Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 128

by Torquato Tasso

172 Da’ cavernosi monti esce più tarda:

  Fiume ch’alberi insieme, e case svella:

  Folgore che le torri abbatta, ed arda:

  Terremoto che ‘l mondo empia d’orrore,

  176 Son picciole sembianze al suo furore.

  XXIII.

  Non cala il ferro mai ch’appien non colga:

  Nè coglie appien che piaga anco non faccia:

  Nè piaga fa che l’alma altrui non tolga:

  180 E più direi; ma il ver di falso ha faccia.

  E par ch’egli o s’infinga, o non sen dolga,

  O non senta il ferir dell’altrui braccia;

  Sebben l’elmo percosso, in suon di squilla

  184 Rimbomba, e orribilmente arde e sfavilla.

  XXIV.

  Or quando ei solo ha quasi in fuga volto

  Quel primo stuol delle Francesche genti;

  Giungono, in guisa d’un diluvio accolto

  188 Di mille rivi, gli Arabi correnti.

  Fuggono i Franchi allora a freno sciolto,

  E misto il vincitor va tra’ fuggenti:

  E con lor entra ne’ ripari, e ‘l tutto

  192 Di ruine e d’orror s’empie, e di lutto.

  XXV.

  Porta il Soldan su l’elmo orrido e grande

  Serpe che si dilunga, e ‘l collo snoda:

  Su le zampe s’innalza, e l’ali spande,

  196 E piega in arco la forcuta coda:

  Par che tre lingue vibri, e che fuor mande

  Livida spuma, e che ‘l suo fischio s’oda:

  Ed or ch’arde la pugna, anch’ei s’infiamma

  200 Nel moto, e fumo versa insieme e fiamma.

  XXVI.

  E si mostra in quel lume a’ riguardanti

  Formidabil così l’empio Soldano,

  Come veggion nell’ombra i naviganti

  204 Fra mille lampi il torbido Oceano.

  Altri danno a la fuga i piè tremanti:

  Danno altri al ferro intrepida la mano:

  E la notte i tumulti ognor più mesce,

  208 Ed occultando i rischj, i rischj accresce.

  XXVII.

  Fra color che mostraro il cor più franco,

  Latin, sul Tebro nato, allor si mosse:

  A cui nè le fatiche il corpo stanco,

  212 Nè gli anni dome aveano ancor le posse.

  Cinque suoi figlj quasi eguali al fianco

  Gli erano sempre, ovunque in guerra ei fosse,

  D’arme gravando, anzi il lor tempo molto,

  216 Le membra ancor crescenti, e ‘l molle volto.

  XXVIII.

  Ed eccitati dal paterno esempio

  Aguzzavano al sangue il ferro, e l’ire.

  Dice egli loro: andianne ove quell’empio

  220 Veggiam ne’ fuggitivi insuperbire.

  Nè già ritardi il sanguinoso scempio,

  Ch’ei fa degli altri, in voi l’usato ardire:

  Perocchè quello, o figlj, è vile onore,

  224 Cui non adorni alcun passato orrore.

  XXIX.

  Così feroce leonessa i figlj,

  Cui dal collo la coma anco non pende,

  Nè con gli anni lor sono i feri artiglj

  228 Cresciuti, e l’arme della bocca orrende,

  Mena seco alla preda, ed ai periglj:

  E con l’esempio a incrudelir gli accende

  Nel cacciator che le natíe lor selve

  232 Turba, e fuggir fa le men forti belve.

  XXX.

  Segue il buon genitor l’incauto stuolo

  De’ cinque, e Solimano assale e cinge:

  E in un sol punto, un sol consiglio e un solo

  236 Spirito quasi, sei lunghe aste spinge.

  Ma troppo audace il suo maggior figliuolo

  L’asta abbandona, e con quel fier si stringe;

  E tenta invan, con la pungente spada,

  240 Che sotto il corridor morto gli cada.

  XXXI.

  Ma come alle procelle esposto monte,

  Che percosso dai flutti al mar sovraste,

  Sostien fermo in se stesso i tuoni, e l’onte

  244 Del Cielo irato, e i venti, e l’onde vaste;

  Così il fero Soldan l’audace fronte

  Tien salda incontro ai ferri, e incontro all’aste:

  Ed a colui, che ‘l suo destrier percuote,248Tra i ciglj parte il capo, e tra le gote.

  XXXII.

  Aramante al fratel, che giù ruina,

  Porge pietoso il braccio e lo sostiene:

  Vana e folle pietà, ch’alla ruina

  252 Altrui la sua medesma a giunger viene:

  Chè ‘l Pagan su quel braccio il ferro inchina,

  Ed atterra con lui chi a lui s’attiene.

  Caggiono entrambi, e l’un sull’altro langue,

  256 Mescolando i sospiri ultimi, e ‘l sangue.

  XXXIII.

  Quinci egli, di Sabin l’asta recisa,

  Onde il fanciullo di lontan l’infesta,

  Gli urta il cavallo addosso, e ‘l coglie in guisa,

  260 Che giù tremante il batte: indi il calpesta.

  Dal giovinetto corpo uscì divisa

  Con gran contrasto l’alma, e lasciò mesta

  L’aure soavi della vita, e i giorni

  264 Della tenera età lieti ed adorni.

  XXXIV.

  Rimanean vivi ancor Pico, e Laurente,

  Onde arricchì un sol parto il genitore:

  Similissima coppia, e che sovente

  268 Esser solea cagion di dolce errore.

  Ma se lei fè Natura indifferente,

  Differente or la fa l’ostil furore.

  Dura distinzion, ch’all’un divide

  272 Dal busto il collo, all’altro il petto incide.

  XXXV.

  Il padre (ah non più padre! ahi fera sorte,

  Ch’orbo di tanti figlj a un punto il face!)

  Rimira in cinque morti or la sua morte,

  276 E della stirpe sua che tutta giace.

  Nè so come vecchiezza abbia sì forte

  Nelle atroci miserie, e sì vivace,

  Che spiri e pugni ancor: ma gli atti, e i visi

  280 Non mirò forse de’ figliuoli uccisi.

  XXXVI.

  E di sì acerbo lutto agli occhj sui

  Parte l’amiche tenebre celaro.

  Contuttociò nulla sarebbe a lui,

  284 Senza perder se stesso, il vincer caro.

  Prodigo del suo sangue, e dell’altrui

  Avidissimamente è fatto avaro:

  Nè si conosce ben qual suo desire

  288 Paja maggior, l’uccidere o ‘l morire.

  XXXVII.

  Ma grida al suo nemico: è dunque frale

  Sì questa mano, e in guisa ella si sprezza,

  Che con ogni suo sforzo ancor non vale

  292 A provocare in me la tua fierezza?

  Tace, e percossa tira aspra e mortale

  Che le piastre e le maglie insieme spezza,

  E sul fianco gli cala e vi fa grande

  296 Piaga, onde il sangue tepido si spande.

  XXXVIII.

  A quel grido, a quel colpo, in lui converse

  Il barbaro crudel la spada e l’ira.

  Gli aprì l’usbergo, e pria lo scudo aperse,

  300 Cui sette volte un duro cuojo aggira:

  E ‘l ferro nelle viscere gl’immerse.

  Il misero Latin singhiozza e spira,

  E con vomito alterno or gli trabocca

  304 Il sangue per la piaga, or per la bocca.

  XXXIX.

  Come nell’Apennin robusta pianta,

  Che sprezzò d’Euro e d’Aquilon la guerra,

  Se turbo inusitato alfin la schianta,

  308 Gli alberi intorno ruinando atterra;

  Così cade egli, e la sua furia è tanta,

  Che più d’un seco tragge, a cui s’afferra.

  E ben d’uom sì feroce è degno fine,

  312 Che faccia ancor, morendo, alte ruine.

  XL.


  Mentre il Soldan sfogando l’odio interno

  Pasce un lungo digiun ne’ corpi umani;

  Gli Arabi inanimiti aspro governo

  316 Anch’essi fanno de’ guerrier Cristiani.

  L’Inglese Enrico, e ‘l Bavaro Oliferno

  Muojono, o fer Dragutte, alle tue mani.

  A Gilberto, a Filippo, Ariadeno

  320 Toglie la vita, i quai nacquer sul Reno.

  XLI.

  Albazar con la mazza abbatte Ernesto:

  Sotto Algazel cade Engerlan di spada.

  Ma chi narrar potria quel modo o questo

  324 Di morte, e quanta plebe ignobil cada?

  Sin da que’ primi gridi erasi desto

  Goffredo, e non istava intanto a bada.

  Già tutto è armato, e già raccolto un grosso

  328 Drappello ha seco, e già con lor s’è mosso.

  XLII.

  Egli, che dopo il grido udì il tumulto

  Che par che sempre più terribil suoni,

  Avvisò ben che repentino insulto

  332 Esser dovea degli Arabi ladroni:

  Chè già non era al Capitano occulto

  Ch’essi intorno scorrean le regioni;

  Benchè non istimò che sì fugace

  336 Vulgo, mai fosse d’assalirlo audace.

  XLIII.

  Or mentre egli ne viene, ode repente

  Arme arme replicar dall’altro lato:

  Ed in un tempo il Cielo orribilmente

  340 Intonar di barbarico ululato.

  Questa è Clorinda che del Re la gente

  Guida all’assalto, ed have Argante a lato.

  Al nobil Guelfo, che sostien sua vice,

  344 Allor si volge il Capitano, e dice:

  XLIV.

  Odi qual novo strepito di Marte

  Di verso il colle e la Città ne viene?

  D’uopo là fia che ‘l tuo valore e l’arte

  348 I primi assalti de’ nemici affrene.

  Vanne tu dunque, e là provvedi, e parte

  Vuò che di questi miei teco ne mene:

  Con gli altri io me n’andrò dall’altro canto

  352 A sostener l’impeto ostíle intanto.

  XLV.

  Così fra lor concluso, ambo gli move

  Per diverso sentiero egual fortuna.

  Al colle Guelfo, e ‘l Capitan va dove

  356 Gli Arabi omai non han contesa alcuna.

  Ma questi, andando, acquista forze, e nove

  Genti di passo in passo ognor raguna:

  Talchè, già fatto poderoso e grande,

  360 Giunge ove il fero Turco il sangue spande.

  XLVI.

  Così scendendo dal natío suo monte

  Non empie umile il Po l’angusta sponda;

  Ma sempre più, quanto è più lunge al fonte,

  364 Di nuove forze insuperbito abbonda.

  Sovra i rotti confini alza la fronte

  Di tauro, e vincitor d’intorno inonda:

  E con più corna Adria respinge; e pare

  368 Che guerra porti, e non tributo al mare.

  XLVII.

  Goffredo, ove fuggir l’impaurite

  Sue genti vede, accorre, e le minaccia.

  Qual timor, grida, è questo? ove fuggite?

  372 Guardate almen chi sia quel che vi caccia.

  Vi caccia un vile stuol, che le ferite

  Nè ricever nè dar sa nella faccia:

  E se ‘l vedranno incontra a se rivolto,

  376 Temeran l’arme sol del vostro volto.

  XLVIII.

  Punge il destrier, ciò detto, e là si volve

  Ove di Soliman gl’incendj ha scorti.

  Va per mezzo del sangue, e della polve,

  380 E de’ ferri, e de’ rischj, e delle morti.

  Con la spada e con gli urti apre e dissolve

  Le vie più chiuse, e gli ordini più forti:

  E sossopra cader fa d’ambo i lati

  384 Cavalieri e cavalli, arme ed armati.

  XLIX.

  Sovra i confusi monti, a salto a salto,

  Della profonda strage oltre cammina.

  L’intrepido Soldan, che ‘l fero assalto

  388 Sente venir, nol fugge e nol declina;

  Ma se gli spinge incontra, e ‘l ferro in alto

  Levando, per ferir, gli s’avvicina.

  O quai duo’ cavalier or la Fortuna

  392 Dagli estremi del mondo in prova aduna!

  L.

  Furor contra virtute or quì combatte

  D’Asia, in un picciol cerchio, il grande impero.

  Chi può dir come gravi e come ratte

  396 Le spade son? quanto il duello e fero?

  Passo quì cose orribili che fatte

  Furon, ma le coprì quell’aer nero:

  D’un chiarissimo Sol degne, e che tutti

  400 Siano i mortali a riguardar ridutti.

  LI.

  Il popol di Gesù dietro a tal guida,

  Audace or divenuto, oltre si spinge:

  E de’ suoi meglio armati all’omicida

  404 Soldano intorno un denso stuol si stringe.

  Nè la gente fedel più che l’infida,

  Nè più questa che quella il campo tinge;

  Ma gli uni e gli altri, e vincitori e vinti,

  408 Egualmente dan morte, e sono estinti.

  LII.

  Come pari d’ardir, con forza pare

  Quinci Austro in guerra vien, quindi Aquilone:

  Non ei fra lor, non cede il Cielo, o ‘l mare;

  412 Ma nube a nube, e flutto a flutto oppone.

  Così nè ceder qua, nè là piegare

  Si vede l’ostinata aspra tenzone.

  S’affronta insieme orribilmente, urtando

  416 Scudo a scudo, elmo ad elmo, e brando a brando.

  LIII.

  Non meno intanto son feri i litigj

  Dall’altra parte, e i guerrier folti e densi.

  Mille nuvole e più d’Angioli stigj

  420 Tutti han pieni dell’aria i campi immensi,

  E dan forza ai Pagani; onde i vestigj

  Non è chi indietro di rivolger pensi.

  E la face d’inferno Argante infiamma,

  424 Acceso ancor della sua propria fiamma.

  LIV.

  Egli ancor dal suo lato in fuga mosse

  Le guardie, e ne’ ripari entrò d’un salto.

  Di lacerate membra empiè le fosse,

  428 Appianò il calle, agevolò l’assalto:

  Sicchè gli altri il seguiro, e fer poi rosse

  Le prime tende di sanguigno smalto.

  E seco a par Clorinda, o dietro poco

  432 Sen gía, sdegnosa del secondo loco.

  LV.

  E già fuggiano i Franchi, allor che quivi

  Giunse Guelfo opportuno, e ‘l suo drappello:

  E volger fè la fronte ai fuggitivi,

  436 E sostenne il furor del popol fello.

  Così si combatteva, e ‘l sangue in rivi

  Correa egualmente in questo lato e in quello.

  Gli occhj frattanto alla battaglia rea,

  440 Dal suo gran seggio, il Re del Ciel volgea.

  LVI.

  Sedea colà, dond’egli e buono e giusto

  Dà legge al tutto, e ‘l tutto orna e produce

  Sovra i bassi confin del mondo angusto,

  444 Ove senso o ragion non si conduce.

  E della eternità nel trono augusto

  Risplendea con tre lumi in una luce.

  Ha sotto i piedi il Fato e la Natura,

  448 Ministri umíli, e ‘l moto, e chi ‘l misura;

  LVII.

  E ‘l loco, e quella che qual fumo o polve

  La gloria di qua giuso e l’oro e i regni,

  Come piace là su, disperde e volve:

  452 Nè, Diva, cura i nostri umani sdegni.

  Quivi ei così nel suo splendor s’involve,

  Che v’abbaglian la vista anco i più degni;

  D’int
orno ha innumerabili immortali

  456 Disegualmente in lor letizia eguali.

  LVIII.

  Al gran concento de’ beati carmi

  Lieta risuona la celeste reggia.

  Chiama egli a se Michele, il qual nell’armi

  460 Di lucido diamante arde e lampeggia:

  E dice a lui: non vedi or come s’armi

  Contra la mia fedel diletta greggia

  L’empia schiera d’Averno, e insin dal fondo

  464 Delle sue morti a turbar sorga il mondo?

  LIX.

  Và, dille tu, che lasci omai le cure

  Della guerra ai guerrier, cui ciò conviene:

  Nè il regno de’ viventi, nè le pure

  468 Piagge del Ciel conturbi ed avvelene.

  Torni alle notti d’Acheronte oscure,

  Suo degno albergo, alle sue giuste pene:

  Quivi se stessa, e l’anime d’abisso

  472 Cruci; così comando, e così ho fisso.

  LX.

  Quì tacque: e ‘l Duce de’ guerrieri alati

  S’inchinò riverente al divin piede.

  Indi spiega al gran volo i vanni aurati,

  476 Rapido sì ch’anco il pensiero eccede.

  Passa il foco e la luce, ove i beati

  Hanno lor gloriosa immobil sede:

  Poscia il puro cristallo, e ‘l cerchio mira

  480 Che di stelle gemmato incontra gira.

  LXI.

  Quinci d’opre diversi e di sembianti

  Da sinistra rotar Saturno, e Giove,

  E gli altri, i quali esser non ponno erranti,

  484 Se angelica virtù gl’informa e move.

  Vien poi da’ campi lieti e fiammeggianti

  D’eterno dì, là donde tuona e piove:

  Ove se stesso il mondo strugge e pasce,

  488 E nelle guerre sue muore e rinasce.

  LXII.

  Venia scuotendo con l’eterne piume

  La caligine densa, e i cupi orrori.

  S’indorava la notte al divin lume,

  492 Che spargea scintillando il volto fuori.

  Tale il Sol nelle nubi ha per costume

  Spiegar, dopo la pioggia, i bei colori.

  Tal suol, fendendo il liquido sereno,

  496 Stella cader della gran madre in seno.

  LXIII.

  Ma giunto ove la schiera empia infernale

  Il furor de’ Pagani accende e sprona;

  Si ferma in aria in sul vigor dell’ale,

  500 E vibra l’asta, e lor così ragiona:

  Pur voi dovreste omai saper con quale

  Folgore orrendo il Re del mondo tuona,

  O nel disprezzo e ne’ tormenti acerbi

  504 Dell’estrema miseria anco superbi.

  LXIV.

  Fisso è nel Ciel, ch’al venerabil segno

  Chini le mura, apra Sion le porte.

  A chè pugnar col Fato? a chè lo sdegno

  508 Dunque irritar della celeste corte?

  Itene maledetti al vostro regno,

  Regno di pene, e di perpetua morte:

  E siano in quegli a voi dovuti chiostri

 

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