Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 135

by Torquato Tasso


  Alle future età lo spieghi, e mande.

  Viva la fama loro, e tra lor gloria

  432 Splenda del fosco tuo l’alta memoria.

  LV.

  Non schivar, non parar, non ritirarsi

  Voglion costor, nè quì destrezza ha parte.

  Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:

  436 Toglie l’ombra e ‘l furor l’uso dell’arte.

  Odi le spade orribilmente urtarsi

  A mezzo il ferro; il piè d’orma non parte:

  Sempre è il piè fermo, e la man sempre in moto:

  440 Nè scende taglio in van, nè punta a vuoto.

  LVI.

  L’onta irrita lo sdegno alla vendetta:

  E la vendetta poi l’onta rinnova:

  Onde sempre al ferir, sempre alla fretta

  444 Stimol novo s’aggiunge, e cagion nova.

  D’or in or più si mesce, e più ristretta

  Si fa la pugna, e spada oprar non giova:

  Dansi co’ pomi, e, infelloniti e crudi,

  448 Cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

  LVII.

  Tre volte il Cavalier la donna stringe

  Con le robuste braccia: ed altrettante

  Da que’ nodi tenaci ella si scinge;

  452 Nodi di fier nemico, e non d’amante.

  Tornano al ferro: e l’uno e l’altro il tinge

  Con molte piaghe, e stanco ed anelante

  E questi e quegli alfin pur si ritira,

  456 E dopo lungo faticar respira.

  LVIII.

  L’un l’altro guarda, e del suo corpo esangue

  Sul pomo della spada appoggia il peso.

  Già dell’ultima stella il raggio langue

  460 Al primo albór ch’è in Oriente acceso.

  Vede Tancredi in maggior copia il sangue

  Del suo nemico, e sè non tanto offeso.

  Ne gode, e superbisce. Oh nostra folle

  464 Mente, ch’ogni aura di fortuna estolle!

  LIX.

  Misero, di che godi? oh quanto mesti

  Fiano i trionfi, ed infelice il vanto!

  Gli occhj tuoi pagheran (se in vita resti)

  468 Di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.

  Così tacendo e rimirando, questi

  Sanguinosi guerrier cessaro alquanto.

  Ruppe il silenzio alfin Tancredi, e disse,

  472 Perchè il suo nome a lui l’altro scoprisse:

  LX.

  Nostra sventura è ben che quì s’impieghi

  Tanto valor, dove silenzio il copra.

  Ma poichè sorte rea vien che ci neghi

  476 E lode, e testimon degno dell’opra:

  Pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)

  Che ‘l tuo nome e ‘l tuo stato a me tu scopra:

  Acciocch’io sappia o vinto, o vincitore,

  480 Chi la mia morte, o la vittoria onore.

  LXI.

  Risponde la feroce: indarno chiedi

  Quel ch’ho per uso di non far palese.

  Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi

  484 Un di que’ due che la gran torre accese.

  Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,

  E, in mal punto il dicesti, indi riprese:

  Il tuo dir e ‘l tacer di par m’alletta,

  488 Barbaro discortese, alla vendetta.

  LXII.

  Torna l’ira ne’ cori, e gli trasporta,

  Benchè debili, in guerra. Oh fera pugna;

  U’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta:

  492 Ove in vece d’entrambi il furor pugna!

  Oh che sanguigna e spaziosa porta

  Fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna

  Nell’arme e nelle carni! e se la vita

  496 Non esce, sdegno tienla al petto unita.

  LXIII.

  Qual l’alto Egeo, perchè Aquilone o Noto

  Cessi, che tutto prima il volse e scosse,

  Non s’accheta però; ma ‘l suono e ‘l moto

  500 Ritien dell’onde anco agitate e grosse;

  Tal, sebben manca in lor col sangue voto

  Quel vigor che le braccia ai colpi mosse;

  Serbano ancor l’impeto primo, e vanno

  504 Da quel sospinti a giunger danno a danno.

  LXIV.

  Ma ecco omai l’ora fatale è giunta

  Che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.

  Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,

  508 Che vi s’immerge, e ‘l sangue avido beve:

  E la vesta, che d’or vago trapunta

  Le mammelle stringea tenera e leve,

  L’empie d’un caldo fiume: ella già sente

  512 Morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.

  LXV.

  Segue egli la vittoria, e la trafitta

  Vergine, minacciando, incalza e preme.

  Ella, mentre cadea, la voce afflitta

  516 Movendo, disse le parole estreme:

  Parole ch’a lei novo un spirto ditta;

  Spirto di fe, di carità, di speme:

  Virtù ch’or Dio le infonde: e se rubella

  520 In vita fu, la vuole in morte ancella.

  LXVI.

  Amico hai vinto; io ti perdon: perdona

  Tu ancora, al corpo no che nulla pave,

  All’alma si: deh per lei prega, e dona

  524 Battesmo a me, ch’ogni mia colpa lave.

  In queste voci languide risuona

  Un non so che di flebile e soave

  Ch’al cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza,

  528 E gli occhj a lagrimar gli invoglia e sforza.

  LXVII.

  Poco quindi lontan nel sen del monte

  Scaturia, mormorando, un picciol rio.

  Egli v’accorse, e l’elmo empiè nel fonte,

  532 E tornò mesto al grande uficio e pio.

  Tremar sentì la man, mentre la fronte,

  Non conosciuta ancor, sciolse e scoprío.

  La vide, la conobbe; e restò senza

  536 E voce, e moto. Ahi vista, ahi conoscenza!

  LXVIII.

  Non morì già; chè sua virtute accolse

  Tutta in quel punto, e in guardia al cor la mise:

  E, premendo il suo affanno, a dar si volse

  540 Vita con l’acqua a chi col ferro uccise.

  Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,

  Colei di gioja trasmutossi, e rise:

  E in atto di morir lieto e vivace

  544 Dir parea: s’apre il Cielo: io vado in pace.

  LXIX.

  D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,

  Come a’ giglj sarian miste viole:

  E gli occhj al Cielo affisa, e in lei converso

  548 Sembra, per la pietate, il Cielo e ‘l Sole:

  E la man nuda e fredda alzando verso

  Il cavaliero, in vece di parole,

  Gli dà pegno di pace: in questa forma

  552 Passa la bella donna, e par che dorma.

  ....................In questa forma

  Passa la bella donna, e par che dorma.

  LXX.

  Come l’alma gentile uscita ei vede,

  Rallenta quel vigor ch’avea raccolto:

  E l’imperio di se libero cede

  556 Al duol già fatto impetuoso e stolto,

  Ch’al cor si stringe, e, chiusa in breve sede

  La vita, empie di morte i sensi e ‘l volto.

  Già simile all’estinto il vivo langue

  560 Al colore, al silenzio, agli atti, al sangue.

  LXXI.

  E ben la vita sua, sdegnosa e schiva

  Spezzando a forza il suo ritegno frale,

  La bella anima sciolta alfin seguiva,

  564 Che poco innanzi a lei spiegava l’ale;

  Ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,

  Cui trae bisogno d’acqua, o d’altro tale;

  E con la donna il cavalier ne porta,

  568 In se mal
vivo, e morto in lei ch’è morta.

  LXXII.

  Perocchè ‘l Duce loro ancor discosto

  Conosce all’arme il principe Cristiano.

  Onde v’accorre, e poi ravvisa tosto

  572 La vaga estinta, e duolsi al caso strano.

  E già lasciar non vuole ai lupi esposto

  Il bel corpo che stima ancor Pagano.

  Ma sovra l’altrui braccia ambi gli pone,

  576 E ne vien di Tancredi al padiglione.

  LXXIII.

  Affatto ancor nel piano e lento moto

  Non si risente il cavalier ferito:

  Pur fievolmente geme, e quinci è noto

  580 Che ‘l suo corso vital non è finito.

  Ma l’altro corpo tacito ed immoto

  Dimostra ben che n’è lo spirto uscito.

  Così portati e l’uno e l’altro appresso,

  584 Ma in differente stanza alfine è messo.

  LXXIV.

  I pietosi scudier già sono intorno

  Con varj ufizj al cavalier giacente:

  E già sen riede ai languidi occhj il giorno,

  588 E le mediche mani e i detti ei sente.

  Ma pur dubbiosa ancor del suo ritorno

  Non s’assicura attonita la mente.

  Stupido intorno ei guarda, e i servi e ‘l loco

  592 Alfin conosce; e dice afflitto e fioco:

  LXXV.

  Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi

  Rai miro ancor di questo infausto die?

  Dì testimon de’ miei misfatti ascosi,

  596 Che rimprovera a me le colpe mie.

  Ahi man timida e lenta, or che non osi,

  Tu che sai tutte del ferir le vie,

  Tu ministra di morte empia ed infame,

  600 Di questa vita rea troncar lo stame?

  LXXVI.

  Passa pur questo petto, e fieri scempj

  Col ferro tuo crudel fà del mio core.

  Ma forse, usata a’ fatti atroci ed empj,

  604 Stimi pietà dar morte al mio dolore.

  Dunque i’ vivrò tra memorandi esempj

  Misero mostro d’infelice amore:

  Misero mostro, a cui sol pena è degna

  608 Dell’immensa empietà la vita indegna.

  LXXVII.

  Vivrò fra i miei tormenti, e fra le cure

  Mie giuste furie, forsennato errante.

  Paventerò l’ombre solinghe e scure

  612 Che ‘l primo error mi recheranno innante;

  E del Sol, che scoprì le mie sventure,

  A schivo ed in orrore avrò il sembiante.

  Temerò me medesmo, e da me stesso

  616 Sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.

  LXXVIII.

  Ma dove (oh lasso me!) dove restaro

  Le reliquie del corpo e bello e casto?

  Ciò ch’in lui sano i miei furor lasciaro,

  620 Dal furor delle fere è forse guasto.

  Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro

  Troppo, e pur troppo prezioso pasto!

  Ahi sfortunato! in cui l’ombre e le selve

  624 Irritaron me prima, e poi le belve.

  LXXIX.

  Io pur verrò là dove sete, e voi

  Meco avrò, s’anco sete, amate spoglie.

  Ma s’egli avvien che i vaghi membri suoi

  628 Stati sian cibo di ferine voglie;

  Vuò che la bocca stessa anco me ingoi,

  E ‘l ventre chiuda me che lor raccoglie.

  Onorata per me tomba e felice,

  632 Ovunque sia, s’esser con lor mi lice.

  LXXX.

  Così parla quel misero; e gli è detto

  Ch’ivi quel corpo avean per cui si duole.

  Rischiarar parve il tenebroso aspetto,

  636 Qual le nubi un balen che passi e vole:

  E da i riposi sollevò del letto

  L’inferma delle membra e tarda mole:

  E traendo a gran pena il fianco lasso,

  640 Colà rivolse, vacillando, il passo.

  LXXXI.

  Ma come giunse, e vide in quel bel seno,

  Opera di sua man, l’empia ferita:

  E quasi un Ciel notturno anco sereno,

  644 Senza splendor la faccia scolorita;

  Tremò così che ne cadea, se meno

  Era vicina la fedele aita.

  Poi disse: o viso, che puoi far la morte

  648 Dolce; ma raddolcir non puoi mia sorte;

  LXXXII.

  O bella destra, che ‘l soave pegno

  D’amicizia e di pace a me porgesti;

  Quali or, lasso, vi trovo? e qual ne vegno?

  652 E voi leggiadre membra, or non son questi

  Del mio ferino e scellerato sdegno

  Vestigj miserabili e funesti?

  O, di par con la man, luci spietate!

  656 Essa le piaghe fè, voi le mirate.

  LXXXIII.

  Asciutte le mirate: or corra, dove

  Nega d’andare il pianto, il sangue mio.

  Quì tronca le parole; e come il move

  660 Suo disperato di morir desio,

  Squarcia le fasce e le ferite; e piove

  Dalle sue piaghe esacerbate un rio.

  E s’uccidea; ma quella doglia acerba,

  664 Col trarlo di se stesso, in vita il serba.

  LXXXIV.

  Posto è sul letto, e l’anima fugace

  Fu richiamata agli odiosi uficj.

  Ma la garrula fama omai non tace

  668 L’aspre sue angoscie e i suoi casi infelici.

  Vi tragge il pio Goffredo, e la verace

  Turba v’accorre de’ più degni amici.

  Ma nè grave ammonir, nè parlar dolce

  672 L’ostinato dell’alma affanno molce.

  LXXXV.

  Qual’in membro gentil piaga mortale

  Tocca s’inaspra, e in lei cresce il dolore;

  Tal da i dolci conforti, in sì gran male,

  676 Più inacerbisce medicato il core.

  Ma il venerabil Piero, a cui ne cale

  Come d’agnella inferma a buon pastore,

  Con parole gravissime ripiglia

  680 Il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia.

  LXXXVI.

  O Tancredi, Tancredi, o da te stesso

  Troppo diverso e da i princípj tuoi;

  Chi sì t’assorda? e qual nuvol sì spesso

  684 Di cecità fa che veder non puoi?

  Questa sciagura tua del Cielo è un messo:

  Non vedi lui? non odi i detti suoi?

  Che ti sgrida, e richiama alla smarrita

  688 Strada che pria segnasti, e te l’addita?

  LXXXVII.

  Agli atti del primiero uficio degno

  Di cavalier di Cristo ei ti rappella:

  Che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)

  692 Drudo d’una fanciulla a Dio rubella.

  Seconda avversità, pietoso sdegno

  Con leve sferza di là su flagella

  Tua folle colpa, e fa di tua salute

  696 Te medesmo ministro; e tu’l rifiute?

  LXXXVIII.

  Rifiuti dunque, ahi sconoscente, il dono

  Del Ciel salubre, e ‘ncontra lui t’adiri?

  Misero, dove corri in abbandono

  700 A’ tuoi sfrenati e rapidi martírj

  Sei giunto, e pendi già cadente e prono

  Sul precipizio eterno: e tu nol miri?

  Miralo, prego, e te raccogli, e frena

  704 Quel dolor ch’a morir doppio ti mena.

  LXXXIX.

  Tace: e in colui dell’un morir la tema

  Potè dell’altro intepidir la voglia.

  Nel cor dà loco a que’ conforti, e scema

  708 L’impeto interno dell’intensa doglia;

  Ma non così, che ad or ad or non gema,

  E che la lingua a lamentar non scioglia,

  Ora seco parlando, or con la sciolta

  712 Anima, che dal Ciel forse l’ascolt
a.

  XC.

  Lei nel partir, lei nel tornar del Sole

  Chiama con voce stanca, e prega, e plora;

  Come usignuol cui ‘l villan duro invole

  716 Dal nido i figlj non pennuti ancora;

  Che in miserabil canto, afflitte e sole

  Piange le notti, e n’empie i boschi, e l’ora.

  Alfin col novo dì rinchiude alquanto

  720 I lumi: e ‘l sonno in lor serpe fra ‘l pianto.

  XCI.

  Ed ecco, in sogno, di stellata veste

  Cinta gli appar la sospirata amica

  Bella assai più; ma lo splendor celeste

  724 L’orna, e non toglie la notizia antica.

  E, con dolce atto di pietà, le meste

  Luci par che gli asciughi, e così dica:

  Mira come son bella e come lieta,

  728 Fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta.

  XCII.

  Tale i’ son, tua mercè: tu me da i vivi

  Del mortal mondo, per error, togliesti:

  Tu in grembo a Dio fra gl’immortali e divi,

  732 Per pietà, di salir degna mi festi.

  Quivi io beata amando godo, e quivi

  Spero che per te loco anco s’appresti;

  Ove al gran Sole e nell’eterno die

  736 Vagheggerai le sue bellezze e mie.

  XCIII.

  Se tu medesmo non t’invídi il Cielo,

  E non travii col vaneggiar de’ sensi,

  Vivi, e sappi ch’io t’amo, e non te ‘l celo,

  740 Quanto più creatura amar conviensi.

  Così dicendo, fiammeggiò di zelo

  Per gli occhj, fuor del mortal uso, accensi:

  Poi nel profondo de’ suoi rai si chiuse

  744 E sparve, e novo in lui conforto infuse.

  XCIV.

  Consolato ei si desta, e si rimette

  De’ medicanti alla discreta aita.

  E intanto seppellir fa le dilette

  748 Membra ch’informò già la nobil vita.

  E se non fu di ricche pietre elette

  La tomba, e da man Dedala scolpita;

  Fu scelto almeno il sasso e chi gli diede

  752 Figura, quanto il tempo ivi concede.

  XCV.

  Quivi da faci, in lungo ordine accese,

  Con nobil pompa accompagnar la feo.

  E le sue arme, a un nudo pin sospese,

  756 Vi spiegò sovra in forma di trofeo.

  Ma come prima alzar le membra offese

  Nel dì seguente il cavalier poteo,

  Di riverenza pieno e di pietate,

  760 Visitò le sepolte ossa onorate.

  XCVI.

  Giunto alla tomba ove al suo spirto vivo

  Dolorosa prigione il Ciel prescrisse;

  Pallido, freddo, muto, e quasi privo

  764 Di movimento, al marmo gli occhj affisse.

  Alfin sgorgando un lagrimoso rivo,

  In un languido oimè proruppe, e disse:

  O sasso amato ed onorato tanto

  768 Che dentro hai le mie fiamme, e fuori il pianto:

  XCVII.

 

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