276 Vaghi d’aver le gloriose spoglie.
Ma lo sposo fedel, che di lei teme,
Corre in soccorso alla diletta moglie.
Così congiunta la concorde coppia,
280 Nella fida union le forze addoppia.
XXXVI.
Arte di schermo nova e non più udita
Ai magnanimi amanti usar vedresti:
Oblia di se la guardia, e l’altrui vita
284 Difende intentamente a quella e questi.
Ribatte i colpi la guerriera ardita,
Che vengono al suo caro aspri e molesti:
Egli all’arme, a lei dritte, oppon lo scudo;
288 V’opporria, s’uopo fosse, il capo ignudo.
XXXVII.
Propria l’altrui difesa, e propria face
L’uno e l’altro di lor l’altrui vendetta.
Egli dà morte ad Artabano audace,
292 Per cui di Boecan l’Isola è retta:
E per l’istessa mano Alvante giace,
Ch’osò pur di colpir la sua diletta.
Ella fra ciglio e ciglio ad Arimonte,
296 Che ‘l suo fedel battea, partì la fronte.
XXXVIII.
Tal fean de’ Persi strage: e via maggiore
La fea de’ Franchi il Re di Sarmacante:
Ch’ove il ferro volgeva o ‘l corridore,
300 Uccideva, abbattea cavallo o fante.
Felice è quì colui che prima more,
Nè geme poi sotto il destrier pesante;
Perchè il destrier (se dalla spada resta
304 Alcun mal vivo avanzo) il morde e pesta.
XXXIX.
Riman da i colpi d’Altamoro ucciso
Brunellone il membruto, Ardonio il grande.
L’elmetto all’uno e ‘l capo è sì diviso,
308 Ch’ei ne pende sugli omeri a due bande.
Trafitto è l’altro insin là dove il riso
Ha suo principio, e ‘l cor dilata e spande:
Talchè (strano spettacolo ed orrendo!)
312 Ridea sforzato, e si moria ridendo.
XL.
Nè solamente discacciò costoro
La spada micidial dal dolce mondo;
Ma spinti insieme a crudel morte foro
316 Gentonio, Guasco, Guido, e ‘l buon Rosmondo.
Or chi narrar potria quanti Altamoro
N’abbatte, e frange il suo destrier col pondo?
Chi dire i nomi delle genti uccise?
320 Chi del ferir, chi del morir le guise?
XLI.
Non è chi con quel fero omai s’affronte:
Nè chi pur lunge d’assalirlo accenne.
Sol rivolse Gildippe in lui la fronte,
324 Nè da quel dubbio paragon s’astenne.
Nulla Amazone mai sul Termodonte
Imbracciò scudo, o maneggiò bipenne
Audace sì, com’ella audace inverso
328 Al furor va del formidabil Perso.
XLII.
Ferillo, ove splendea d’oro e di smalto
Barbarico diadema in sull’elmetto:
E ‘l ruppe, e sparse; onde il superbo ed alto
332 Suo capo a forza egli è chinar costretto.
Ben di robusta man parve l’assalto
Al Re Pagano, e n’ebbe onta e dispetto:
Nè tardò in vendicar le ingiurie sue:
336 Chè l’onta e la vendetta a un tempo fue.
XLIII.
Quasi in quel punto in fronte egli percosse
La donna di ferita in modo fella;
Che d’ogni senso e di vigor la scosse:
340 Cadea; ma ‘l suo fedel la tenne in sella.
Fortuna loro, o sua virtù pur fosse;
Tanto bastogli, e non ferì più in ella;
Quasi leon magnanimo, che lassi
344 Sdegnando uom che si giaccia, e guardi e passi.
XLIV.
Ormondo intanto, alle cui fere mani
Era commessa la spietata cura,
Misto con false insegne è fra’ Cristiani:
348 E i compagni con lui di sua congiura.
Così lupi notturni, i quai di cani
Mostrin sembianza, per la nebbia oscura
Vanno alle mandre, e spían come in lor s’entre,
352 La dubbia coda ristringendo al ventre.
XLV.
Gíansi appressando: e non lontano al fianco
Del pio Goffredo il fier Pagan si mise.
Ma come il Capitan l’orato e ‘l bianco
356 Vide apparir delle sospette assise:
Ecco, gridò, quel traditor che Franco
Cerca mostrarsi in simulate guise.
Ecco i suoi congiurati in me già mossi;
360 Così dicendo, al perfido avventossi.
XLVI.
Mortalmente piagollo: e quel fellone
Non fere, non fa schermo, e non s’arretra;
Ma come innanzi agli occhj abbia ‘l Gorgone
364 (E fu cotanto audace) or gela e impetra.
Ogni spada, ed ogni asta a lor s’oppone:
E si vota in lor soli ogni faretra.
Va in tanti pezzi Ormondo e i suoi consorti,
368 Che il cadavero pur non resta ai morti.
XLVII.
Poi che di sangue ostil si vede asperso,
Entra in guerra Goffredo, e là si volve
Ove appresso vedea che il Duce Perso
372 Le più ristrette squadre apre e dissolve:
Sì che ‘l suo stuolo omai n’andria disperso
Come anzi l’Austro l’Africana polve.
Ver lui si drizza, e i suoi sgrida e minaccia,
376 E fermando chi fugge, assal chi caccia.
XLVIII.
Comincian quì le due feroci destre
Pugna, qual mai non vide Ida nè Xanto.
Ma segue altrove aspra tenzon pedestre
380 Fra Baldovino e Muleasse intanto.
Nè ferve men l’altra battaglia equestre
Appresso il colle, all’altro estremo canto,
Ove il barbaro Duce delle genti
384 Pugna in persona, e seco ha i due potenti.
XLIX.
Il rettor delle turbe, e l’un Roberto
Fan crudel zuffa: e lor virtù s’agguaglia.
Ma l’Indian dell’altro ha l’elmo aperto,
388 E l’arme tuttavia gli fende e smaglia.
Tisaferno non ha nemico certo
Che gli sia paragon degno in battaglia;
Ma scorre ove la calca appar più folta,
392 E mesce varia uccisione e molta.
L.
Così si combatteva, e in dubbia lance
Col timor le speranze eran sospese.
Pien tutto il campo è di spezzate lance,
396 Di rotti scudi, e di troncato arnese:
Di spade ai petti, alle squarciate pance
Altre confitte, altre per terra stese:
Di corpi, altri supini, altri co’ volti,
400 Quasi mordendo il suolo, al suol rivolti.
LI.
Giace il cavallo al suo signore appresso:
Giace il compagno appo il compagno estinto:
Giace il nemico appo il nemico, e spesso
404 Sul morto il vivo, il vincitor sul vinto.
Non v’è silenzio, e non v’è grido espresso;
Ma odi un non so chè roco e indistinto:
Fremiti di furor, mormori d’ira,
408 Gemiti di chi langue, e di chi spira.
LII.
L’arme, che già sì liete in vista foro,
Faceano or mostra spaventosa e mesta.
Perduti ha i lampi il ferro, i raggj l’oro:
412 Nulla vaghezza ai bei color più resta.
Quanto apparia d’adorno e di decoro
Ne’ cimieri e ne’ fregj, or si calpesta.
La polve ingombra ciò ch’al sangue avanza.
416 Tanto i campi mutata avean sembianza!
LIII.
Gli Arabi allora, e gli Eti�
�pi, e i Mori,
Che l’estremo tenean del lato manco,
Gíansi spiegando e distendendo in fuori:
420 Indi giravan de’ nemici al fianco.
Ed omai sagittarj e frombatori
Molestavan da lunge il popol Franco;
Quando Rinaldo e ‘l suo drappel si mosse:
424 E parve che tremoto, e tuono fosse.
LIV.
Assimiro di Meroe, infra l’adusto
Stuol d’Etiopia, era il primier de’ forti.
Rinaldo il colse ove s’annoda al busto
428 Il nero collo, e ‘l fè cader tra’ morti.
Poich’eccitò della vittoria il gusto
L’appetito del sangue e delle morti
Nel fero vincitore, egli fè cose
432 Incredibili, orrende, e mostruose.
LV.
Diè più morti che colpi; e pur frequente
De’ suoi gran colpi la tempesta cade.
Qual tre lingue vibrar sembra il serpente,
436 Chè la prestezza d’una il persuade;
Tal credea lui la sbigottita gente
Con la rapida man girar tre spade.
L’occhio al moto deluso il falso crede,
440 E ‘l terrore a que’ mostri accresce fede.
LVI.
I Libici Tiranni, e i negri Regi,
L’un nel sangue dell’altro a morte stese.
Dier sovra gli altri i suoi compagni egregj,
444 Cui d’emulo furor l’esempio accese.
Cadeane con orribili dispregj
L’infedel plebe, e non facea difese.
Pugna questa non è, ma strage sola,
448 Che quinci oprano il ferro, indi la gola.
LVII.
Ma non lunga stagion volgon la faccia,
Ricevendo le piaghe in nobil parte.
Fuggon le turbe: e sì il timor le caccia,
452 Ch’ogni ordinanza lor scompagna e parte.
Ma segue pur senza lasciar la traccia,
Sinchè le ha in tutto dissipate e sparte:
Poi si raccoglie il vincitor veloce,
456 Che sovra i più fugaci è men feroce.
LVIII.
Qual vento a cui s’oppone o selva o colle,
Doppia nella contesa i soffj e l’ira;
Ma con fiato più placido e più molle
460 Per le campagne libere poi spira.
Come fra scoglj il mar spuma e ribolle:
E nell’aperto onde più chete aggira.
Così quanto contrasto avea men saldo,
464 Tanto scemava il suo furor Rinaldo.
LIX.
Poichè sdegnossi in fuggitivo dorso
Le nobil’ire ir consumando invano;
Verso la fanteria voltò il suo corso,
468 Ch’ebbe l’Arabo al fianco, e l’Africano;
Or nuda è da quel lato, e chi soccorso
Dar le doveva, o giace od è lontano.
Vien da traverso, e le pedestri schiere
472 La gente d’arme impetuosa fere.
LX.
Ruppe l’aste, e gl’intoppi, e ‘l violento
Impeto vinse, e penetrò fra esse:
Le sparse, e le atterrò: tempesta o vento
476 Men tosto abbatte la pieghevol messe.
Lastricato col sangue è il pavimento
D’arme e di membra perforate e fesse:
E la cavalleria correndo il calca
480 Senza ritegno, e fera oltra sen valca.
LXI.
Giunse Rinaldo ove, sul carro aurato,
Stavasi Armida in militar sembianti:
E nobil guardia avea da ciascun lato
484 De’ baroni seguaci, e degli amanti.
Noto a più segni, egli è da lei mirato
Con occhj d’ira e di desio tremanti.
Ei si tramuta in volto un cotal poco:
488 Ella si fa di gel, divien poi foco.
LXII.
Declina il carro il Cavaliero, e passa,
E fa sembiante d’uom cui d’altro cale.
Ma senza pugna già passar non lassa
492 Il drappel congiurato il suo rivale.
Chi’l ferro stringe in lui, chi l’asta abbassa:
Ella stessa in sull’arco ha già lo strale.
Spingea le mani e incrudelia lo sdegno:
496 Ma le placava, e n’era Amor ritegno.
LXIII.
Sorse Amor contra l’ira, e fè palese
Che vive il foco suo ch’ascoso tenne.
Le man tre volte a saettar distese,
500 Tre volte essa inchinolla, e si ritenne.
Pur vinse alfin lo sdegno, e l’arco tese
E fè volar del suo quadrel le penne.
Lo stral volò; ma con lo strale un voto
504 Subito uscì, che vada il colpo a voto.
LXIV.
Torria ben ella che’l quadrel pungente
Tornasse indietro, e le tornasse al core:
Tanto poteva in lei, benchè perdente,
508 (Or che potria vittorioso?) Amore.
Ma di tal suo pensier poi si ripente:
E nel discorde sen cresce il furore.
Così or paventa, ed or desia che tocchi
512 Appieno il colpo: e ‘l segue pur con gli occhj.
LXV.
Ma non fu la percossa invan diretta,
Chè al Cavalier sul duro usbergo è giunta
Duro ben troppo a femminil saetta,
516 Chè di pungere in vece ivi si spunta.
Egli le volge il fianco: ella negletta
Esser credendo, e d’ira arsa e compunta,
Scocca l’arco più volte, e non fa piaga:
520 E mentre ella saetta, Amor lei piaga.
LXVI.
Sì dunque impenetrabile è costui,
(Fra se dicea) che forza ostil non cura?
Vestirebbe mai forse i membri sui
524 Di quel diaspro, ond’ei l’alma ha sì dura?
Colpo d’occhio o di man non puote in lui:
Di tai tempre è il rigor che l’assicura!
E inerme io vinta sono, e vinta armata:
528 Nemica, amante, egualmente sprezzata.
LXVII.
Or qual’arte novella, e qual m’avanza
Nova forma in cui possa anco mutarmi?
Misera, e nulla aver degg’io speranza
532 Ne’ cavalieri miei; chè veder parmi,
Anzi pur veggio, alla costui possanza
Tutte le forze frali e tutte l’armi.
E ben vedea de’ suoi campioni estinti
536 Altri giacerne, altri abbattuti e vinti.
LXVIII.
Soletta a sua difesa ella non basta:
E già le pare esser prigiona e serva:
Nè s’assicura (e presso l’arco ha l’asta)
540 Nell’arme di Diana, o di Minerva.
Qual’è il timido cigno a cui sovrasta,
Col fero artiglio, l’aquila proterva,
Che a terra si rannicchia, e china l’ali;
544 I suoi timidi moti eran cotali.
LXIX.
Ma il Principe Altamor, che sino allora
Fermar de’ Persi procurò lo stuolo
Ch’era già in piega, e in fuga ito sen fora,
548 Ma il ritenea (bench’a fatica) ei solo;
Or tal veggendo lei ch’amando adora,
Là si volge di corso, anzi di volo:
E ‘l suo onor abbandona e la sua schiera;
552 Purchè costei si salvi, il mondo pera.
LXX.
Al mal difeso carro egli fa scorta,
E col ferro le vie gli sgombra innante.
Ma da Rinaldo e da Goffredo è morta,
556 E fugata sua schiera in quell’istante.
Il misero se ‘l vede, e se ‘l comporta,
Assai miglior che capitano, amante.
Scorge Armida in sicuro; e torna poi,
560 Intempestiva aita, ai vinti suoi.
LXXI.
Chè da quel lato de’ Pagani il Campo
Irreparabilmente è sparso e sciolto.
Ma dall’opposto, abbandonando il campo
564 Agl’infedeli, i nostri il tergo han volto.
Ebbe l’un de’ Roberti appena scampo,
Ferito dal nemico il petto e ‘l volto:
L’altro è prigion d’Adrasto. In cotal guisa
568 La sconfitta egualmente era divisa.
LXXII.
Prende Goffredo allor tempo opportuno:
Riordina sue squadre, e fa ritorno
Senza indugio alla pugna; e così l’uno
572 Viene ad urtar nell’altro intero corno.
Tinto sen vien di sangue ostil ciascuno:
Ciascun di spoglie trionfali adorno.
La vittoria e l’onor vien da ogni parte:
576 Sta dubbia in mezzo la Fortuna, e Marte.
LXXIII.
Or mentre in guisa tal fera tenzone
È tra ‘l Fedele esercito e ‘l Pagano;
Salse in cima alla torre ad un balcone,
580 E mirò (benchè lunge) il fier Soldano,
Mirò (quasi in teatro, od in agone)
L’aspra tragedia dello stato umano:
I varj assalti, e ‘l fero orror di morte,
584 E i gran giochi del caso e della sorte.
LXXIV.
Stette attonito alquanto e stupefatto
A quelle prime viste, e poi s’accese:
E desiò trovarsi anch’egli in atto
588 Nel periglioso campo alle alte imprese.
Nè pose indugio al suo desir; ma ratto
D’elmo s’armò, ch’aveva ogni altro arnese.
Su su, gridò, non più, non più dimora,
592 Convien ch’oggi si vinca, o che si mora.
LXXV.
O che sia forse il provveder divino
Che spira in lui la furiosa mente,
Perchè quel giorno sian del Palestino
596 Imperio le reliquie in tutto spente,
O che sia ch’alla morte omai vicino
D’andarle incontra stimolar si sente;
Impetuoso e rapido disserra
600 La porta, e porta inaspettata guerra.
LXXVI.
E non aspetta pur che i feri inviti
Accettino i compagni; esce sol esso,
E sfida sol mille nemici uniti:
604 E sol fra mille, intrepido, s’è messo.
Ma dall’impeto suo quasi rapiti
Seguon poi gli altri, ed Aladino stesso.
Chi fu vil chi fu cauto or nulla teme;
608 Opera di furor più che di speme.
LXXVII.
Quel che prima ritrova il Turco atroce,
Caggiono ai colpi orribili improvvisi:
E in condur loro a morte è sì veloce,
612 Ch’uom non gli vede uccidere, ma uccisi.
Dai primieri ai sezzaj, di voce in voce,
Passa il terror, vanno i dolenti avvisi;
Tal che ‘l volgo fedel della Soria,
616 Tumultuando, già quasi fuggia.
LXXVIII.
Ma con men di terrore e di scompiglio
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