelo, poi tenetelo fermo, ma fermo davvero.» Deacon accarezzò le antenne scolorite della collana. «Non voglio estremità sfi-lacciate.»

  Gli uomini fecero come aveva ordinato il capo. Jommy stava quasi per perdere i sensi. «Non sono vostro nemico» gracchiò. «Non è necessario che mi facciate del male.»

  Gli sciacalli ridacchiarono e sghignazzarono. «Certo, gli slan non sono nostri nemici. Tutta la città è saltata in aria attorno a noi, ma quello è stato un gesto di amicizia degli slan, vero?»

  Deacon si chinò col lungo coltello, sussurrandogli all'orecchio: «Voi slan pensate di essere superiori a noi per via delle vostre antenne. Le antenne vi danno dei superpoteri mentali. Non mi sembra giusto. Penso che dovresti sentirti come uno di noi comuni mortali per qualche minuto, prima di morire.» Afferrò le sottili antenne dorate di Jommy. Le tirò, driz-zandole.

  Una paura gelida percorse all'improvviso la schiena di Jommy. «No, non farlo!» Con forza straordinaria, per poco non spinse via i quattro uomini che gli bloccavano le spalle.

  Deacon calò rapido la lama. Il coltello recise di netto le antenne in un sol colpo.

  Jommy avvertì una vampata indescrivibile, come se un fulmine gli fosse esploso nella mente. Il dolore era incredibile. Si sentì di colpo cieco. La sordità gli ruggiva nelle orecchie e nei pensieri, ma riusciva ancora a udire delle risate che echeggiavano in sottofondo. Udì una specie di gemito basso che trillò acuto e poi tornò ad abbassarsi. Si rese conto che era la sua stessa voce che esprimeva tutta la sua sofferenza. Non poteva muoversi, non poteva più lottare. Si sentì completamente inerme.

 

‹ Prev