Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 150

by Torquato Tasso


  648 Poi di Tancredi un tempo, e tua conserva.

  LXXXII.

  Nella dolce prigion due lieti mesi

  Pietoso prigionier m’avesti in guarda:

  E mi servisti in bei modi cortesi.

  652 Ben dessa i’ son, ben dessa i’ son: riguarda.

  Lo scudier, come pria v’ha gli occhj intesi,

  La bella faccia a ravvisar non tarda.

  Vivi (ella soggiungea) da me sicuro:

  656 Per questo Ciel, per questo Sol te ‘l giuro.

  LXXXIII.

  Anzi pregar ti vuò che, quando torni,

  Mi riconduca alla prigion mia cara.

  Torbide notti e tenebrosi giorni,

  660 Misera, vivo in libertate amara.

  E se quì per ispia forse soggiorni,

  Ti si fa incontro alta fortuna e rara.

  Saprai da me congiure, e ciò ch’altrove

  664 Malagevol sarà che tu ritrove.

  LXXXIV.

  Così gli parla; e intanto ei mira e tace;

  Pensa all’esempio della falsa Armida.

  Femina è cosa garrula e fallace:

  668 Vuole, e disvuole: è folle uom che sen fida.

  Sì tra se volge: or se venir ti piace,

  Alfin le disse, io ne sarò tua guida.

  Sia fermato tra noi questo e conchiuso

  672 Serbisi il parlar d’altro a miglior uso.

  LXXXV.

  Gli ordini danno di salire in sella

  Anzi il mover del campo allora allora.

  Parte Vafrin del padiglione, ed ella

  676 Si torna all’altre, e alquanto ivi dimora.

  Di scherzar fa sembiante, e pur favella

  Del campion novo, e se ne vien poi fuora:

  Viene al loco prescritto, e s’accompagna:680Ed escon poi del campo alla campagna.

  LXXXVI.

  Già eran giunti in parte assai romíta:

  E già sparian le Saracine tende;

  Quando ei le disse: or dì come alla vita

  684 Del pio Goffredo altri l’insidie tende.

  Allor colei della congiura ordita

  L’iniqua tela a lui dispiega e stende.

  Son (gli divisa) otto guerrier di Corte,

  688 Tra’ quali il più famoso è Ormondo il forte.

  LXXXVII.

  Questi (che che lor mova, odio o disdegno)

  Han conspirato, e l’arte lor fia tale:

  Quel dì che in lite verrà d’Asia il regno,

  692 Tra’ duo’ gran campi in gran pugna campale;

  Avran su l’arme della Croce il segno,

  E l’arme avranno alla Francesca: e quale

  La guardia di Goffredo ha bianco e d’oro

  696 Il suo vestir, sarà l’abito loro.

  LXXXVIII.

  Ma ciascun terrà cosa in su l’elmetto,

  Che noto a’ suoi per uom Pagano il faccia.

  Quando fia poi rimescolato e stretto

  700 L’un campo e l’altro, elli porransi in traccia,

  E insidieranno al valoroso petto,

  Mostrando di custodi amica faccia.

  E ‘l ferro armato di veleno avranno,

  704 Perchè mortal sia d’ogni piaga il danno.

  LXXXIX.

  E perchè fra’ Pagani anco risassi

  Ch’io so vostri usi, ed arme, e sopravveste;

  Fer che le false insegne io divisassi,708E fui costretta ad opere moleste.

  Queste son le cagion che ‘l campo io lassi:

  Fuggo l’imperiose altrui richieste.

  Schivo ed abborro in qual si voglia modo

  712 Contaminarmi in atto alcun di frodo.

  XC.

  Queste son le cagion, ma non già sole;

  E quì si tacque, e di rossor si tinse,

  E chinò gli occhj, e l’ultime parole

  716 Ritener volle, e non ben le distinse.

  Lo scudier, che da lei ritrar pur vuole

  Ciò ch’ella vergognando in se ristrinse,

  Di poca fede, disse, or perchè cele

  720 Le più vere cagioni al tuo fedele?

  XCI.

  Ella dal petto un gran sospiro apriva,

  E parlava con suon tremante e roco:

  Mal guardata vergogna intempestiva,

  724 Vattene omai; non hai tu quì più loco.

  A chè pur tenti, o in van ritrosa e schiva,

  Celar col foco tuo d’amore il foco?

  Debiti fur questi rispetti innante;728Non or, che fatta son donzella errante.

  XCII.

  Soggiunse poi: la notte a me fatale,

  Ed alla patria mia che giacque oppressa,

  Perdei più che non parve: e ‘l mio gran male

  732 Non ebbi in lei; ma derivò da essa.

  Lieve perdita è il regno; io col regale

  Mio alto stato anco perdei me stessa;

  Per mai non ricovrarla, allor perdei

  736 La mente folle, e ‘l core, e i sensi miei.

  XCIII.

  Vafrin, tu sai, che timidetta accorsi,

  Tanta strage vedendo e tante prede,

  Al tuo signore e mio, che prima i’ scorsi

  740 Armato por nella mia reggia il piede:

  E chinandomi a lui tai voci porsi:

  Invitto vincitor, pietà, mercede:

  Non prego io te per la mia vita: il fiore

  744 Salvami sol del verginale onore.

  XCIV.

  Egli, la sua porgendo alla mia mano,

  Non aspettò che ‘l mio pregar finisse:

  Vergine bella, non ricorri in vano;748Io ne sarò tuo difensor, mi disse.

  Allora un non so chè soave e piano

  Sentii ch’al cor mi scese, e vi s’affisse:

  Che serpendomi poi per l’alma vaga,

  752 Non so come, divenne incendio e piaga.

  XCV.

  Visitommi egli spesso, e in dolce suono,

  Consolando il mio duol, meco si dolse;

  Dicea: l’intera libertà ti dono,

  756 E delle spoglie mie spoglia non volse.

  Oimè, che fu rapina e parve dono:

  Chè rendendomi a me da me mi tolse.

  Quel mi rendè ch’è via men caro e degno;760Ma s’usurpò del core, a forza, il regno.

  XCVI.

  Mal amor si nasconde. A te sovente

  Desiosa i’ chiedea del mio signore.

  Veggendo i segni tu d’inferma mente:

  764 Erminia, mi dicesti, ardi d’amore.

  Io te ‘l negai; ma un mio sospiro ardente

  Fu più verace testimon del core:

  E in vece forse della lingua, il guardo

  768 Manifestava il foco onde tutt’ardo.

  XCVII.

  Sfortunato silenzio; avessi io almeno

  Chiesta allor medicina al gran martíre;

  S’esser poscia dovea lentato il freno,

  772 Quando non gioverebbe, al mio desire.

  Partimmi in somma, e le mie piaghe in seno

  Portai celate, e ne credei morire.

  Alfin, cercando al viver mio soccorso,

  776 Mi sciolse amor d’ogni rispetto il morso.

  XCVIII.

  Sicchè a trovarne il mio signor io mossi,

  Ch’egra mi fece, e mi potea far sana.

  Ma tra via fero intoppo attraversossi

  780 Di gente inclementissima e villana.

  Poco mancò che preda lor non fossi;

  Pur in parte fuggimmi erma e lontana:

  E colà vissi, in solitaria cella,

  784 Cittadina di boschi e pastorella.

  XCIX.

  Ma poichè quel desio, che fu ripresso

  Alcun dì per la tema, in me risorse;

  Tornarmi ritentando al loco stesso,

  788 La medesma sciagura anco m’occorse.

  Fuggir non potei già; ch’era omai presso

  Predatrice masnada, e troppo corse.

  Così fui presa: e quei che mi rapiro

  792 Egizj fur, ch’a Gaza indi sen giro
.

  C.

  E in don menarmi al Capitano, a cui

  Diedi di me contezza, e ‘l persuasi,

  Sicch’onorata, e inviolata fui

  796 Que’ dì che con Armida ivi rimasi.

  Così venni più volte in forza altrui,

  E men sottrassi: ecco i miei duri casi.

  Pur le prime catene anco riserva

  800 La tante volte liberata, e serva.

  CI.

  Oh! pur colui, che circondolle intorno

  All’alma sì che non fia chi le scioglia,

  Non dica: errante ancella, altro soggiorno

  804 Cercati pure: e me seco non voglia;

  Ma pietoso gradisca il mio ritorno,

  E nell’antica mia prigion m’accoglia.

  Così diceagli Erminia: e insieme andaro

  808 La notte e ‘l giorno ragionando a paro.

  CII.

  Il più usato sentier lasciò Vafrino,

  Calle cercando o più sicuro o corto.

  Giunsero in loco alla Città vicino,

  812 Quando è il Sol nell’Occaso, e imbruna l’Orto:

  E trovaron di sangue atro il cammino:

  E poi vider nel sangue un guerrier morto,

  Che le vie tutte ingombra, e la gran faccia

  816 Tien volta ai Cielo, e morto anco minaccia.

  CIII.

  L’uso dell’arme, e ‘l portamento estrano

  Pagan mostrarlo: e lo scudier trascorse.

  Un altro alquanto ne giacea lontano,

  820 Che tosto agli occhj di Vafrino occorse.

  Egli disse fra se: questi è Cristiano.

  Più il mise poscia il vestir bruno in forse.

  Salta di sella, e gli discopre il viso:

  824 Ed oimè, grida, è quì Tancredi ucciso.

  CIV.

  A riguardar sovra il guerrier feroce

  La male avventurosa era fermata;

  Quando dal suon della dolente voce

  828 Per lo mezzo del cor fu saettata.

  Al nome di Tancredi ella veloce

  Accorse in guisa d’ebra e forsennata.

  Vista la faccia scolorita e bella,

  832 Non scese no, precipitò di sella.

  CV.

  E in lui versò d’inessicabil vena

  Lacrime, e voce di sospiri mista:

  In che misero punto or quì mi mena

  836 Fortuna! ah che veduta amara e trista!

  Dopo gran tempo i’ ti ritrovo appena,

  Tancredi, e ti riveggio, e non son vista;

  Vista non son da te, benchè presente,

  840 E trovando ti perdo eternamente.

  CVI.

  Misera, non credea ch’agli occhj miei

  Potessi in alcun tempo esser nojoso:

  Or cieca farmi volentier torrei

  844 Per non vederti, e riguardar non oso.

  Oimè! de’ lumi già sì dolci e rei

  Ov’è la fiamma? ov’è il bel raggio ascoso?

  Delle fiorite guancie il bel vermiglio

  848 Ov’è fuggito? ov’è il seren del ciglio?

  CVII.

  Ma chè? squallido e scuro anco mi piaci;

  Anima bella, se quinci entro gire,

  S’odi il mio pianto, alle mie voglie audaci

  852 Perdona il furto, e ‘l temerario ardire.

  Dalle pallide labbra i freddi bacj,

  Che più caldi sperai, vuò pur rapire.

  Parte torrò di sue ragioni a morte,

  856 Baciando queste labbra esangui e smorte.

  CVIII.

  Pietosa bocca, che solevi in vita

  Consolar il mio duol di tue parole,

  Lecito sia ch’anzi la mia partita

  860 D’alcun tuo caro bacio io mi console.

  E forse allor, s’era a cercarlo ardita,

  Quel davi tu, ch’ora convien che invole.

  Lecito sia ch’ora ti stringa, e poi

  864 Versi lo spirto mio fra i labbri tuoi.

  CIX.

  Raccogli tu l’anima mia seguace:

  Drizzala tu dove la tua sen gío.

  Così parla gemendo, e si disface

  868 Quasi per gli occhj, e par conversa in rio.

  Rivenne quegli a quell’umor vivace,

  E le languide labbra alquanto aprío:

  Aprì le labbra, e, con le luci chiuse,

  872 Un suo sospir con que’ di lei confuse.

  CX.

  Sente la donna il cavalier che geme;

  E forza è pur che si conforti alquanto.

  Apri gli occhj, Tancredi, a queste estreme

  876 Esequie, grida, ch’io ti fo col pianto.

  Riguarda me, chè vuò venirne insieme

  La lunga strada, e vuò morirti accanto.

  Riguarda me: non ten fuggir sì presto.

  880 L’ultimo don ch’io ti dimando è questo.

  CXI.

  Apre Tancredi gli occhj, e poi gli abbassa

  Torbidi e gravi: ed ella pur si lagna.

  Dice Vafrino a lei: questi non passa;

  884 Curisi adunque prima, e poi si piagna.

  Egli il disarma: ella tremante e lassa

  Porge la mano all’opere compagna.

  Mira, e tratta le piaghe, e di ferute

  888 Giudice esperta, spera indi salute.

  CXII.

  Vede che ‘l mal dalla stanchezza nasce,

  E dagli umori in troppa copia sparti.

  Ma non ha, fuor che un velo, onde gli fasce

  892 Le sue ferite in sì solinghe parti.

  Amor le trova inusitate fasce,

  E di pietà le insegna insolite arti:

  Le asciugò con le chiome, e rilegolle

  896 Pur con le chiome che troncarsi volle;

  CXIII.

  Perocchè ‘l velo suo bastar non puote,

  Breve e sottile, alle sì spesse piaghe.

  Dittamo e croco non avea; ma note

  900 Per uso tal sapea potenti e maghe.

  Già il mortifero sonno ei da se scuote:

  Già può le luci alzar mobili e vaghe.

  Vede il suo servo, e la pietosa donna

  904 Sopra si mira in peregrina gonna.

  CXIV.

  Chiede: o Vafrin, quì come giungi, e quando?

  E tu chi sei, medica mia pietosa?

  Ella fra lieta e dubbia, sospirando,

  908 Tinse il bel volto di color di rosa.

  Saprai, rispose, il tutto: or (te ‘l comando,

  Come medica tua) taci, e riposa.

  Salute avrai: prepara il guiderdone.

  912 Ed al suo capo il grembo indi soppone.

  CXV.

  Pensa intanto Vafrin come all’ostello

  Agiato il porti anzi più fosca sera:

  Ed ecco di guerrier giunge un drappello.

  916 Conosce ei ben che di Tancredi è schiera.

  Quando affrontò il Circasso, e per appello

  Di battaglia chiamollo, insieme egli era.

  Non seguì lui, perch’ei non volle allora,

  920 Poi dubbioso il cercò della dimora.

  CXVI.

  Seguian molti altri la medesma inchiesta;

  Ma ritrovarlo avvien che lor succeda.

  Delle stesse lor braccia essi han contesta

  924 Quasi una sede, ov’ei s’appoggi, e sieda.

  Disse Tancredi allora: adunque resta

  Il valoroso Argante ai corvi in preda?

  Ah per Dio non si lasci, e non si frodi

  928 O della sepoltura, o delle lodi.

  CXVII.

  Nessuna a me, col busto esangue e muto,

  Riman più guerra; egli morì qual forte:

  Onde a ragion gli è quell’onor dovuto,

  932 Che solo in terra avanzo è della morte.

  Così, da molti ricevendo ajuto,

  Fa che ‘l nemico suo dietro si porte.

  Vafrino al fianco di colei si pose,

  936 Siccome uom suole alle guardate cose.

  CXVIII.

&nbs
p; Soggiunse il Prence: alla Città regale,

  Non alle tende mie vuò che si vada;

  Chè s’umano accidente a questa frale

  940 Vita sovrasta, è ben ch’ivi m’accada.

  Chè ‘l loco ove morì l’uomo immortale,

  Può forse al Cielo agevolar la strada:

  E sarà pago un mio pensier devoto

  944 D’aver peregrinato al fin del voto.

  CXIX.

  Disse; e colà portato egli fu posto

  Sovra le piume, e ‘l prese un sonno cheto.

  Vafrino alla donzella, e non discosto,

  948 Ritrova albergo assai chiuso e secreto.

  Quinci s’invia, dov’è Goffredo: e tosto

  Entra, chè non gli è fatto alcun divieto:

  Sebben allor della futura impresa

  952 In bilance i consiglj appende, e pesa.

  CXX.

  Del letto, ove la stanca egra persona

  Posa Raimondo, il Duce è sulla sponda:

  E d’ogn’intorno nobile corona

  956 De’ più potenti e più saggj il circonda.

  Or, mentre lo scudiero a lui ragiona,

  Non v’è chi d’altro chieda, o chi risponda.

  Signor, dicea, come imponesti andai

  960 Tra gl’infedeli, e ‘l campo lor cercai.

  CXXI.

  Ma non aspettar già che di quell’oste

  L’innumerabil numero ti conti.

  I’ vidi che, al passar, le valli ascoste

  964 Sotto e’ teneva e i piani tutti e i monti.

  Vidi che dove giunga, ove s’accoste,

  Spoglia la terra, e secca i fiumi e i fonti:

  Perchè non bastan l’acque alla lor sete:

  968 E poco è lor ciò che la Siria miete.

  CXXII.

  Ma sì de’ cavalier, sì de’ pedoni

  Sono in gran parte inutili le schiere:

  Gente che non intende ordini o suoni,

  972 Nè stringe ferro, e di lontan sol fere.

  Ben ve ne sono alquanti eletti e buoni

  Che seguite di Persia han le bandiere.

  E forse squadra anco migliore è quella

  976 Che la squadra immortal del Re s’appella.

  CXXIII.

  Ella è detta immortal, perchè difetto

  In quel numero mai non fu pur d’uno:

  Ma empie il loco voto, e sempre eletto

  980 Sottentra uom novo, ove ne manchi alcuno.

  Il Capitan del campo, Emiren detto,

  Pari ha in senno e in valor pochi o nessuno.

  E gli comanda il Re che provocarti

  984 Debba a pugna campal con tutte l’arti.

  CXXIV.

  Nè credo già che al dì secondo tardi

  L’esercito nemico a comparire.

  Ma tu Rinaldo assai convien che guardi

  988 Il capo, ond’è fra lor tanto desire:

  Chè i più famosi in arme, e i più gagliardi

  Gli hanno incontra arrotato il ferro e l’ire:

  Perchè Armida se stessa in guiderdone,

  992 A qual di loro il troncherà, propone.

 

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