812 Giunger la torre alla Città non hanno:
Chè ‘l nerbo delle genti ha il Re in ajuto,
Ed ostinati alla difesa stanno:
E sebben quivi il muro era men fermo,
816 Di machine v’avea maggior lo schermo.
CIII.
Oltrechè, men che altrove, in questo canto
La gran mole il sentier trovò spedito.
Nè tanto arte potè, che pur alquanto
820 Di sua natura non ritegna il sito.
Fu l’alto segno di vittoria intanto
Dai difensori, e dai Guasconi udito:
Ed avvisò il Tiranno, e ‘l Tolosano,
824 Che la Città già presa è verso il piano.
CIV.
Onde Raimondo ai suoi, dall’altra parte,
Grida: o compagni, è la Città già presa.
Vinta ancor ne resiste? or soli a parte
828 Non sarem noi di sì onorata impresa?
Ma il Re cedendo alfin di là si parte:
Perch’ivi disperata è la difesa:
E sen rifugge in loco forte ed alto,
832 Ove egli spera sostener l’assalto.
CV.
Entra allor vincitore il campo tutto
Per le mura non sol, ma per le porte.
Ch’è già aperto, abbattuto, arso, e distrutto
836 Ciò che lor s’opponea, rinchiuso e forte.
Spazia l’ira del ferro: e va col lutto
E con l’orror, compagni suoi, la morte.
Ristagna il sangue in gorghi, e corre in rivi
840 Pieni di corpi estinti, e di mal vivi.
Canto diciannovesimo
ARGOMENTO.
Intera palma del famoso Argante
Tancredi ottiene in singolar tenzone.
Salvo è il Re nella rocca. Erminia ha innante
Vafrino; e questa a lui gran cose espone.
Riede instrutto: ella è seco; e ‘l caro amante
Di lei trovano esangue in sul sabbione.
Piange ella, e ‘l cura poi. Goffredo intende
Quali insidie il Pagan contra gli tende.
CANTO DECIMONONO.
I.
Già la morte, o il consiglio, o la paura
Dalle difese ogni Pagano ha tolto:
E sol non s’è dall’espugnate mura
4 Il pertinace Argante anco rivolto.
Mostra ei la faccia intrepida e sicura,
E pugna pur fra gli avversarj avvolto,
Più che morir, temendo esser rispinto:
8 E vuol morendo anco parer non vinto.
II.
Ma sovra ogni altro feritore infesto
Sovraggiunge Tancredi e lui percote.
Ben è il Circasso a riconoscer presto,
12 Al portamento agli atti all’arme note,
Lui che pugnò già seco, e ‘l giorno sesto
Tornar promise, e le promesse ir vote.
Onde gridò: così la fe, Tancredi,
16 Mi servi tu? così alla pugna or riedi?
III.
Tardi riedi, e non solo. Io non rifiuto
Però combatter teco, e riprovarmi;
Benchè non qual guerrier, ma quì venuto
20 Quasi inventor di machine tu parmi.
Fatti scudo de’ tuoi: trova in ajuto
Novi ordigni di guerra, e insolite armi;
Chè non potrai dalle mie mani, o forte
24 Delle donne uccisor, fuggir la morte.
IV.
Sorrise il buon Tancredi un cotal riso
Di sdegno, e in detti alteri ebbe risposto:
Tardo è il ritorno mio; ma pur avviso
28 Che frettoloso e’ ti parrà ben tosto:
E bramerai che te da me diviso
O l’alpe avesse, o fosse il mar frapposto;
E che del mio indugiar non fu cagione
32 Tema o viltà, vedrai col paragone.
V.
Vienne in disparte pur, tu che omicida
Sei de’ giganti solo e degli eroi:
L’uccisor delle femmine ti sfida.
36 Così gli dice: indi si volge ai suoi,
E fa ritrargli dall’offesa, e grida:
Cessate pur di molestarlo or voi:
Ch’è proprio mio più che comun nemico
40 Questi, ed a lui mi stringe obbligo antico.
VI.
Or discendine giù solo, o seguíto
Come più vuoi (ripiglia il fier Circasso)
Và in frequentato loco, od in romíto,
44 Chè per dubbio, o svantaggio io non ti lasso.
Sì fatto ed accettato il fero invito,
Muovon concordi alla gran lite il passo.
L’odio in un gli accompagna, e fa il rancore
48 L’un nemico dell’altro or difensore.
VII.
Grande è il zelo d’onor, grande il desire
Che Tancredi del sangue ha del Pagano;
Nè la sete ammorzar crede dell’ire,
52 Se n’esce stilla fuor per altrui mano.
E con lo scudo il copre, e: non ferire,
Grida a quanti rincontra anco lontano:
Sì che salvo il nemico infra gli amici
56 Tragge dall’arme irate e vincitrici.
VIII.
Escon della Cittade, e dan le spalle
Ai padiglion delle accampate genti:
E se ne van dove un girevol calle
60 Gli porta per secreti avvolgimenti:
E ritrovano ombrosa angusta valle
Tra più colli giacer; non altrimenti
Che se fosse un teatro: o fosse ad uso
64 Di battaglie, e di cacce intorno chiuso.
IX.
Quì si fermano entrambi: e pur sospeso
Volgeasi Argante alla Cittade afflitta.
Vede Tancredi che ‘l Pagan difeso
68 Non è di scudo, e ‘l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: or qual pensier t’ha preso?
Pensi ch’è giunta l’ora a te prescritta?
S’antivedendo ciò timido stai,
72 È il tuo timore intempestivo omai.
X.
Penso, risponde, alla Città del regno
Di Giudea antichissima Regina,
Che vinta or cade; e indarno esser sostegno
76 Io procurai della fatal ruina.
E ch’è poca vendetta al mio disdegno
Il capo tuo, che ‘l Cielo or mi destina.
Tacque, e incontra si van con gran risguardo:
80 Chè ben conosce l’un l’altro gagliardo.
XI.
È di corpo Tancredi agile e sciolto,
E di man velocissimo, e di piede.
Sovrasta a lui con l’alto capo, e molto
84 Di grossezza di membra Argante eccede.
Girar Tancredi inchino, e in se raccolto
Per avventarsi, e sottentrar si vede:
E con la spada sua la spada trova
88 Nemica, e in disviarla usa ogni prova.
XII.
Ma disteso ed eretto il fero Argante
Dimostra arte simíle, atto diverso.
Quanto egli può va col gran braccio innante:
92 E cerca il ferro no, ma il corpo avverso;
Quel tenta aditi novi in ogni instante:
Questi gli ha il ferro al volto ogn’or converso.
Minaccia, e intento a proibirgli stassi
96 Furtive entrate, e subiti trapassi.
XIII.
Così pugna naval, quando non spira
Per lo piano del mare Africo o Noto,
Fra due legni ineguali egual si mira;
100 Ch’un d’altezza preval, l’altro di moto.
L’un con volte e rivolte assale e gira
Da prora a poppa: e si sta l’altro immoto;
E quando il più leggier se gli avvicina,
104 D’alta parte minaccia alta ruina.
XIV.
Mentre il Latin di sottentrar ritenta,
Sviando il ferro che si vede oppor
re,
Vibra Argante la spada, e gli appresenta
108 La punta agli occhj: egli al riparo accorre;
Ma lei sì presta allor, sì violenta
Cala il Pagan, che ‘l difensor precorre,
E ‘l fere al fianco; e visto il fianco infermo
112 Grida: lo schermitor vinto è di schermo.
XV.
Fra lo sdegno Tancredi e la vergogna
Si rode, e lascia i soliti riguardi:
E in cotal guisa la vendetta agogna,
116 Che sua perdita stima il vincer tardi.
Sol risponde col ferro alla rampogna,
E ‘l drizza all’elmo, ove apre il passo ai guardi.
Ribatte Argante il colpo, e risoluto
120 Tancredi a mezza spada è già venuto.
XVI.
Passa veloce allor col piè sinestro,
E con la manca al dritto braccio il prende;
E con la destra intanto il lato destro
124 Di punte mortalissime gli offende.
Questa, diceva, al vincitor maestro
Il vinto schermidor risposta rende.
Freme il Circasso, e si contorce, e scuote,
128 Ma il braccio prigionier ritrar non puote.
XVII.
Alfin lasciò la spada alla catena
Pendente, e sotto al buon Latin si spinse.
Fè l’istesso Tancredi, e con gran lena
132 L’un calcò l’altro, e l’un l’altro ricinse.
Nè con più forza dall’adusta arena
Sospese Alcide il gran gigante, e strinse,
Di quella onde facean tenaci nodi
136 Le nerborute braccia in varj modi.
XVIII.
Tai fur gli avvolgimenti e tai le scosse,
Ch’ambi in un tempo il suol presser col fianco.
Argante, od arte o sua ventura fosse,
140 Sovra ha il braccio migliore, e sotto il manco.
Ma la man ch’è più atta alle percosse,
Sottogiace impedita al guerrier Franco,
Ond’ei, che ‘l suo svantaggio e ‘l rischio vede,
144 Si sviluppa dall’altro, e salta in piede.
XIX.
Sorge più tardi, e un gran fendente, in prima
Che sorto ei sia, vien sopra al Saracino.
Ma come all’Euro la frondosa cima
148 Piega, e in un tempo la solleva il pino,
Così lui sua virtute alza e sublima,
Quando ei ne gía per ricader più chino.
Or ricomincian quì colpi a vicenda.
152 La pugna ha manco d’arte, ed è più orrenda.
XX.
Esce a Tancredi in più d’un loco il sangue;
Ma ne versa il Pagan quasi torrenti.
Già nelle sceme forze il furor langue,
156 Siccome fiamma in deboli alimenti.
Tancredi che ‘l vedea col braccio esangue
Girar i colpi ad or ad or più lenti,
Dal magnanimo cor deposta l’ira,
160 Placido gli ragiona, e ‘l piè ritira.
XXI.
Cedimi, uom forte; o riconoscer voglia
Me per tuo vincitore, o la Fortuna.
Nè ricerco da te trionfo, o spoglia:
164 Nè mi riserbo in te ragione alcuna.
Terribile il Pagan, più che mai soglia,
Tutte le furie sue desta e raguna.
Risponde: or dunque il meglio aver ti vante,
168 Ed osi di viltà tentare Argante?
XXII.
Usa la sorte tua; chè nulla io temo:
Nè lascerò la tua follia impunita.
Come face rinforza anzi l’estremo
172 Le fiamme, e luminosa esce di vita;
Tal riempiendo ei d’ira il sangue scemo,
Rinvigorì la gagliardía smarrita:
E l’ore della morte omai vicine
176 Volle illustrar con generoso fine.
XXIII.
La man sinistra alla compagna accosta,
E con ambe congiunte il ferro abbassa:
Cala un fendente: e benchè trovi opposta
180 La spada ostil, la sforza ed oltre passa:
Scende alla spalla, e giù di costa in costa
Molte ferite in un sol punto lassa.
Se non teme Tancredi, il petto audace
184 Non fè natura di timor capace.
XXIV.
Quel doppia il colpo orribile, ed al vento
Le forze e l’ire inutilmente ha sparte:
Perchè Tancredi, alla percossa intento,
188 Se ne sottrasse, e si lanciò in disparte.
Tu, dal tuo peso tratto, in giù col mento
N’andasti, Argante, e non potesti aitarte:
Per te cadesti; avventuroso intanto,
192 Ch’altri non ha di tua caduta il vanto.
XXV.
Il cader dilatò le piaghe aperte,
E ‘l sangue espresso dilagando scese.
Punta ei la manca in terra, e si converte,
196 Ritto sovra un ginocchio, alle difese:
Renditi, grida: e gli fa nuove offerte,
Senza nojarlo, il vincitor cortese.
Quegli di furto intanto il ferro caccia,
200 E sul tallone il fiede: indi il minaccia.
XXVI.
Infuriossi allor Tancredi, e disse:
Così abusi, fellon, la pietà mia?
Poi la spada gli fisse, e gli rifisse
204 Nella visiera, ove accertò la via.
Moriva Argante, e tal moría qual visse:
Minacciava morendo, e non languia.
Superbi, formidabili, e feroci
208 Gli ultimi moti fur, l’ultime voci.
XXVII.
Ripon Tancredi il ferro, e poi devoto
Ringrazia Dio del trionfal onore.
Ma lasciato di forze ha quasi vuoto
212 La sanguigna vittoria il vincitore.
Teme egli assai che del viaggio al moto
Durar non possa il suo fievol vigore.
Pur s’incammina, e così passo passo
216 Per le già corse vie move il piè lasso.
XXVIII.
Trar molto il debil fianco oltra non puote,
E quanto più si sforza, più s’affanna.
Onde in terra s’asside, e pon le gote
220 Su la destra che par tremula canna.
Ciò che vedea, pargli veder che rote:
E di tenebre il dì già gli s’appanna.
Al fin isviene: e ‘l vincitor dal vinto
224 Non ben saria, nel rimirar, distinto.
XXIX.
Mentre quì segue la solinga guerra,
Che privata cagion fè così ardente,
L’ira de’ vincitor trascorre, ed erra
228 Per la Città sul popolo nocente.
Or chi giammai dell’espugnata terra
Potrebbe appien l’immagine dolente
Ritrarre in carte? od adeguar, parlando,
232 Lo spettacolo atroce e miserando?
XXX.
Ogni cosa di strage era già pieno:
Vedeansi in mucchj e in monti i corpi avvolti.
Là i feriti su i morti, e quì giacieno
236 Sotto morti insepolti egri sepolti.
Fuggian, premendo i pargoletti al seno,
Le meste madri co’ capelli sciolti;
E ‘l predator, di spoglie e di rapine
240 Carco, stringea le vergini nel crine.
XXXI.
Ma per le vie che al più sublime colle
Saglion verso Occidente, ov’è il gran Tempio,
Tutto del sangue ostíle orrido e molle
244 Rinaldo corre, e caccia il popolo empio.
La fera spada il generoso estolle
Sovra gli armati capi, e ne fa scempio.
È schermo frale ogni elmo ed ogni scudo:
248 Difesa è quì l’esser dell’arme ignudo.
XXXII.
Sol contra il ferro il nobil ferr
o adopra,
E sdegna negl’inermi esser feroce:
E quei ch’ardir non armi, arme non copra,
252 Caccia col guardo, e con l’orribil voce.
Vedresti, di valor mirabil opra,
Come or disprezza, ora minaccia, or nuoce;
Come con rischio disegual fugati
256 Sono egualmente pur nudi ed armati.
XXXIII.
Già col più imbelle volgo anco ritratto
S’è non picciolo stuol del più guerriero
Nel Tempio che, più volte arso e rifatto,
260 Si noma ancor, dal fondator primiero,
Di Salomone; e fu per lui già fatto
Di cedri, e d’oro, e di bei marmi altero.
Or non sì ricco già; pur saldo e forte
264 È d’alte torri, e di ferrate porte.
XXXIV.
Giunto il gran Cavaliero ove raccolte
S’eran le turbe in loco ampio e sublime;
Trovò chiuse le porte, e trovò molte
268 Difese apparecchiate in su le cime.
Alzò lo sguardo orribile, e due volte
Tutto il mirò dall’alte parti all’ime,
Varco angusto cercando; ed altrettante
272 Il circondò con le veloci piante.
XXXV.
Qual lupo predatore all’aer bruno
Le chiuse mandre insidiando aggira,
Secco l’avide fauci, e nel digiuno
276 Da nativo odio stimolato e d’ira;
Tale egli intorno spia s’adito alcuno
(Piano od erto che siasi) aprirsi mira.
Si ferma alfin nella gran piazza: e d’alto
280 Stanno aspettando i miseri l’assalto.
XXXVI.
In disparte giacea (qual che si fosse
L’uso a cui si serbava) eccelsa trave:
Nè così alte mai, nè così grosse
284 Spiega l’antenne sue Ligura nave.
Ver la gran porta il Cavalier la mosse
Con quella man, cui nessun pondo è grave:
E recandosi lei di lancia in modo,
288 Urtò d’incontro impetuoso e sodo.
XXXVII.
Restar non può marmo o metallo innanti
Al duro urtare, al riurtar più forte.
Svelse dal sasso i cardini sonanti:
292 Ruppe i serraglj, ed abbattè le porte.
Non l’ariete di far più si vanti;
Non la bombarda fulmine di morte.
Per la dischiusa via la gente inonda,
296 Quasi un diluvio, e ‘l vincitor seconda.
XXXVIII.
Rende misera strage atra e funesta
L’alta magion, che fu magion di Dio.
O giustizia del Ciel, quanto men presta
300 Tanto più grave sovra il popol rio!
Dal tuo secreto provveder fu desta
L’ira ne’ cor pietosi, e incrudelío.
Lavò col sangue suo l’empio Pagano
304 Quel tempio che già fatto avea profano.
XXXIX.
Ma intanto Soliman ver la gran torre
Jerusalem Delivered Page 148