648 Poi di Tancredi un tempo, e tua conserva.
LXXXII.
Nella dolce prigion due lieti mesi
Pietoso prigionier m’avesti in guarda:
E mi servisti in bei modi cortesi.
652 Ben dessa i’ son, ben dessa i’ son: riguarda.
Lo scudier, come pria v’ha gli occhj intesi,
La bella faccia a ravvisar non tarda.
Vivi (ella soggiungea) da me sicuro:
656 Per questo Ciel, per questo Sol te ‘l giuro.
LXXXIII.
Anzi pregar ti vuò che, quando torni,
Mi riconduca alla prigion mia cara.
Torbide notti e tenebrosi giorni,
660 Misera, vivo in libertate amara.
E se quì per ispia forse soggiorni,
Ti si fa incontro alta fortuna e rara.
Saprai da me congiure, e ciò ch’altrove
664 Malagevol sarà che tu ritrove.
LXXXIV.
Così gli parla; e intanto ei mira e tace;
Pensa all’esempio della falsa Armida.
Femina è cosa garrula e fallace:
668 Vuole, e disvuole: è folle uom che sen fida.
Sì tra se volge: or se venir ti piace,
Alfin le disse, io ne sarò tua guida.
Sia fermato tra noi questo e conchiuso
672 Serbisi il parlar d’altro a miglior uso.
LXXXV.
Gli ordini danno di salire in sella
Anzi il mover del campo allora allora.
Parte Vafrin del padiglione, ed ella
676 Si torna all’altre, e alquanto ivi dimora.
Di scherzar fa sembiante, e pur favella
Del campion novo, e se ne vien poi fuora:
Viene al loco prescritto, e s’accompagna:680Ed escon poi del campo alla campagna.
LXXXVI.
Già eran giunti in parte assai romíta:
E già sparian le Saracine tende;
Quando ei le disse: or dì come alla vita
684 Del pio Goffredo altri l’insidie tende.
Allor colei della congiura ordita
L’iniqua tela a lui dispiega e stende.
Son (gli divisa) otto guerrier di Corte,
688 Tra’ quali il più famoso è Ormondo il forte.
LXXXVII.
Questi (che che lor mova, odio o disdegno)
Han conspirato, e l’arte lor fia tale:
Quel dì che in lite verrà d’Asia il regno,
692 Tra’ duo’ gran campi in gran pugna campale;
Avran su l’arme della Croce il segno,
E l’arme avranno alla Francesca: e quale
La guardia di Goffredo ha bianco e d’oro
696 Il suo vestir, sarà l’abito loro.
LXXXVIII.
Ma ciascun terrà cosa in su l’elmetto,
Che noto a’ suoi per uom Pagano il faccia.
Quando fia poi rimescolato e stretto
700 L’un campo e l’altro, elli porransi in traccia,
E insidieranno al valoroso petto,
Mostrando di custodi amica faccia.
E ‘l ferro armato di veleno avranno,
704 Perchè mortal sia d’ogni piaga il danno.
LXXXIX.
E perchè fra’ Pagani anco risassi
Ch’io so vostri usi, ed arme, e sopravveste;
Fer che le false insegne io divisassi,708E fui costretta ad opere moleste.
Queste son le cagion che ‘l campo io lassi:
Fuggo l’imperiose altrui richieste.
Schivo ed abborro in qual si voglia modo
712 Contaminarmi in atto alcun di frodo.
XC.
Queste son le cagion, ma non già sole;
E quì si tacque, e di rossor si tinse,
E chinò gli occhj, e l’ultime parole
716 Ritener volle, e non ben le distinse.
Lo scudier, che da lei ritrar pur vuole
Ciò ch’ella vergognando in se ristrinse,
Di poca fede, disse, or perchè cele
720 Le più vere cagioni al tuo fedele?
XCI.
Ella dal petto un gran sospiro apriva,
E parlava con suon tremante e roco:
Mal guardata vergogna intempestiva,
724 Vattene omai; non hai tu quì più loco.
A chè pur tenti, o in van ritrosa e schiva,
Celar col foco tuo d’amore il foco?
Debiti fur questi rispetti innante;728Non or, che fatta son donzella errante.
XCII.
Soggiunse poi: la notte a me fatale,
Ed alla patria mia che giacque oppressa,
Perdei più che non parve: e ‘l mio gran male
732 Non ebbi in lei; ma derivò da essa.
Lieve perdita è il regno; io col regale
Mio alto stato anco perdei me stessa;
Per mai non ricovrarla, allor perdei
736 La mente folle, e ‘l core, e i sensi miei.
XCIII.
Vafrin, tu sai, che timidetta accorsi,
Tanta strage vedendo e tante prede,
Al tuo signore e mio, che prima i’ scorsi
740 Armato por nella mia reggia il piede:
E chinandomi a lui tai voci porsi:
Invitto vincitor, pietà, mercede:
Non prego io te per la mia vita: il fiore
744 Salvami sol del verginale onore.
XCIV.
Egli, la sua porgendo alla mia mano,
Non aspettò che ‘l mio pregar finisse:
Vergine bella, non ricorri in vano;748Io ne sarò tuo difensor, mi disse.
Allora un non so chè soave e piano
Sentii ch’al cor mi scese, e vi s’affisse:
Che serpendomi poi per l’alma vaga,
752 Non so come, divenne incendio e piaga.
XCV.
Visitommi egli spesso, e in dolce suono,
Consolando il mio duol, meco si dolse;
Dicea: l’intera libertà ti dono,
756 E delle spoglie mie spoglia non volse.
Oimè, che fu rapina e parve dono:
Chè rendendomi a me da me mi tolse.
Quel mi rendè ch’è via men caro e degno;760Ma s’usurpò del core, a forza, il regno.
XCVI.
Mal amor si nasconde. A te sovente
Desiosa i’ chiedea del mio signore.
Veggendo i segni tu d’inferma mente:
764 Erminia, mi dicesti, ardi d’amore.
Io te ‘l negai; ma un mio sospiro ardente
Fu più verace testimon del core:
E in vece forse della lingua, il guardo
768 Manifestava il foco onde tutt’ardo.
XCVII.
Sfortunato silenzio; avessi io almeno
Chiesta allor medicina al gran martíre;
S’esser poscia dovea lentato il freno,
772 Quando non gioverebbe, al mio desire.
Partimmi in somma, e le mie piaghe in seno
Portai celate, e ne credei morire.
Alfin, cercando al viver mio soccorso,
776 Mi sciolse amor d’ogni rispetto il morso.
XCVIII.
Sicchè a trovarne il mio signor io mossi,
Ch’egra mi fece, e mi potea far sana.
Ma tra via fero intoppo attraversossi
780 Di gente inclementissima e villana.
Poco mancò che preda lor non fossi;
Pur in parte fuggimmi erma e lontana:
E colà vissi, in solitaria cella,
784 Cittadina di boschi e pastorella.
XCIX.
Ma poichè quel desio, che fu ripresso
Alcun dì per la tema, in me risorse;
Tornarmi ritentando al loco stesso,
788 La medesma sciagura anco m’occorse.
Fuggir non potei già; ch’era omai presso
Predatrice masnada, e troppo corse.
Così fui presa: e quei che mi rapiro
792 Egizj fur, ch’a Gaza indi sen giro
.
C.
E in don menarmi al Capitano, a cui
Diedi di me contezza, e ‘l persuasi,
Sicch’onorata, e inviolata fui
796 Que’ dì che con Armida ivi rimasi.
Così venni più volte in forza altrui,
E men sottrassi: ecco i miei duri casi.
Pur le prime catene anco riserva
800 La tante volte liberata, e serva.
CI.
Oh! pur colui, che circondolle intorno
All’alma sì che non fia chi le scioglia,
Non dica: errante ancella, altro soggiorno
804 Cercati pure: e me seco non voglia;
Ma pietoso gradisca il mio ritorno,
E nell’antica mia prigion m’accoglia.
Così diceagli Erminia: e insieme andaro
808 La notte e ‘l giorno ragionando a paro.
CII.
Il più usato sentier lasciò Vafrino,
Calle cercando o più sicuro o corto.
Giunsero in loco alla Città vicino,
812 Quando è il Sol nell’Occaso, e imbruna l’Orto:
E trovaron di sangue atro il cammino:
E poi vider nel sangue un guerrier morto,
Che le vie tutte ingombra, e la gran faccia
816 Tien volta ai Cielo, e morto anco minaccia.
CIII.
L’uso dell’arme, e ‘l portamento estrano
Pagan mostrarlo: e lo scudier trascorse.
Un altro alquanto ne giacea lontano,
820 Che tosto agli occhj di Vafrino occorse.
Egli disse fra se: questi è Cristiano.
Più il mise poscia il vestir bruno in forse.
Salta di sella, e gli discopre il viso:
824 Ed oimè, grida, è quì Tancredi ucciso.
CIV.
A riguardar sovra il guerrier feroce
La male avventurosa era fermata;
Quando dal suon della dolente voce
828 Per lo mezzo del cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
Accorse in guisa d’ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
832 Non scese no, precipitò di sella.
CV.
E in lui versò d’inessicabil vena
Lacrime, e voce di sospiri mista:
In che misero punto or quì mi mena
836 Fortuna! ah che veduta amara e trista!
Dopo gran tempo i’ ti ritrovo appena,
Tancredi, e ti riveggio, e non son vista;
Vista non son da te, benchè presente,
840 E trovando ti perdo eternamente.
CVI.
Misera, non credea ch’agli occhj miei
Potessi in alcun tempo esser nojoso:
Or cieca farmi volentier torrei
844 Per non vederti, e riguardar non oso.
Oimè! de’ lumi già sì dolci e rei
Ov’è la fiamma? ov’è il bel raggio ascoso?
Delle fiorite guancie il bel vermiglio
848 Ov’è fuggito? ov’è il seren del ciglio?
CVII.
Ma chè? squallido e scuro anco mi piaci;
Anima bella, se quinci entro gire,
S’odi il mio pianto, alle mie voglie audaci
852 Perdona il furto, e ‘l temerario ardire.
Dalle pallide labbra i freddi bacj,
Che più caldi sperai, vuò pur rapire.
Parte torrò di sue ragioni a morte,
856 Baciando queste labbra esangui e smorte.
CVIII.
Pietosa bocca, che solevi in vita
Consolar il mio duol di tue parole,
Lecito sia ch’anzi la mia partita
860 D’alcun tuo caro bacio io mi console.
E forse allor, s’era a cercarlo ardita,
Quel davi tu, ch’ora convien che invole.
Lecito sia ch’ora ti stringa, e poi
864 Versi lo spirto mio fra i labbri tuoi.
CIX.
Raccogli tu l’anima mia seguace:
Drizzala tu dove la tua sen gío.
Così parla gemendo, e si disface
868 Quasi per gli occhj, e par conversa in rio.
Rivenne quegli a quell’umor vivace,
E le languide labbra alquanto aprío:
Aprì le labbra, e, con le luci chiuse,
872 Un suo sospir con que’ di lei confuse.
CX.
Sente la donna il cavalier che geme;
E forza è pur che si conforti alquanto.
Apri gli occhj, Tancredi, a queste estreme
876 Esequie, grida, ch’io ti fo col pianto.
Riguarda me, chè vuò venirne insieme
La lunga strada, e vuò morirti accanto.
Riguarda me: non ten fuggir sì presto.
880 L’ultimo don ch’io ti dimando è questo.
CXI.
Apre Tancredi gli occhj, e poi gli abbassa
Torbidi e gravi: ed ella pur si lagna.
Dice Vafrino a lei: questi non passa;
884 Curisi adunque prima, e poi si piagna.
Egli il disarma: ella tremante e lassa
Porge la mano all’opere compagna.
Mira, e tratta le piaghe, e di ferute
888 Giudice esperta, spera indi salute.
CXII.
Vede che ‘l mal dalla stanchezza nasce,
E dagli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha, fuor che un velo, onde gli fasce
892 Le sue ferite in sì solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
E di pietà le insegna insolite arti:
Le asciugò con le chiome, e rilegolle
896 Pur con le chiome che troncarsi volle;
CXIII.
Perocchè ‘l velo suo bastar non puote,
Breve e sottile, alle sì spesse piaghe.
Dittamo e croco non avea; ma note
900 Per uso tal sapea potenti e maghe.
Già il mortifero sonno ei da se scuote:
Già può le luci alzar mobili e vaghe.
Vede il suo servo, e la pietosa donna
904 Sopra si mira in peregrina gonna.
CXIV.
Chiede: o Vafrin, quì come giungi, e quando?
E tu chi sei, medica mia pietosa?
Ella fra lieta e dubbia, sospirando,
908 Tinse il bel volto di color di rosa.
Saprai, rispose, il tutto: or (te ‘l comando,
Come medica tua) taci, e riposa.
Salute avrai: prepara il guiderdone.
912 Ed al suo capo il grembo indi soppone.
CXV.
Pensa intanto Vafrin come all’ostello
Agiato il porti anzi più fosca sera:
Ed ecco di guerrier giunge un drappello.
916 Conosce ei ben che di Tancredi è schiera.
Quando affrontò il Circasso, e per appello
Di battaglia chiamollo, insieme egli era.
Non seguì lui, perch’ei non volle allora,
920 Poi dubbioso il cercò della dimora.
CXVI.
Seguian molti altri la medesma inchiesta;
Ma ritrovarlo avvien che lor succeda.
Delle stesse lor braccia essi han contesta
924 Quasi una sede, ov’ei s’appoggi, e sieda.
Disse Tancredi allora: adunque resta
Il valoroso Argante ai corvi in preda?
Ah per Dio non si lasci, e non si frodi
928 O della sepoltura, o delle lodi.
CXVII.
Nessuna a me, col busto esangue e muto,
Riman più guerra; egli morì qual forte:
Onde a ragion gli è quell’onor dovuto,
932 Che solo in terra avanzo è della morte.
Così, da molti ricevendo ajuto,
Fa che ‘l nemico suo dietro si porte.
Vafrino al fianco di colei si pose,
936 Siccome uom suole alle guardate cose.
CXVIII.
&nbs
p; Soggiunse il Prence: alla Città regale,
Non alle tende mie vuò che si vada;
Chè s’umano accidente a questa frale
940 Vita sovrasta, è ben ch’ivi m’accada.
Chè ‘l loco ove morì l’uomo immortale,
Può forse al Cielo agevolar la strada:
E sarà pago un mio pensier devoto
944 D’aver peregrinato al fin del voto.
CXIX.
Disse; e colà portato egli fu posto
Sovra le piume, e ‘l prese un sonno cheto.
Vafrino alla donzella, e non discosto,
948 Ritrova albergo assai chiuso e secreto.
Quinci s’invia, dov’è Goffredo: e tosto
Entra, chè non gli è fatto alcun divieto:
Sebben allor della futura impresa
952 In bilance i consiglj appende, e pesa.
CXX.
Del letto, ove la stanca egra persona
Posa Raimondo, il Duce è sulla sponda:
E d’ogn’intorno nobile corona
956 De’ più potenti e più saggj il circonda.
Or, mentre lo scudiero a lui ragiona,
Non v’è chi d’altro chieda, o chi risponda.
Signor, dicea, come imponesti andai
960 Tra gl’infedeli, e ‘l campo lor cercai.
CXXI.
Ma non aspettar già che di quell’oste
L’innumerabil numero ti conti.
I’ vidi che, al passar, le valli ascoste
964 Sotto e’ teneva e i piani tutti e i monti.
Vidi che dove giunga, ove s’accoste,
Spoglia la terra, e secca i fiumi e i fonti:
Perchè non bastan l’acque alla lor sete:
968 E poco è lor ciò che la Siria miete.
CXXII.
Ma sì de’ cavalier, sì de’ pedoni
Sono in gran parte inutili le schiere:
Gente che non intende ordini o suoni,
972 Nè stringe ferro, e di lontan sol fere.
Ben ve ne sono alquanti eletti e buoni
Che seguite di Persia han le bandiere.
E forse squadra anco migliore è quella
976 Che la squadra immortal del Re s’appella.
CXXIII.
Ella è detta immortal, perchè difetto
In quel numero mai non fu pur d’uno:
Ma empie il loco voto, e sempre eletto
980 Sottentra uom novo, ove ne manchi alcuno.
Il Capitan del campo, Emiren detto,
Pari ha in senno e in valor pochi o nessuno.
E gli comanda il Re che provocarti
984 Debba a pugna campal con tutte l’arti.
CXXIV.
Nè credo già che al dì secondo tardi
L’esercito nemico a comparire.
Ma tu Rinaldo assai convien che guardi
988 Il capo, ond’è fra lor tanto desire:
Chè i più famosi in arme, e i più gagliardi
Gli hanno incontra arrotato il ferro e l’ire:
Perchè Armida se stessa in guiderdone,
992 A qual di loro il troncherà, propone.
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