XXVI.
Prendi, s’esser potrà, Goffredo all’esca
De’ dolci sguardi, e de’ bei detti adorni;
Sicch’all’uomo invaghito omai rincresca
204 L’incominciata guerra, e la distorni.
Se ciò non puoi, gli altri più grandi adesca:
Menagli in parte, ond’alcun mai non torni.
Poi distingue i consiglj: alfin le dice:
208 Per la fe, per la patria il tutto lice.
XXVII.
La bella Armida di sua forma altera,
E de’ doni del sesso e dell’etate,
L’impresa prende; e in su la prima sera
212 Parte, e tiene sol vie chiuse e celate:
E ‘n treccia, e ‘n gonna femminile spera
Vincer popoli invitti, e schiere armate.
Ma son del suo partir tra ‘l volgo, ad arte,
216 Diverse voci poi diffuse e sparte.
XXVIII.
Dopo non molti dì vien la Donzella
Dove spiegate i Franchi avean le tende.
All’apparir della beltà novella
220 Nasce un bisbiglio, e ‘l guardo ognun v’intende;
Siccome là, dove cometa o stella,
Non più vista di giorno, in ciel risplende:
E traggon tutti per veder chi sia
224 Sì bella peregrina, e chi l’invia.
XXIX.
Argo non mai, non vide Cipro o Delo,
D’abito o di beltà forme sì care.
D’auro ha la chioma; ed or dal bianco velo
228 Traluce involta, or discoperta appare.
Così qualor si rasserena il cielo,
Or da candida nube il Sol traspare;
Or dalla nube uscendo, i raggj intorno
232 Più chiari spiega, e ne raddoppia il giorno.
XXX.
Fa nove crespe l’aura al crin disciolto,
Che natura per se rincrespa in onde:
Stassi l’avaro sguardo in se raccolto,
236 E i tesori d’amore, e i suoi nasconde.
Dolce color di rose in quel bel volto
Fra l’avorio si sparge e si confonde:
Ma nella bocca, ond’esce aura amorosa,
240 Sola rosseggia, e semplice la rosa.
XXXI.
Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
Onde il foco d’amor si nutre e desta:
Parte appar delle mamme acerbe e crude,
244 Parte altrui ne ricopre invida vesta:
Invida, ma s’agli occhj il varco chiude,
L’amoroso pensier già non arresta;
Chè non ben pago di bellezza esterna,
248 Negli occulti secreti anco s’interna.
XXXII.
Come per acqua, o per cristallo intero
Trapassa il raggio, e nol divide o parte;
Per entro il chiuso manto osa il pensiero
252 Sì penetrar nella vietata parte:
Ivi si spazia, ivi contempla il vero
Di tante maraviglie a parte a parte:
Poscia al desio le narra e le descrive,
256 E ne fa le sue fiamme in lui più vive.
XXXIII.
Lodata passa, e vagheggiata Armida,
Fra le cupide turbe, e se n’avvede.
Nol mostra già, benchè in suo cor ne rida,
260 E ne disegni alte vittorie e prede.
Mentre sospesa alquanto, alcuna guida
Che la conduca al Capitan, richiede;
Eustazio occorse a lei, che del sovrano
264 Principe delle squadre era germano.
XXXIV.
Come al lume farfalla, ei si rivolse
Allo splendor della beltà divina;
E rimirar dappresso i lumi volse,
268 Che dolcemente atto modesto inchina:
E ne trasse gran fiamma, e la raccolse,
Come da foco suole esca vicina:
E disse verso lei, ch’audace e baldo
272 Il fea degli anni e dell’amore il caldo:
XXXV.
Donna, se pur tal nome a te conviensi;
Chè non somigli tu cosa terrena:
Nè v’è figlia d’Adamo, in cui dispensi
276 Cotanto il ciel di sua luce serena:
Chè da te si ricerca? e donde viensi?
Qual tua ventura o nostra or quì ti mena?
Fà ch’io sappia chi sei; fà ch’io non erri
280 Nell’onorarti, e s’è ragion, m’atterri.
XXXVI.
Risponde: Il tuo lodar troppo alto sale;
Nè tanto in suso il merto nostro arriva:
Cosa vedi, Signor, non pur mortale,
284 Ma già morta ai diletti, al duol sol viva.
Mia sciagura mi spinge in loco tale,
Vergine peregrina e fuggitiva:
Ricorro al pio Goffredo, e in lui confido;
288 Tal va di sua bontade intorno il grido.
XXXVII.
Tu l’adito m’impetra al Capitano,
S’hai, come pare, alma cortese e pia.
Ed egli: è ben ragion ch’all’un germano
292 L’altro ti guidi, e intercessor ti sia.
Vergine bella, non ricorri invano:
Non è vile appo lui la grazia mia:
Spender tutto potrai, come t’aggrada,
296 Ciò che vaglia il suo scettro, o la mia spada.
XXXVIII.
Tace, e la guida ove tra i grandi eroi
Allor dal volgo il pio Buglion s’invola.
Essa inchinollo riverente, e poi
300 Vergognosetta non facea parola.
Ma quei rossor, ma quei timori suoi
Rassicura il guerriero, e riconsola;
Sicchè i pensati inganni alfine spiega
304 In suon che di dolcezza i sensi lega.
Essa inchinollo riverente, e poi
Vergognosetta non facea parola.
XXXIX.
Principe invitto, disse, il cui gran nome
Sen vola adorno di sì chiari fregj;
Chè l’esser da te vinte, e in guerra dome
308 Recansi a gloria le provincie e i Regi:
Noto per tutto è il tuo valore, e come
Sin dai nemici avvien che s’ami e pregi;
Così anco i tuoi nemici affida, e invita
312 Di ricercarti, e d’impetrarne aita.
XL.
Ed io che nacqui in sì diversa fede,
Che tu abbassasti, e ch’or d’opprimer tenti,
Per te spero acquistar la nobil sede,
316 E lo scettro regal de’ miei parenti:
E s’altri aita ai suoi congiunti chiede
Contra il furor delle straniere genti;
Io, poichè ‘n lor non ha pietà più loco,
320 Contra il mio sangue il ferro ostíle invoco.
XLI.
Te chiamo, ed in te spero; e in quell’altezza
Puoi tu sol pormi, onde sospinta io fui.
Nè la tua destra esser dee meno avvezza
324 Di sollevar, che d’atterrar altrui:
Nè meno il vanto di pietà si prezza,
Che ‘l trionfar degli avversarj sui;
E s’hai potuto a molti il regno torre,
328 Fia gloria egual nel regno or me riporre.
XLII.
Ma se la nostra fe varia ti move
A disprezzar forse i miei preghi onesti,
La fe ch’ho certa in tua pietà, mi giove:
332 Nè dritto par ch’ella delusa resti.
Testimon è quel Dio ch’a tutti è Giove,
Ch’altrui più giusta aita unqua non desti.
Ma perchè il tutto appieno intenda, or odi
336 Le mie sventure insieme, e le altrui frodi.
XLIII.
Figlia i’ son d’Arbilan, che ‘l regno tenne
Del bel Damasco, e in minor sorte nacque:
Ma la bella Cariclia in sposa ottenne,
340 Cui farlo erede del suo imperio piacque.
Costei co
l suo morir quasi prevenne
Il nascer mio; chè in tempo estinta giacque,
Ch’io fuori uscia dell’alvo: e fu il fatale
344 Giorno ch’a lei diè morte, a me natale.
XLIV.
Ma il primo lustro appena era varcato
Dal dì ch’ella spogliossi il mortal velo;
Quando il mio genitor, cedendo al fato,
348 Forse con lei si ricongiunse in Cielo:
Di me cura lasciando e dello stato
Al fratel ch’egli amò con tanto zelo;
Chè se in petto mortal pietà risiede,
352 Esser certo dovea della sua fede.
XLV.
Preso dunque di me questi il governo,
Vago d’ogni mio ben si mostrò tanto,
Che d’incorrotta fe, d’amor paterno,
356 E d’immensa pietade ottenne il vanto.
O che ‘l maligno suo pensiero interno
Celasse allor sotto contrario manto;
O che sincere avesse ancor le voglie,
360 Perch’al figliuol mi destinava in moglie.
XLVI.
Io crebbi, e crebbe il figlio; e mai nè stile
Di cavalier, nè nobil’arte apprese;
Nulla di pellegrino o di gentile
364 Gli piacque mai, nè mai troppo alto intese:
Sotto deforme aspetto animo vile,
E in cor superbo avare voglie accese:
Ruvido in atti, ed in costumi è tale,
368 Ch’è sol ne’ vizj a se medesmo eguale.
XLVII.
Ora il mio buon custode ad uom sì degno
Unirmi in matrimonio in se prefisse;
E farlo del mio letto e del mio regno
372 Consorte; e chiaro a me più volte il disse.
Usò la lingua e l’arte, usò l’ingegno,
Perchè ‘l bramato effetto indi seguisse:
Ma promessa da me non trasse mai;
376 Anzi ritrosa ognor tacqui, o negai.
XLVIII.
Partissi alfin con un sembiante oscuro,
Onde l’empio suo cor chiaro trasparve.
E ben l’istoria del mio mal futuro
380 Leggergli scritta in fronte allor mi parve;
Quinci i notturni miei riposi furo
Turbati ognor da strani sogni e larve:
Ed un fatale orror nell’alma impresso,
384 M’era presagio de’ miei danni espresso.
XLIX.
Spesso l’ombra materna a me s’offria,
Pallida imago, e dolorosa in atto;
Quanto diversa, oimè, da quel che pria
388 Visto altrove il suo volto avea ritratto.
Fuggi, figlia, dicea, morte sì ria
Che ti sovrasta omai, partiti ratto.
Già veggio il tosco e ‘l ferro in tuo sol danno
392 Apparecchiar dal perfido Tiranno.
L.
Ma che giovava, oimè, che del periglio
Vicino omai fosse presago il core;
Se irresoluta in ritrovar consiglio
396 La mia tenera età rendea il timore?
Prender fuggendo volontario esiglio,
E ignuda uscir del patrio regno fuore
Grave era sì, ch’io fea minore stima
400 Di chiuder gli occhj, ove gli apersi in prima.
LI.
Temea, lassa, la morte, e non avea
(Chi ‘l crederia?) poi di fuggirla ardire;
E scoprir la mia tema anco temea,
404 Per non affrettar l’ore al mio morire.
Così inquieta e torbida traea
La vita in un continuo martíre;
Qual uom ch’aspetti, che sul collo ignudo
408 Ad or ad or gli caggia il ferro crudo.
LII.
In tal mio stato, o fosse amica sorte,
O ch’a peggio mi serbi il mio destino,
Un de’ ministri della regia corte,
412 Che ‘l Re mio padre s’allevò bambino,
Mi scoperse che ‘l tempo alla mia morte,
Dal Tiranno prescritto, era vicino;
E ch’egli a quel crudele avea promesso
416 Di porgermi il velen quel giorno stesso.
LIII.
E mi soggiunse poi, ch’ alla mia vita,
Sol fuggendo, allungar poteva il corso;
E poich’altronde io non sperava aita,
420 Pronto offrì se medesmo al mio soccorso;
E confortando mi rendè sì ardita,
Che del timor non mi ritenne il morso;
Sicch’io non disponessi, all’aer cieco,
424 La patria e ‘l zio fuggendo, andarne seco.
LIV.
Sorse la notte oltra l’usato oscura,
Che sotto l’ombre amiche ne coperse:
Talchè con due donzelle uscii sicura,
428 Compagne elette alle fortune avverse.
Ma pure indietro alle mie patrie mura
Le luci io rivolgea di pianto asperse:
Nè della vista del natío terreno
432 Potea, partendo, saziarle appieno.
LV.
Fea l’istesso cammin l’occhio, e ‘l pensiero;
E mal suo grado il piede innanzi giva:
Siccome nave ch’improvviso e fero
436 Turbine scioglia dall’amata riva.
La notte andammo, e ‘l dì seguente intero
Per lochi ov’orma altrui non appariva.
Ci ricovrammo in un castello alfine,
440 Che siede del mio regno in sul confine.
LVI.
È d’Aronte il castel, (ch’Aronte fue
Quel che mi trasse di periglio, e scorse)
Ma poichè me fuggito aver le sue
444 Mortali insidie, il traditor, s’accorse;
Acceso di furor contr’ambidue,
Le sue colpe medesme in noi ritorse;
Ed ambo fece rei di quell’eccesso,
448 Che commetter in me volle egli stesso.
LVII.
Disse ch’Aronte i’ avea con doni spinto
Fra sue bevande a mescolar veneno;
Per non aver, poi ch’egli fosse estinto,
452 Chi legge mi prescriva, o tenga a freno:
E ch’io seguendo un mio lascivo instinto,
Volea raccormi a mille amanti in seno.
Ahi, che fiamma dal Cielo anzi in me scenda,
456 Santa Onestà, ch’io le tue leggi offenda!
LVIII.
Ch’avara fame d’oro, e sete insieme
Del mio sangue innocente il crudo avesse,
Grave m’è si; ma via più il cor mi preme,
460 Che ‘l mio candido onor macchiar volesse.
L’empio, che i popolari impeti teme,
Così le sue menzogne adorna e tesse,
Chè la città, del ver dubbia e sospesa,
464 Sollevata non s’armi a mia difesa.
LIX.
Nè, perch’or sieda nel mio seggio, e ‘n fronte
Già gli risplenda la regal corona,
Pone alcun fine a’ miei gran danni, all’onte;
468 Sì la sua feritate oltre lo sprona.
Arder minaccia entro ‘l castello Aronte,
Se di proprio voler non s’imprigiona;
Ed a me, lassa, e insieme ai miei consorti
472 Guerra annunzia non pur, ma strazj, e morti.
LX.
Ciò dice egli di far, perchè dal volto
Così levarsi la vergogna crede;
E ritornar nel grado, ond’io l’ho tolto,
476 L’onor del sangue, e della regia sede.
Ma il timor n’è cagion, chè non ritolto
Gli sia lo scettro, ond’io son vera erede;
Chè sol, s’io caggio, por fermo sostegno,
480 Con le ruine mie, puote al suo regno.
LXI.
E ben quel fine avrà l’empio desire,
Che già il Tiranno ha stabilito in mente;
E saran nel mio sangue estinte l
’ire,
484 Che dal mio lagrimar non fiano spente,
Se tu nol vieti: a te rifuggo, o Sire,
Io misera fanciulla, orba, innocente:
E questo pianto, ond’ho i tuoi piedi aspersi,
488 Vagliami sì, che ‘l sangue io poi non versi.
LXII.
Per questi piedi, onde i superbi e gli empj
Calchi: per questa man che ‘l dritto aita:
Per l’alte tue vittorie, e per que’ tempj
492 Sacri, cui desti, e cui dar cerchi aita;
Il mio desir, tu che puoi solo, adempi;
E in un col regno a me serbi la vita
La tua pietà; ma pietà nulla giove,
496 S’anco te il dritto e la ragion non move.
LXIII.
Tu, cui concesse il Cielo, e dielti in fato
Voler il giusto, e poter ciò che vuoi;
A me salvar la vita, a te lo stato
500 (Chè tuo fia, s’io ‘l ricovro) acquistar puoi.
Fra numero sì grande a me sia dato
Dieci condur de’ tuoi più forti eroi:
Ch’avendo i padri amici, e ‘l popol fido,
504 Bastan questi a ripormi entro al mio nido.
LXIV.
Anzi un de’ primi, alla cui fe commessa
È la custodia di secreta porta,
Promette aprirla, e nella reggia stessa
508 Porci di notte tempo; e sol m’esorta
Ch’io da te cerchi alcuna aita; e in essa,
Per picciola che sia, si riconforta
Più che s’altronde avesse un grande stuolo:
512 Tanto l’insegne estima, e ‘l nome solo!
LXV.
Ciò detto tace, e la risposta attende
Con atto che, in silenzio, ha voce e preghi.
Goffredo il dubbio cor volve e sospende
516 Fra pensier varj, e non sa dove il pieghi.
Teme i barbari inganni, e ben comprende
Che non è fede in uom ch’a Dio la neghi.
Ma d’altra parte in lui pietoso affetto
520 Si desta, che non dorme in nobil petto.
LXVI.
Nè pur l’usata sua pietà natía
Vuol che costei della sua grazia degni,
Ma il move utile ancor: ch’util gli fia
524 Che nell’imperio di Damasco regni
Chi, da lui dipendendo, apra la via
Ed agevoli il corso ai suoi disegni;
E genti, ed arme gli ministri, ed oro
528 Contra gli Egizj, e chi sarà con loro.
LXVII.
Mentre ei, così dubbioso, a terra volto
Lo sguardo tiene, e ‘l pensier volve e gira;
La donna in lui s’affissa, e dal suo volto
532 Intenta pende, e gli atti osserva e mira:
E perchè tarda, oltra ‘l suo creder, molto
La risposta, ne teme e ne sospira.
Quegli la chiesta grazia al fin negolle:
536 Ma diè risposta assai cortese e molle.
LXVIII.
Se in servigio di Dio, ch’a ciò n’elesse,
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