by Dante
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che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
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come fa ’l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea →
la lucente sustanza tanto chiara
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nel viso mio, che non la sostenea.
Oh Bëatrice, dolce guida e cara! →
Ella mi disse: “Quel che ti sobranza →
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è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è la sapïenza e la possanza →
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
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onde fu già sì lunga disïanza.” →
Come foco di nube si diserra →
per dilatarsi sì che non vi cape,
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e fuor di sua natura in giù s’atterra,
la mente mia così, tra quelle dape →
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
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e che si fesse rimembrar non sape. →
“Apri li occhi e riguarda qual son io; →
tu hai vedute cose, che possente
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se’ fatto a sostener lo riso mio.”
Io era come quei che si risente →
di visïone oblita e che s’ingegna →
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indarno di ridurlasi a la mente,
quand’ io udi’ questa proferta, degna →
di tanto grato, che mai non si stingue
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del libro che ’l preterito rassegna. →
Se mo sonasser tutte quelle lingue → →
che Polimnïa con le suore fero →
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del latte lor dolcissimo più pingue,
per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
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e quanto il santo aspetto facea mero;
e così, figurando il paradiso, → →
convien saltar lo sacrato poema,
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come chi trova suo cammin riciso.
Ma chi pensasse il ponderoso tema →
e l’omero mortal che se ne carca,
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nol biasmerebbe se sott’ esso trema:
non è pareggio da picciola barca → →
quel che fendendo va l’ardita prora,
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né da nocchier ch’a sé medesmo parca.
“Perché la faccia mia sì t’innamora, →
che tu non ti rivolgi al bel giardino →
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che sotto i raggi di Cristo s’infiora?
Quivi è la rosa in che ’l verbo divino →
carne si fece; quivi son li gigli
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al cui odor si prese il buon cammino.”
Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
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a la battaglia de’ debili cigli. →
Come a raggio di sol, che puro mei →
per fratta nube, già prato di fiori
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vider, coverti d’ombra, li occhi miei;
vid’ io così più turbe di splendori, →
folgorate di sù da raggi ardenti,
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sanza veder principio di folgóri.
O benigna vertù che sì li ’mprenti, →
sù t’essaltasti per largirmi loco
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a li occhi lì che non t’eran possenti.
Il nome del bel fior ch’io sempre invoco →
e mane e sera, tutto mi ristrinse
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l’animo ad avvisar lo maggior foco; →
e come ambo le luci mi dipinse →
il quale e il quanto de la viva stella
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che là sù vince come qua giù vinse, →
per entro il cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona, →
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e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona →
qua giù e più a sé l’anima tira,
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parrebbe nube che squarciata tona,
comparata al sonar di quella lira →
onde si coronava il bel zaffiro
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del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.
“Io sono amore angelico, che giro →
l’alta letizia che spira del ventre →
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che fu albergo del nostro disiro;
e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia →
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più la spera supprema perché lì entre.”
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi →
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facean sonare il nome di Maria.
Lo real manto di tutti i volumi → →
del mondo, che più ferve e più s’avviva
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ne l’alito di Dio e nei costumi,
avea sopra di noi l’interna riva →
tanto distante, che la sua parvenza,
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là dov’ io era, ancor non appariva:
però non ebber li occhi miei potenza
di seguitar la coronata fiamma
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che si levò appresso sua semenza. →
E come fantolin che ’nver’ la mamma →
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
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per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;
ciascun di quei candori in sù si stese
con la sua cima, sì che l’alto affetto
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ch’elli avieno a Maria mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
“Regina celi” cantando sì dolce, →
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che mai da me non si partì ’l diletto.
Oh quanta è l’ubertà che si soffolce → →
in quelle arche ricchissime che fuoro
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a seminar qua giù buone bobolce! →
Quivi si vive e gode del tesoro → →
che s’acquistò piangendo ne lo essilio
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di Babillòn, ove si lasciò l’oro.
Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio →
di Dio e di Maria, di sua vittoria,
e con l’antico e col novo concilio,
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colui che tien le chiavi di tal gloria.
PARADISO XXIV
“O sodalizio eletto a la gran cena → →
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
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sì, che la vostra voglia è sempre piena,
se per grazia di Dio questi preliba →
di quel che cade de la vostra mensa, →
6
prima che morte tempo li prescriba,
ponete mente a l’affezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete →
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sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa.”
Così Beatrice; e quelle anime liete →
si fero spere sopra fissi poli,
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fiammando, volte, a guisa di comete.
E come cerchi in tempra d’orïuoli →
si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
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quïeto pare, e l’ultimo che voli;
così quelle carole, differente- →
mente danzando, de la sua ricchezza
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mi facieno stimar, veloci e lente.
Di quella ch’io notai di più carezza → →
vid’ ïo uscire un foco sì felice, →
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che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice →
si volse con un canto tanto divo,
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che la mia fan
tasia nol mi ridice. →
Però salta la penna e non lo scrivo: →
ché l’imagine nostra a cotai pieghe, →
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non che ’l parlare, è troppo color vivo. →
“O santa suora mia che sì ne prieghe
divota, per lo tuo ardente affetto
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da quella bella spera mi disleghe.”
Poscia fermato, il foco benedetto →
a la mia donna dirizzò lo spiro,
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che favellò così com’ i’ ho detto.
Ed ella: “O luce etterna del gran viro →
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
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ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,
tenta costui di punti lievi e gravi, →
come ti place, intorno de la fede,
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per la qual tu su per lo mare andavi. →
S’elli ama bene e bene spera e crede, → →
non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
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dov’ ogne cosa dipinta si vede;
ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
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di lei parlare è ben ch’a lui arrivi.”
Sì come il baccialier s’arma e non parla →
fin che ’l maestro la question propone,
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per approvarla, non per terminarla, →
così m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
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a tal querente e a tal professione.
“Dì, buon Cristiano, fatti manifesto: → →
fede che è?” Ond’ io levai la fronte
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in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ïo spandessi →
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l’acqua di fuor del mio interno fonte.
“La Grazia che mi dà ch’io mi confessi,” →
comincia’ io, “da l’alto primipilo, →
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faccia li miei concetti bene espressi.”
E seguitai: “Come ’l verace stilo →
ne scrisse, padre, del tuo caro frate →
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che mise teco Roma nel buon filo,
fede è sustanza di cose sperate →
e argomento de le non parventi;
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e questa pare a me sua quiditate.”
Allora udi’: “Dirittamente senti, →
se bene intendi perché la ripuose
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tra le sustanze, e poi tra li argomenti.”
E io appresso: “Le profonde cose →
che mi largiscon qui la lor parvenza,
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a li occhi di là giù son sì ascose,
che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;
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e però di sustanza prende intenza. →
E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’ avere altra vista:
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però intenza d’argomento tene.”
Allora udi’: “Se quantunque s’acquista →
giù per dottrina, fosse così ’nteso,
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non lì avria loco ingegno di sofista.”
Così spirò di quello amore acceso;
indi soggiunse: “Assai bene è trascorsa
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d’esta moneta già la lega e ’l peso;
ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa.”
Ond’ io: “Sì ho, sì lucida e sì tonda,
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che nel suo conio nulla mi s’inforsa.”
Appresso uscì de la luce profonda
che lì splendeva: “Questa cara gioia →
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sopra la quale ogne virtù si fonda,
onde ti venne?” E io: “La larga ploia
de lo Spirito Santo, ch’è diffusa
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in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia,
è silogismo che la m’ha conchiusa
acutamente sì, che ’nverso d’ella
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ogne dimostrazion mi pare ottusa.”
Io udi’ poi: “L’antica e la novella →
proposizion che così ti conchiude,
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perché l’hai tu per vivina favella?”
E io: “La prova che ’l ver mi dischiude,
son l’opere seguite, a che natura
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non scalda ferro mai né batte incude.”
Risposto fummi: “Dì, chi t’assicura →
che quell’ opere fosser? Quel medesmo
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che vuol provarsi, non altri, il ti giura.”
“Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo,” →
diss’ io, “sanza miracoli, quest’ uno
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è tal, che li altri non sono il centesmo: →
ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
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che fu già vite e ora è fatta pruno.” →
Finito questo, l’alta corte santa
risonò per le spere un “Dio laudamo” →
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ne la melode che là sù si canta.
E quel baron che sì di ramo in ramo, → →
essaminando, già tratto m’avea,
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che a l’ultime fronde appressavamo,
ricominciò: “La Grazia, che donnea →
con la tua mente, la bocca t’aperse
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infino a qui come aprir si dovea,
sì ch’io approvo ciò che fuori emerse;
ma or convien espremer quel che credi,
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e onde a la credenza tua s’offerse.”
“O santo padre, e spirito che vedi → →
ciò che credesti sì, che tu vincesti
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ver’ lo sepulcro più giovani piedi,”
comincia’ io, “tu vuo’ ch’io manifesti
la forma qui del pronto creder mio,
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e anche la cagion di lui chiedesti.
E io rispondo: Io credo in uno Dio →
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
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non moto, con amore e con disio;
e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi →
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anche la verità che quinci piove
per Moïsè, per profeti e per salmi, →
per l’Evangelio e per voi che scriveste →
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poi che l’ardente Spirto vi fé almi;
e credo in tre persone etterne, e queste →
credo una essenza sì una e sì trina,
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che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este.’
De la profonda condizion divina
ch’io tocco mo, la mente mi sigilla
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più volte l’evangelica dottrina.
Quest’ è ’l principio, quest’ è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
147
e come stella in cielo in me scintilla.”
Come ’l segnor ch’ascolta quel che i piace, →
da indi abbraccia il servo, gratulando
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per la novella, tosto ch’el si tace;
così, benedicendomi cantando, →
tre volte cinse me, sì com’ io tacqui,
l’appostolico lume al cui comando
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io avea detto: sì nel dir li piacqui!
PARADISO XXV
Se mai continga che ’l poema sacro → →
al quale ha posto mano e cielo e terra, →
3
sì che m’ha fatto per molti anni macro, →
vinca la c
rudeltà che fuor mi serra →
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello, →
6
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello → →
ritornerò poeta, e in sul fonte →
9
del mio battesmo prenderò ’l cappello; →
però che ne la fede, che fa conte →
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
12
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Indi si mosse un lume verso noi →
di quella spera ond’ uscì la primizia
15
che lasciò Cristo d’i vicari suoi;
e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: “Mira, mira: ecco il barone →
18
per cui là giù si vicita Galizia.” →
Sì come quando il colombo si pone →
presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
21
girando e mormorando, l’affezione;
così vid’ ïo l’un da l’altro grande
principe glorïoso essere accolto,
24
laudando il cibo che là sù li prande.
Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse, →
27
ignito sì che vincëa ’l mio volto.
Ridendo allora Bëatrice disse: →
“Inclita vita per cui la larghezza
30
de la nostra basilica si scrisse, →
fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri, →
33
quante Iesù ai tre fé più carezza.”