Alle future età lo spieghi, e mande.
Viva la fama loro, e tra lor gloria
432 Splenda del fosco tuo l’alta memoria.
LV.
Non schivar, non parar, non ritirarsi
Voglion costor, nè quì destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
436 Toglie l’ombra e ‘l furor l’uso dell’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
A mezzo il ferro; il piè d’orma non parte:
Sempre è il piè fermo, e la man sempre in moto:
440 Nè scende taglio in van, nè punta a vuoto.
LVI.
L’onta irrita lo sdegno alla vendetta:
E la vendetta poi l’onta rinnova:
Onde sempre al ferir, sempre alla fretta
444 Stimol novo s’aggiunge, e cagion nova.
D’or in or più si mesce, e più ristretta
Si fa la pugna, e spada oprar non giova:
Dansi co’ pomi, e, infelloniti e crudi,
448 Cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
LVII.
Tre volte il Cavalier la donna stringe
Con le robuste braccia: ed altrettante
Da que’ nodi tenaci ella si scinge;
452 Nodi di fier nemico, e non d’amante.
Tornano al ferro: e l’uno e l’altro il tinge
Con molte piaghe, e stanco ed anelante
E questi e quegli alfin pur si ritira,
456 E dopo lungo faticar respira.
LVIII.
L’un l’altro guarda, e del suo corpo esangue
Sul pomo della spada appoggia il peso.
Già dell’ultima stella il raggio langue
460 Al primo albór ch’è in Oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
Del suo nemico, e sè non tanto offeso.
Ne gode, e superbisce. Oh nostra folle
464 Mente, ch’ogni aura di fortuna estolle!
LIX.
Misero, di che godi? oh quanto mesti
Fiano i trionfi, ed infelice il vanto!
Gli occhj tuoi pagheran (se in vita resti)
468 Di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimirando, questi
Sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio alfin Tancredi, e disse,
472 Perchè il suo nome a lui l’altro scoprisse:
LX.
Nostra sventura è ben che quì s’impieghi
Tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poichè sorte rea vien che ci neghi
476 E lode, e testimon degno dell’opra:
Pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
Che ‘l tuo nome e ‘l tuo stato a me tu scopra:
Acciocch’io sappia o vinto, o vincitore,
480 Chi la mia morte, o la vittoria onore.
LXI.
Risponde la feroce: indarno chiedi
Quel ch’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi
484 Un di que’ due che la gran torre accese.
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
E, in mal punto il dicesti, indi riprese:
Il tuo dir e ‘l tacer di par m’alletta,
488 Barbaro discortese, alla vendetta.
LXII.
Torna l’ira ne’ cori, e gli trasporta,
Benchè debili, in guerra. Oh fera pugna;
U’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta:
492 Ove in vece d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
Fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna
Nell’arme e nelle carni! e se la vita
496 Non esce, sdegno tienla al petto unita.
LXIII.
Qual l’alto Egeo, perchè Aquilone o Noto
Cessi, che tutto prima il volse e scosse,
Non s’accheta però; ma ‘l suono e ‘l moto
500 Ritien dell’onde anco agitate e grosse;
Tal, sebben manca in lor col sangue voto
Quel vigor che le braccia ai colpi mosse;
Serbano ancor l’impeto primo, e vanno
504 Da quel sospinti a giunger danno a danno.
LXIV.
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
Che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,
508 Che vi s’immerge, e ‘l sangue avido beve:
E la vesta, che d’or vago trapunta
Le mammelle stringea tenera e leve,
L’empie d’un caldo fiume: ella già sente
512 Morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.
LXV.
Segue egli la vittoria, e la trafitta
Vergine, minacciando, incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
516 Movendo, disse le parole estreme:
Parole ch’a lei novo un spirto ditta;
Spirto di fe, di carità, di speme:
Virtù ch’or Dio le infonde: e se rubella
520 In vita fu, la vuole in morte ancella.
LXVI.
Amico hai vinto; io ti perdon: perdona
Tu ancora, al corpo no che nulla pave,
All’alma si: deh per lei prega, e dona
524 Battesmo a me, ch’ogni mia colpa lave.
In queste voci languide risuona
Un non so che di flebile e soave
Ch’al cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza,
528 E gli occhj a lagrimar gli invoglia e sforza.
LXVII.
Poco quindi lontan nel sen del monte
Scaturia, mormorando, un picciol rio.
Egli v’accorse, e l’elmo empiè nel fonte,
532 E tornò mesto al grande uficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte,
Non conosciuta ancor, sciolse e scoprío.
La vide, la conobbe; e restò senza
536 E voce, e moto. Ahi vista, ahi conoscenza!
LXVIII.
Non morì già; chè sua virtute accolse
Tutta in quel punto, e in guardia al cor la mise:
E, premendo il suo affanno, a dar si volse
540 Vita con l’acqua a chi col ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
Colei di gioja trasmutossi, e rise:
E in atto di morir lieto e vivace
544 Dir parea: s’apre il Cielo: io vado in pace.
LXIX.
D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
Come a’ giglj sarian miste viole:
E gli occhj al Cielo affisa, e in lei converso
548 Sembra, per la pietate, il Cielo e ‘l Sole:
E la man nuda e fredda alzando verso
Il cavaliero, in vece di parole,
Gli dà pegno di pace: in questa forma
552 Passa la bella donna, e par che dorma.
....................In questa forma
Passa la bella donna, e par che dorma.
LXX.
Come l’alma gentile uscita ei vede,
Rallenta quel vigor ch’avea raccolto:
E l’imperio di se libero cede
556 Al duol già fatto impetuoso e stolto,
Ch’al cor si stringe, e, chiusa in breve sede
La vita, empie di morte i sensi e ‘l volto.
Già simile all’estinto il vivo langue
560 Al colore, al silenzio, agli atti, al sangue.
LXXI.
E ben la vita sua, sdegnosa e schiva
Spezzando a forza il suo ritegno frale,
La bella anima sciolta alfin seguiva,
564 Che poco innanzi a lei spiegava l’ale;
Ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,
Cui trae bisogno d’acqua, o d’altro tale;
E con la donna il cavalier ne porta,
568 In se mal
vivo, e morto in lei ch’è morta.
LXXII.
Perocchè ‘l Duce loro ancor discosto
Conosce all’arme il principe Cristiano.
Onde v’accorre, e poi ravvisa tosto
572 La vaga estinta, e duolsi al caso strano.
E già lasciar non vuole ai lupi esposto
Il bel corpo che stima ancor Pagano.
Ma sovra l’altrui braccia ambi gli pone,
576 E ne vien di Tancredi al padiglione.
LXXIII.
Affatto ancor nel piano e lento moto
Non si risente il cavalier ferito:
Pur fievolmente geme, e quinci è noto
580 Che ‘l suo corso vital non è finito.
Ma l’altro corpo tacito ed immoto
Dimostra ben che n’è lo spirto uscito.
Così portati e l’uno e l’altro appresso,
584 Ma in differente stanza alfine è messo.
LXXIV.
I pietosi scudier già sono intorno
Con varj ufizj al cavalier giacente:
E già sen riede ai languidi occhj il giorno,
588 E le mediche mani e i detti ei sente.
Ma pur dubbiosa ancor del suo ritorno
Non s’assicura attonita la mente.
Stupido intorno ei guarda, e i servi e ‘l loco
592 Alfin conosce; e dice afflitto e fioco:
LXXV.
Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
Rai miro ancor di questo infausto die?
Dì testimon de’ miei misfatti ascosi,
596 Che rimprovera a me le colpe mie.
Ahi man timida e lenta, or che non osi,
Tu che sai tutte del ferir le vie,
Tu ministra di morte empia ed infame,
600 Di questa vita rea troncar lo stame?
LXXVI.
Passa pur questo petto, e fieri scempj
Col ferro tuo crudel fà del mio core.
Ma forse, usata a’ fatti atroci ed empj,
604 Stimi pietà dar morte al mio dolore.
Dunque i’ vivrò tra memorandi esempj
Misero mostro d’infelice amore:
Misero mostro, a cui sol pena è degna
608 Dell’immensa empietà la vita indegna.
LXXVII.
Vivrò fra i miei tormenti, e fra le cure
Mie giuste furie, forsennato errante.
Paventerò l’ombre solinghe e scure
612 Che ‘l primo error mi recheranno innante;
E del Sol, che scoprì le mie sventure,
A schivo ed in orrore avrò il sembiante.
Temerò me medesmo, e da me stesso
616 Sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.
LXXVIII.
Ma dove (oh lasso me!) dove restaro
Le reliquie del corpo e bello e casto?
Ciò ch’in lui sano i miei furor lasciaro,
620 Dal furor delle fere è forse guasto.
Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro
Troppo, e pur troppo prezioso pasto!
Ahi sfortunato! in cui l’ombre e le selve
624 Irritaron me prima, e poi le belve.
LXXIX.
Io pur verrò là dove sete, e voi
Meco avrò, s’anco sete, amate spoglie.
Ma s’egli avvien che i vaghi membri suoi
628 Stati sian cibo di ferine voglie;
Vuò che la bocca stessa anco me ingoi,
E ‘l ventre chiuda me che lor raccoglie.
Onorata per me tomba e felice,
632 Ovunque sia, s’esser con lor mi lice.
LXXX.
Così parla quel misero; e gli è detto
Ch’ivi quel corpo avean per cui si duole.
Rischiarar parve il tenebroso aspetto,
636 Qual le nubi un balen che passi e vole:
E da i riposi sollevò del letto
L’inferma delle membra e tarda mole:
E traendo a gran pena il fianco lasso,
640 Colà rivolse, vacillando, il passo.
LXXXI.
Ma come giunse, e vide in quel bel seno,
Opera di sua man, l’empia ferita:
E quasi un Ciel notturno anco sereno,
644 Senza splendor la faccia scolorita;
Tremò così che ne cadea, se meno
Era vicina la fedele aita.
Poi disse: o viso, che puoi far la morte
648 Dolce; ma raddolcir non puoi mia sorte;
LXXXII.
O bella destra, che ‘l soave pegno
D’amicizia e di pace a me porgesti;
Quali or, lasso, vi trovo? e qual ne vegno?
652 E voi leggiadre membra, or non son questi
Del mio ferino e scellerato sdegno
Vestigj miserabili e funesti?
O, di par con la man, luci spietate!
656 Essa le piaghe fè, voi le mirate.
LXXXIII.
Asciutte le mirate: or corra, dove
Nega d’andare il pianto, il sangue mio.
Quì tronca le parole; e come il move
660 Suo disperato di morir desio,
Squarcia le fasce e le ferite; e piove
Dalle sue piaghe esacerbate un rio.
E s’uccidea; ma quella doglia acerba,
664 Col trarlo di se stesso, in vita il serba.
LXXXIV.
Posto è sul letto, e l’anima fugace
Fu richiamata agli odiosi uficj.
Ma la garrula fama omai non tace
668 L’aspre sue angoscie e i suoi casi infelici.
Vi tragge il pio Goffredo, e la verace
Turba v’accorre de’ più degni amici.
Ma nè grave ammonir, nè parlar dolce
672 L’ostinato dell’alma affanno molce.
LXXXV.
Qual’in membro gentil piaga mortale
Tocca s’inaspra, e in lei cresce il dolore;
Tal da i dolci conforti, in sì gran male,
676 Più inacerbisce medicato il core.
Ma il venerabil Piero, a cui ne cale
Come d’agnella inferma a buon pastore,
Con parole gravissime ripiglia
680 Il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia.
LXXXVI.
O Tancredi, Tancredi, o da te stesso
Troppo diverso e da i princípj tuoi;
Chi sì t’assorda? e qual nuvol sì spesso
684 Di cecità fa che veder non puoi?
Questa sciagura tua del Cielo è un messo:
Non vedi lui? non odi i detti suoi?
Che ti sgrida, e richiama alla smarrita
688 Strada che pria segnasti, e te l’addita?
LXXXVII.
Agli atti del primiero uficio degno
Di cavalier di Cristo ei ti rappella:
Che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)
692 Drudo d’una fanciulla a Dio rubella.
Seconda avversità, pietoso sdegno
Con leve sferza di là su flagella
Tua folle colpa, e fa di tua salute
696 Te medesmo ministro; e tu’l rifiute?
LXXXVIII.
Rifiuti dunque, ahi sconoscente, il dono
Del Ciel salubre, e ‘ncontra lui t’adiri?
Misero, dove corri in abbandono
700 A’ tuoi sfrenati e rapidi martírj
Sei giunto, e pendi già cadente e prono
Sul precipizio eterno: e tu nol miri?
Miralo, prego, e te raccogli, e frena
704 Quel dolor ch’a morir doppio ti mena.
LXXXIX.
Tace: e in colui dell’un morir la tema
Potè dell’altro intepidir la voglia.
Nel cor dà loco a que’ conforti, e scema
708 L’impeto interno dell’intensa doglia;
Ma non così, che ad or ad or non gema,
E che la lingua a lamentar non scioglia,
Ora seco parlando, or con la sciolta
712 Anima, che dal Ciel forse l’ascolt
a.
XC.
Lei nel partir, lei nel tornar del Sole
Chiama con voce stanca, e prega, e plora;
Come usignuol cui ‘l villan duro invole
716 Dal nido i figlj non pennuti ancora;
Che in miserabil canto, afflitte e sole
Piange le notti, e n’empie i boschi, e l’ora.
Alfin col novo dì rinchiude alquanto
720 I lumi: e ‘l sonno in lor serpe fra ‘l pianto.
XCI.
Ed ecco, in sogno, di stellata veste
Cinta gli appar la sospirata amica
Bella assai più; ma lo splendor celeste
724 L’orna, e non toglie la notizia antica.
E, con dolce atto di pietà, le meste
Luci par che gli asciughi, e così dica:
Mira come son bella e come lieta,
728 Fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta.
XCII.
Tale i’ son, tua mercè: tu me da i vivi
Del mortal mondo, per error, togliesti:
Tu in grembo a Dio fra gl’immortali e divi,
732 Per pietà, di salir degna mi festi.
Quivi io beata amando godo, e quivi
Spero che per te loco anco s’appresti;
Ove al gran Sole e nell’eterno die
736 Vagheggerai le sue bellezze e mie.
XCIII.
Se tu medesmo non t’invídi il Cielo,
E non travii col vaneggiar de’ sensi,
Vivi, e sappi ch’io t’amo, e non te ‘l celo,
740 Quanto più creatura amar conviensi.
Così dicendo, fiammeggiò di zelo
Per gli occhj, fuor del mortal uso, accensi:
Poi nel profondo de’ suoi rai si chiuse
744 E sparve, e novo in lui conforto infuse.
XCIV.
Consolato ei si desta, e si rimette
De’ medicanti alla discreta aita.
E intanto seppellir fa le dilette
748 Membra ch’informò già la nobil vita.
E se non fu di ricche pietre elette
La tomba, e da man Dedala scolpita;
Fu scelto almeno il sasso e chi gli diede
752 Figura, quanto il tempo ivi concede.
XCV.
Quivi da faci, in lungo ordine accese,
Con nobil pompa accompagnar la feo.
E le sue arme, a un nudo pin sospese,
756 Vi spiegò sovra in forma di trofeo.
Ma come prima alzar le membra offese
Nel dì seguente il cavalier poteo,
Di riverenza pieno e di pietate,
760 Visitò le sepolte ossa onorate.
XCVI.
Giunto alla tomba ove al suo spirto vivo
Dolorosa prigione il Ciel prescrisse;
Pallido, freddo, muto, e quasi privo
764 Di movimento, al marmo gli occhj affisse.
Alfin sgorgando un lagrimoso rivo,
In un languido oimè proruppe, e disse:
O sasso amato ed onorato tanto
768 Che dentro hai le mie fiamme, e fuori il pianto:
XCVII.
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