376 Violenza maggior la spada rote.
XLVIII.
Vinta dall’ira è la ragione e l’arte,
E le forze il furor ministra, e cresce.
Sempre che scende il ferro, o fora o parte,
380 O piastra, o maglia: e colpo invan non esce.
Sparsa è d’arme la terra, e l’arme sparte
Di sangue, e ‘l sangue col sudor si mesce.
Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono,
384 Fulmini nel ferir le spade sono.
XLIX.
Questo popolo e quello incerto pende
Da sì nuovo spettacolo ed atroce:
E fra tema, e speranza il fin n’attende,
388 Mirando or ciò che giova, or ciò che nuoce:
E non si vede pur, ne pur s’intende
Picciol cenno fra tanti, o bassa voce;
Ma se ne sta ciascun tacito e immoto,
392 Se non se inquanto ha il cor tremante in moto.
L.
Già lassi erano entrambi, e giunti forse
Sarian, pugnando, ad immaturo fine;
Ma sì oscura la notte intanto sorse,
396 Che nascondea le cose anco vicine.
Quinci un araldo, e quindi un altro accorse
Per dipartirgli, e gli partiro al fine.
L’uno il Franco Arideo, Pindoro è l’altro,
400 Che portò la disfida, uom saggio e scaltro.
LI.
I pacifici scettri osar costoro
Fra le spade interpor de’ combattenti,
Con quella sicurtà che porgea loro
404 L’antichissima legge delle genti.
Siete, o guerrieri, incominciò Pindoro,
Con pari onor di pari ambo possenti.
Dunque cessi la pugna, e non sian rotte
408 Le ragioni, e ‘l riposo della notte.
LII.
Tempo è da travagliar mentre il Sol dura;
Ma nella notte ogni animale ha pace:
E generoso cor non molto cura
412 Notturno pregio, che s’asconde e tace.
Risponde Argante: a me per ombra oscura
La mia battaglia abbandonar non piace:
Ben avrei caro il testimon del giorno;
416 Ma che giuri costui di far ritorno.
LIII.
Soggiunse l’altro allora: e tu prometti
Di tornar, rimenando il tuo prigione;
Perch’altrimenti non fia mai ch’aspetti
420 Per la nostra contesa altra stagione.
Così giuraro: e poi gli araldi eletti
A prescriver il tempo alla tenzone,
Per dare spazio alle lor piaghe onesto,
424 Stabiliro il mattin del giorno sesto.
LIV.
Lasciò la pugna orribile, nel core
De’ Saracini e de’ Fedeli impressa
Un’alta maraviglia, ed un orrore
428 Che per lunga stagione in lor non cessa.
Sol dell’ardir si parla, e del valore
Che l’un guerriero e l’altro ha mostro in essa.
Ma qual si debba di lor due preporre,
432 Vario e discorde, il volgo in se discorre.
LV.
E sta sospeso, in aspettando, quale
Avrà la fera lite avvenimento:
E se ‘l furore alla virtù prevale,
436 O se cede l’audacia all’ardimento.
Ma più di ciascun altro, a cui ne cale,
La bella Erminia n’ha cura e tormento:
Chè da i giudícj dell’incerto Marte
440 Vede pender di se la miglior parte.
LVI.
Costei, che figlia fu del Re Cassano
Che d’Antiochia già l’imperio tenne,
Preso il suo regno, al vincitor Cristiano
444 Fra l’altre prede anch’ella in poter venne.
Ma fulle in guisa allor Tancredi umano,
Che nulla ingiuria in sua balía sostenne:
Ed onorata fu, nella ruina
448 Dell’alta patria sua, come Reina.
LVII.
L’onorò, la servì, di libertate
Dono le fece il cavaliero egregio:
E le furo da lui tutte lasciate
452 Le gemme, e gli ori, e ciò ch’avea di pregio.
Ella vedendo in giovinetta etate,
E in leggiadri sembianti animo regio,
Restò presa d’Amor, che mai non strinse
456 Laccio di quel più fermo onde lei cinse.
LVIII.
Così se ‘l corpo libertà riebbe,
Fu l’alma sempre in servitute astretta.
Ben molto a lei d’abbandonar increbbe
460 Il signor caro, e la prigion diletta;
Ma l’onestà regal, che mai non debbe
Da magnanima donna esser negletta,
La costrinse a partirsi, e con l’antica
464 Madre a ricoverarsi in terra amica.
LIX.
Venne a Gerusalemme, e quivi accolta
Fu dal Tiranno del paese Ebreo;
Ma tosto pianse, in nere spoglie avvolta,
468 Della sua genitrice il fato reo.
Pur, nè ‘l duol che le sia per morte tolta,
Nè l’esilio infelice unqua poteo
L’amoroso desio sveller dal core,
472 Nè favilla ammorzar di tanto ardore.
LX.
Ama, ed arde la misera, e sì poco
In tale stato chè sperar le avanza,
Che nudrisce nel sen l’occulto foco,
476 Di memoria via più, che di speranza:
E quanto è chiuso in più secreto loco,
Tanto ha l’incendio suo maggior possanza.
Tancredi alfine, a risvegliar sua spene,
480 Sovra Gerusalemme ad oste viene.
LXI.
Sbigottir gli altri all’apparir di tante
Nazioni, e sì indomite, e sì fere;
Fè sereno ella il torbido sembiante,
484 E lieta vagheggiò le squadre altere:
E con avidi sguardi il caro amante
Cercando gía fra quelle armate schiere.
Cercollo invan sovente, ed anco spesso
488 Raffigurollo; e disse: egli è pur desso.
LXII.
Nel palagio regal sublime sorge
Antica torre assai presso alle mura:
Dalla cui sommità tutta si scorge
492 L’oste Cristiana, e ‘l monte, e la pianura.
Quivi, da che il suo lume il Sol ne porge,
Infin che poi la notte il mondo oscura,
S’asside, e gli occhj verso il campo gira,
496 E co’ pensieri suoi parla, e sospira.
LXIII.
Quinci vide la pugna, e ‘l cor nel petto
Sentì tremarsi in quel punto sì forte,
Che parea che dicesse: il tuo diletto
500 È quegli là, che in rischio è della morte.
Così, d’angoscia piena e di sospetto,
Mirò i successi della dubbia sorte:
E sempre che la spada il Pagan mosse,
504 Sentì nell’alma il ferro e le percosse.
LXIV.
Ma poichè ‘l vero intese, e intese ancora
Che dee l’aspra tenzon rinovellarsi;
Insolito timor così l’accora,
508 Che sente il sangue suo di ghiaccio farsi.
Talor secrete lagrime, e talora
Sono occulti da lei gemiti sparsi:
Pallida, esangue, e sbigottita in atto,
512 Lo spavento e ‘l dolor v’avea ritratto.
LXV.
Con orribile imago il suo pensiero
Ad or ad or la turba e la sgomenta:
E via più che la morte il sonno è fiero;
516 Sì strane larve il sogno le appresenta.
Parle veder l’amato cavaliero
Lacero e sanguinoso: e par che senta
Ch’egli aita le chieda: e desta intanto,
520 Si trova gli occhj e ‘l s
en molle di pianto.
LXVI.
Nè sol la tema di futuro danno
Con sollecito moto il cor le scuote;
Ma delle piaghe, ch’egli avea, l’affanno
524 È cagion che quetar l’alma non puote.
E i fallaci romor, ch’intorno vanno,
Crescon le cose incognite e remote:
Sicch’ella avvisa, che vicino a morte
528 Giaccia oppresso languendo il guerrier forte.
LXVII.
E perocch’ella dalla madre apprese
Qual più secreta sia virtù dell’erbe:
E con quai carmi nelle membra offese
532 Sani ogni piaga, e ‘l duol si disacerbe:
Arte, che per usanza in quel paese
Nelle figlie de’ Re par che si serbe;
Vorria, di sua man propria, alle ferute
536 Del suo caro signor recar salute.
LXVIII.
Ella l’amato medicar desia,
E curar il nemico a lei conviene.
Pensa talor d’erba nocente e ria
540 Succo sparger in lui che l’avvelene;
Ma schiva poi la man vergine e pia
Trattar l’arti maligne, e se n’astiene.
Brama ella almen che in uso tal sia vota
544 Di sua virtude ogn’erba, ed ogni nota.
LXIX.
Nè già d’andar fra la nemica gente
Temenza avria; chè peregrina era ita:
E viste guerre e stragi avea sovente,
548 E scorsa dubbia e faticosa vita:
Sicchè per l’uso la femminea mente
Sovra la sua natura è fatta ardita:
Nè così di leggier si turba, o pave
552 Ad ogni immagin di terror men grave.
LXX.
Ma più ch’altra cagion, dal molle seno
Sgombra Amor temerario ogni paura:
E crederia fra l’ugne, e fra ‘l veneno
556 Delle Africane belve andar sicura.
Pur, se non della vita, avere almeno
Della sua fama dee temenza e cura.
E fan dubbia contesa entro al suo core
560 Duo potenti nemici Onore, e Amore.
LXXI.
L’un così le ragiona: o verginella,
Che le mie leggi insino ad or serbasti,
Io mentre ch’eri de’ nemici ancella,
564 Ti conservai la mente, e i membri casti:
E tu, libera, or vuoi perder la bella
Verginità che in prigionia guardasti?
Ahi nel tenero cor questi pensieri
568 Chi svegliar può? chè pensi?, oimè, chè speri?
LXXII.
Dunque il titolo tu d’esser pudíca
Sì poco stimi, e d’onestate il pregio;
Che te n’andrai fra nazion nemica,
572 Notturna amante, a ricercar dispregio?
Onde il superbo vincitor ti dica:
Perdesti il regno, e in un l’animo regio:
Non sei di me tu degna; e ti conceda
576 Volgare agli altri e mal gradita preda?
LXXIII.
Dall’altra parte il consiglier fallace
Con tai lusinghe al suo piacer l’alletta:
Nata non sei tu già d’orsa vorace,
580 Nè d’aspro e freddo scoglio, o giovinetta,
Ch’abbia a sprezzar d’Amor l’arco e la face,
Ed a fuggir ognor quel che diletta:
Nè petto hai tu di ferro, o di diamante,
584 Che vergogna ti sia l’esser amante.
LXXIV.
Deh vanne omai dove il desio t’invoglia.
Ma qual ti fingi vincitor crudele?
Non sai com’egli al tuo dolor si doglia,
588 Come compianga al pianto, alle querele?
Crudel sei tu, che con sì pigra voglia
Muovi a portar salute al tuo fedele.
Langue, o fera ed ingrata, il pio Tancredi:
592 E tu dell’altrui vita a cura siedi.
LXXV.
Sana tu pur Argante, acciocchè poi
Il tuo liberator sia spinto a morte.
Così disciolti avrai gli obblighi tuoi,
596 E sì bel premio fia ch’ei ne riporte.
È possibil però che non t’annoi
Quest’empio ministero or così forte,
Che la noja non basti e l’orror solo
600 A far che tu di qua ten fugga a volo?
LXXVI.
Deh ben fora all’incontro uficio umano,
E ben n’avresti tu gioja e diletto,
Se la pietosa tua medica mano
604 Avvicinassi al valoroso petto;
Chè per te fatto il tuo signor poi sano
Colorirebbe il suo smarrito aspetto:
E le bellezze sue, che spente or sono,
608 Vagheggeresti in lui, quasi tuo dono.
LXXVII.
Parte ancor poi nelle sue lodi avresti,
E nell’opre ch’ei fesse alte e famose;
Ond’egli te d’abbracciamenti onesti
612 Faria lieta, e di nozze avventurose.
Poi mostra a dito, ed onorata andresti
Fra le madri Latine, e fra le spose
Là nella bella Italia, ov’è la sede
616 Del valor vero, e della vera fede.
LXXVIII.
Da tai speranze lusingata (ahi stolta!)
Somma felicitate a se figura.
Ma pur si trova in mille dubbj avvolta,
620 Come partir si possa indi sicura:
Perchè vegghian le guardie, e sempre in volta
Van di fuori al palagio, e su le mura:
Nè porta alcuna, in tal rischio di guerra,
624 Senza grave cagion mai si disserra.
LXXIX.
Soleva Erminia in compagnia sovente
Della Guerriera far lunga dimora.
Seco la vide il Sol dall’Occidente:
628 Seco la vide la novella aurora.
E quando son del dì le luci spente,
Un sol letto le accolse ambe talora:
E null’altro pensier, che l’amoroso,
632 L’una vergine all’altra avrebbe ascoso.
LXXX.
Questo sol tiene Erminia a lei secreto,
E se udita da lei talor si lagna,
Reca ad altra cagion del cor non lieto
636 Gli affetti, e par che di sua sorte piagna.
Or in tanta amistà, senza divieto,
Venir sempre ne puote alla compagna:
Nè stanza al giunger suo giamai si serra,
640 Siavi Clorinda, o sia in consiglio, o ‘n guerra.
LXXXI.
Vennevi un giorno ch’ella in altra parte
Si ritrovava, e si fermò pensosa,
Pur tra se rivolgendo i modi e l’arte
644 Della bramata sua partenza ascosa.
Mentre in varj pensier divide e parte
L’incerto animo suo che non ha posa;
Sospese di Clorinda in alto mira
648 L’arme, e le sopravveste: allor sospira.
LXXXII.
E tra se dice, sospirando: o quanto
Beata è la fortissima Donzella!
Quant’io la invidio! e non le invidio il vanto,
652 O ‘l femminil onor dell’esser bella.
A lei non tarda i passi il lungo manto:
Nè ‘l suo valor rinchiude invida cella;
Ma veste l’armi, e se d’uscirne agogna,
656 Vassene, e non la tien tema o vergogna.
LXXXIII.
Ah perchè forti a me Natura, e ‘l Cielo
Altrettanto non fer le membra, e ‘l petto,
Onde potessi anch’io la gonna, e ‘l velo
660 Cangiar nella corazza, e nell’elmetto?
Chè sì non riterrebbe arsura, o gelo,
Non turbo, o pioggia il mio infiammato affetto;
Ch’al Sol non fossi ed al notturno lampo,
664 Accompagnata o sola, armata in
campo.
LXXXIV.
Già non avresti, o dispietato Argante,
Col mio signor pugnato tu primiero;
Ch’io sarei corsa ad incontrarlo innante,
668 E forse or fora quì mio prigionero:
E sosterria dalla nemica amante
Giogo di servitù dolce e leggiero.
E già per li suoi nodi i’ sentirei
672 Fatti soavi, e alleggeriti i miei.
LXXXV.
Ovvero a me, dalla sua destra il fianco
Sendo percosso, e riaperto il core;
Pur risanata in cotal guisa almanco
676 Colpo di ferro avria piaga d’Amore.
Ed or la mente in pace, e ‘l corpo stanco
Riposeriansi: e forse il vincitore
Degnato avrebbe il mio cenere e l’ossa
680 D’alcun onor di lagrime, e di fossa.
LXXXVI.
Ma lassa! i’ bramo non possibil cosa,
E tra folli pensier invan m’avvolgo.
Dunque io starò quì timida e dogliosa,
684 Com’una pur del vil femmineo volgo?
Ah non starò; cor mio confida, ed osa.
Perchè l’arme una volta anch’io non tolgo?
Perchè per breve spazio non potrolle
688 Sostener, benchè sia debile e molle?
LXXXVII.
Sì potrò, sì;, chè mi farà possente
Amor, ond’alta forza i men forti hanno;
Da cui spronati ancor s’arman sovente
692 D’ardire i cervi imbelli, e guerra fanno.
Io guerreggiar non già, vuò solamente
Far con quest’armi un ingegnoso inganno:
Finger mi vuò Clorinda, e, ricoperta
696 Sotto l’immagin sua, d’uscir son certa.
LXXXVIII.
Non ardirieno a lei fare i custodi
Dell’alte porte resistenza alcuna.
Io pur ripenso, e non veggio altri modi:
700 Aperta è, credo, questa via sol’una.
Or favorisca le innocenti frodi
Amor, che le m’inspira, e la fortuna.
E ben al mio partir comoda è l’ora,
704 Mentre col Re Clorinda anco dimora.
LXXXIX.
Così risolve, e stimolata e punta
Dalle furie d’amor più non aspetta;
Ma da quella alla sua stanza congiunta
708 L’arme involate di portar s’affretta.
E far lo può, chè quando ivi fu giunta
Diè loco ogn’altro, e si restò soletta:
E la notte i suoi furti ancor copria,
712 Ch’ai ladri amica ed agli amanti uscia.
XC.
Essa veggendo il ciel, d’alcuna stella
Già sparso intorno, divenir più nero;
Senza frapporvi alcun indugio, appella
716 Secretamente un suo fedel scudiero,
Ed una sua leal diletta ancella:
E parte scopre lor del suo pensiero;
Scopre il disegno della fuga, e finge
720 Ch’altra cagione a dipartir l’astringe.
XCI.
Lo scudiero fedel subito appresta
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