02 Hold Me. Qui

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02 Hold Me. Qui Page 5

by Kathinka Engel


  «A domani allora», dice.

  «A domani», rispondo.

  Butta lo zaino sul sedile del passeggero e si mette alla guida, e io sono sollevato che non abbia visto la mia vecchia Ford malandata.

  Salgo in auto, appoggio la testa al volante e faccio un respiro profondo. Che giornata! Inspira, espira. Infilo la chiave e avvio il motore. Nello stereo parte MC’s Act Like They Don’t Know di KRS-One, la canzone hip hop con cui mi sono dato la carica all’andata. Ma adesso è troppo, dopo il caos della cucina ho bisogno di assoluto silenzio.

  Mi torna in mente il signor Brentford, lo psicologo del carcere di Pearley. Per i momenti come questo – in cui mi sento debole o depresso – mi aveva consigliato di tenere sempre pronti dei pensieri positivi. Quando ero in prigione erano le immagini dei miei famigliari, i loro volti felici, le cene insieme, le chiacchiere. Non funzionava benissimo, la maggior parte delle volte pensare a loro mi faceva sentire ancora più triste.

  Mamma, papà, penso adesso. Jasmine, Theo, Ebony, Ellie, Esther. Lo faccio per loro.

  Svolto sulla strada che corre lungo la costa per un paio di chilometri e che mi riporterà a Pearley. Questa mattina ho osservato avidamente l’oceano, le palme scosse dalla brezza leggera e la spiaggia, pregustando la giornata. Adesso voglio solo arrivare a casa e infilarmi nel letto. Sdraiarmi sulla schiena e mettere le mani dentro l’acqua ghiacciata. In realtà, il dolore fisico non è niente in confronto all’insicurezza profonda che ho provato per tutta la giornata e che ancora non mi abbandona. Le umiliazioni di Clément, la consapevolezza di non conoscere quasi nessuna delle espressioni che si usano lì, il disinteresse degli altri… tutto questo mi ha reso insicuro. E poi, cos’è che ha detto Clément? «Quello che già penso di te.» Che intendeva dire? Che non sono adatto a quell’ambiente? Che non si fida di me? Scuoto la testa. Sono pensieri sciocchi. Prima di mettere piede nella cucina del Fairmont, sapevo di aver fatto la scelta giusta. E le cose non sono cambiate. Il mio obiettivo è rimasto lo stesso. Ma allora perché tutti questi dubbi? Come se Clément, Alec e gli altri fossero le prime persone che mi trattano male. Stando a quel che dice Lenny, non lo fanno solo con me, ma con tutti i nuovi arrivati. E poi, a pensarci bene, non mi succede molto spesso di essere trattato come gli altri in un ambiente di soli bianchi. Forse dovrei considerare come una vittoria il fatto che mi trattino di merda come fanno con tutti.

  Riaccendo con più determinazione lo stereo della macchina, il ritmo e la voce potente di KRS-One risuonano nell’abitacolo e io muovo la testa a tempo. La musica mi calma, mi ricorda chi sono e chi non voglio più essere. Mai più. Non voglio essere vincolato all’ambiente in cui sono nato, vittima della mia stessa stupidità, avvolto da una nebbia scura che mi toglie ogni energia e minaccia di inghiottirmi. Ho deciso di non piangermi più addosso. La mia famiglia dev’essere fiera di me. Ecco perché sono qui. E sono deciso a rimanerci.

  I dubbi lentamente svaniscono e rimane solo la volontà di lottare per dimostrare a tutti cosa so fare. Sfreccio sulla superstrada, le mie dita tamburellano sul volante a ritmo di musica. Tenerle occupate è la migliore distrazione, e la tensione nelle spalle comincia a sciogliersi.

  Parcheggio proprio davanti casa. Un condominio malandato senza altri palazzi intorno, che sorge nel punto in cui Poorley comincia a lentamente a trasformarsi nella parte più residenziale della città. La facciata, che una volta era bianca, è piena di crepe. Uno degli appartamenti al piano terra è abbandonato da tempo, le finestre sono buchi neri affacciati sulla strada. Salgo le scale fino al primo piano e dal vetro della porta dell’appartamento vedo arrivare della luce. Quindi Rhys c’è. Stasera, in realtà, speravo di avere la casa tutta per me, visto che lui passa spesso la notte da Tamsin, oppure va a cena da Amy e sua sorella.

  Quando apro la porta vengo accolto da un profumo di… pizza?

  «Ciao», grido.

  «Ehi», risponde il mio coinquilino dalla cucina.

  Seguo l’odore e la sua voce, e mi fermo sulla soglia. «Non mi dire che hai…» comincio a dire, guardando la tavola apparecchiata.

  «Ho pensato che probabilmente stasera non avresti avuto voglia di cucinare», mi interrompe Rhys sorridendo, con un grembiule indosso e le mani coperte dai guanti da forno, con cui sta tirando fuori una teglia.

  «Spero tu sia affamato.»

  «Eccome», affermo, spalancando gli occhi. In realtà me ne sono accorto solo adesso. «E da quando tu cucini?»

  «Non ti ci abituare. Ho solo pensato che, dopo il tuo salvataggio di ieri al bar, una teglia di pizza fosse il minimo che potessi fare per te.»

  Prendo posto su una delle traballanti sedie pieghevoli disposte intorno al nostro tavolo di plastica. Rhys recupera due lattine di birra dal frigo e me ne lancia una, che apro con un sibilo.

  «Alla tua!» esclama lui, facendo un brindisi.

  «Grazie, vecchio mio.»

  Rhys mette due fette di pizza sui nostri piatti. «Allora, com’è andata?» chiede.

  «Bene», mugugno con la bocca piena. «È stato molto interessante.» Tento di sembrare noncurante e mando giù un’altra sorsata di birra. Rhys ha persino comprato la mia marca preferita, che secondo lui è una brodaglia insapore. A me quel gusto ricorda gli anni della mia adolescenza, quando andava ancora tutto bene. La prima sbronza nel cortile di Mike Johnson, il primo bacio da ubriaco con sua sorella Lakeisha, le feste nel garage di Gabriel Freeman, le gite fuori porta con Darius, Andre e Xavier. I bei vecchi tempi, prima che tutto andasse a rotoli.

  «Sono simpatici?» chiede Rhys.

  Preferirei non parlargli della mia giornata, non voglio che si accorga di quanto è stato duro il mio esordio al Fairmont. Voglio essere forte anche per lui. In passato ha temuto così tante volte che il mondo complottasse contro di lui, e contro di noi, che non voglio dargli ragione di dubitare di nuovo.

  «Sì, sono simpatici. Molti ancora non li conosco, ma c’è un tipo, Lenny, che è relativamente nuovo anche lui e mi ha dato un sacco di consigli utili.»

  «Bene», dice Rhys mentre mastica. «E che hai fatto oggi?»

  «Ho fatto a dadini le verdure. O come dicono al Fairmont, ho tagliato i légumes en brunoise. È così che poi le vendono ai bianchi ricchi per dieci volte il loro prezzo.»

  «Furbi. Forse anche al Mal’s dovremmo offrire il caffè alla brunoise.»

  Non mi soffermo a pensare a come sarebbe il caffè a dadini, e bevo un altro sorso di birra.

  Dopo aver mangiato, e aver assicurato ancora una volta a Rhys che la sua pizza era ottima, ho esaurito le energie. Riesco a malapena a tenere gli occhi aperti.

  Mi regalo una lunga doccia per togliermi di dosso il sudore e gli odori della cucina. Il getto di acqua calda mi massaggia la schiena dolorante, mentre mi godo la sensazione del bruciore benefico sulle dita. Passo le mani insaponate sul petto, strofino le braccia e il collo. Chiudo gli occhi. Quando l’acqua ha lavato via anche l’ultimo minimo residuo di sapone, mi decido a uscire dalla doccia e mi avvolgo nell’asciugamano.

  In camera mi attende il compito più disgustoso della giornata. Mi siedo sul letto armato di fazzoletti, accendino e un ago, che ho comprato insieme al nastro adesivo telato e al disinfettante in una farmacia mentre tornavo. La rete malandata scricchiola e cigola sotto il mio peso. Come praticamente ogni altra cosa nella mia vita, anche l’arredamento della camera non è fatto per la mia taglia. Non ricordo più quando è stata l’ultima volta che ho dormito in un letto in cui potevo stendere completamente le gambe.

  Incido le vesciche sulle mani come mi ha spiegato Lenny, ci spruzzo sopra il disinfettante e poi avvolgo le dita con il nastro adesivo. Aveva ragione: è piacevolmente flessibile e non dovrebbe crearmi problemi mentre lavoro. Però non vedo l’ora che mi si formino i calli.

  Sto per crollare su letto, quando mi rendo conto che non ho guardato il cellulare per tutto il giorno. Lo tiro fuori dalla tasca dei pantaloni. A quanto pare la mia famiglia al completo mi ha scritto, ovviamente volevano sapere com’era andato il mio primo giorno. Rispondo ai miei genitori e a Jasmine. Poi vedo un messaggio da un numero sconosciuto.
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br />   Ciao Malik, a quanto pare il prossimo fine settimana saremo le uniche due persone immuni dalla passione amorosa. Possiamo andare con la tua macchina? Presto la mia a Tamsin e Rhys, così potranno partire già questo venerdì. In cambio porterò qualche snack per il viaggio. Hai desideri particolari? Per caso ti va del sorbetto? Ciao, Zelda.

  Il mio corpo è troppo stanco per reagire, ma gli angoli della bocca si incurvano involontariamente verso l’alto. Tra la confusione, il caldo e le carote, ho completamente dimenticato il prossimo weekend. Rhys e Tamsin hanno affittato una casetta e, a quanto pare, verrà anche Zelda. Ancora meglio.

  Il sorbetto mi pare ottimo come snack da viaggio. Le coppette di cristallo le porto io, rispondo. Poi mi sdraio e un istante dopo sto già dormendo.

  5

  Zelda

  TUTTI i mercoledì io e i miei coinquilini, Arush e Leon, ci guardiamo un film orrendo. A dir la verità, all’inizio abbiamo cominciato questa tradizione con dei film belli, ma abbiamo capito subito che erano sprecati, perché chiacchieriamo troppo mentre li guardiamo. E quindi, da un paio di mesi, scegliamo solo film brutti, così non ci perdiamo niente.

  Oggi la decisione spettava a me, e ho selezionato Azad, soprattutto perché Arush detesta i film indiani. Io e lui ci vogliamo davvero molto bene, siamo così amici da aver gettato nel panico i miei genitori. All’inizio pensavo che coinvolgerli nella mia vita qui a Pearley avrebbe fatto bene al nostro rapporto, poi però loro hanno cominciato a parlare delle mie responsabilità nei confronti della famiglia, ovvero del fatto che dovevo trovarmi un uomo bianco da sposare. È stata la prima volta che me l’hanno detto così apertamente. Io non sapevo cosa rispondere, d’altra parte io e Arush nemmeno stavamo insieme. Ma quando hanno cominciato a dire che si vedono sempre meno bambini biondi in giro mi è venuta la pelle d’oca e non ce l’ho fatta più. Da allora tengo le mie due vite ben separate.

  Io e Arush adoriamo in particolare darci fastidio a vicenda, e i film indiani sono perfetti per questo. Lui dice che non li sopporta perché i suoi genitori lo hanno sempre costretto a guardare le opere di Bollywood, per non fargli perdere contatto con le sue radici, senza immaginare, ovviamente, che hanno ottenuto esattamente l’effetto opposto. Arush ripete in continuazione che le sue radici non c’entrano nulla con quella roba, perché lui è nato in America e non ha mai messo piede nel Paese dei suoi antenati.

  Il nostro mercoledì trash è sempre l’apice della settimana. Mi piace quando ci riuniamo per passare del tempo insieme, mi fa pensare alla famiglia. Non alla mia, ma a quella dei cartoni Disney e dei telefilm anni Novanta, quelli in cui si viveva sotto lo stesso tetto, si rideva, si litigava, si faceva pace e alla fine ci si ritrovava davanti alla televisione a mangiare gelato.

  Chi sceglie il film è anche responsabile dei popcorn. Abbiamo una ciotola grande per quelli salati, e una un po’ più piccola per quelli dolci, che sono solo per me. È per questo motivo che adesso sono in cucina davanti al microonde, ovvero l’elettrodomestico più importante di questa casa. Nessuno di noi sa cucinare, perciò non siamo molto attrezzati.

  Leon è già tornato a casa ed è in camera sua a studiare per gli esami finali, che farà a maggio. Ha due anni in più di me e Arush, che arriverà da un momento all’altro. Studia Medicina, perciò deve ottenere risultati perfetti agli esami e ci si è impegnato fin dal primo giorno, passando ogni minuto libero in biblioteca. Ecco un altro che ha una vera passione per qualcosa.

  Mi mordo il labbro inferiore. Il dilemma in cui mi trovo comincia a infastidirmi seriamente. Da una parte, mi dico, non importa come impieghi il mio tempo, visto che tra un paio d’anni mi appiopperanno il ricco erede di qualche fortuna; dall’altra proprio per questo dovrei sfruttare il poco tempo a mia disposizione per fare qualcosa che mi piaccia davvero. E non sto parlando di mangiare dolci, bere vodka o zittire Jason.

  Sento il rumore di una chiave nella toppa, dev’essere Arush. Resisto all’impulso di uscire di corsa dalla cucina per vedere la sua reazione alla mia sorpresa. Funzionerà meglio se nota da solo quale film guarderemo.

  «Ti odio!» lo sento gridare.

  «Anche io, baby!» rispondo. «Com’è andata la giornata?» gli chiedo con tono raggiante.

  Arush entra in cucina, scuote la testa e mi dà un pizzicotto sul braccio. «Perché mi fai questo? Tutte le volte.»

  «Perché sono una brutta persona, credo.»

  «Puoi dirlo forte.» Mi lancia un’occhiataccia, ma non riesce a restare arrabbiato con me a lungo. E, infatti, subito dopo mi chiede: «Cosa c’è per cena, tesoro?»

  «Stufato.»

  «Riscaldato al microonde, proprio come piace a me!»

  Si volta e fa per uscire, ma io gli salto addosso.

  «Ehi!» esclama lui sorpreso, prendendomi però a cavalcioni. «Dove vuoi andare?»

  «Tu dove volevi andare?» Gli stringo le braccia intorno al collo.

  «In bagno. Ma lì non ti ci porto. Scordatelo. Vieni, andiamo a chiamare Leon.»

  Arush mi trasporta fino alla stanza di Leon. Io busso e lui apre. Leon ci dà le spalle, seduto alla scrivania, chino sui libri.

  «Hai finito?» gli chiedo. «Ho trovato il film preferito di Arush.»

  «Un attimo», risponde Leon, voltandosi. Quando vede me e Arush sorride. «Siete pessimi.»

  «Io che c’entro?» esclama Arush, fingendo di indignarsi. «Qui la pazza è lei. Puoi dirmi come hai fatto a insegnarle a rispettare la tua privacy quando hai la porta chiusa?»

  Gli do un pizzicotto sull’orecchio.

  «Condizionamento», dice Leon, lanciandoci un libro che si intitola Introduzione alla psicologia comportamentale.

  «Molto divertente», commento. «Forza, Arush, portami in salotto.»

  «Sissignora», risponde lui, portandomi nella stanza accanto e lasciandomi cadere sul divano.

  Venti minuti dopo siamo tutti seduti in salotto. Il film è iniziato e non ha deluso le mie aspettative. Io e Leon continuiamo a lanciare occhiate perplesse ad Arush, che per tutta risposta ci scaglia addosso dei popcorn, finché non lo minacciamo di assegnargli i turni di pulizia dei prossimi dieci anni.

  Proprio quando la trama viene interrotta da un numero di danza tra le Alpi svizzere, Arush mi chiede: «Zelda, ma tu metti mai delle parrucche?»

  Rimango impietrita. «Cosa?»

  «Io ti ho vista», dice Leon, punzecchiandomi un fianco con il gomito. «In versione bionda.»

  «E come mai?» domanda Arush, che sta chiaramente cercando di evitare i nostri commenti sulla folle scena di ballo. «Fai la spogliarellista, per caso?»

  «Molto divertente.» Rifletto febbrilmente su cosa inventarmi. Non mi piace mentire, ma non voglio che mi guardino con occhi diversi, che vedano in me solo una ragazza ricca con dei genitori pazzi, buona soltanto per diventare una moglie.

  «Oddio, sei una squillo?» chiede Leon.

  «O un agente segreto?» aggiunge Arush, inarcando un sopracciglio.

  «Sarebbe bello.» Comincio a delineare una scusa nella mia testa, una scusa innocente. Vicinissima alla verità, ma allo stesso tempo molto vaga. «Il motivo è banalissimo, avreste anche potuto chiedermelo prima, invece di pensare a queste sciocchezze.» Bene, sembra tutto molto naturale. Funzionerà. «Negli ultimi tempi i miei genitori ci tengono molto alla famiglia.» Alzo gli occhi al cielo. «Le cene nel weekend, gli inviti a pranzo dagli amici. E in queste occasioni il colore dei miei capelli è sempre fonte di discussione, perciò da un po’ ho cominciato ad andarci con una parrucca. Per stare più tranquilla.» Sposto il mio sguardo soddisfatto da Arush a Leon. Ci hanno creduto?

  «Okay», dice Arush. «E perché i tuoi fine settimana sono sempre avvolti nel mistero?»

  Maledizione. «Non c’è nessun mistero», ribatto esitante. «Cerco solo di apparire un po’ misteriosa, ho letto da qualche parte che le ragazze giovani dovrebbero fare tutte così.»

  Questa volta i popcorn di Arush mi finiscono tutti nella scollatura.

  «Hai capito, Leon», commenta, «possiamo smettere di preoccuparci per Zelda. Apparire misteriosa, che cavolata!»

  Rido
un po’ imbarazzata e abbasso lo sguardo. Si erano preoccupati per me. Che stupida che sono.

  «State tranquilli, se fossi un agente segreto ve lo direi subito, non riuscirei mai a tenermi una cosa così figa solo per me. Quindi, non vi preoccupate.» Spero di riuscire a rendere l’atmosfera più rilassata.

  «Il che significa che saresti il peggior agente segreto del mondo, e allora sì che dovremmo preoccuparci. Anche della nostra incolumità, a quel punto», scherza Leon.

  In casa regna di nuovo la pace.

  I giorni seguenti passano senza che accada nulla di rilevante. La solita routine quotidiana al suo meglio. Leon e Arush hanno da fare all’università, Tamsin passa ogni secondo libero con Rhys e Jeannie, e i miei genitori non disturbano la mia noia con rimproveri o pressioni perché sono alle Hawaii e, per una volta, sono impegnati a occuparsi di se stessi invece che della loro figlia problematica.

  Quando finalmente arriva il weekend, non riesco quasi a credere che questa settimana, che si è trascinata stancamente a passo di lumaca, possa essere coronata da un po’ di vivacità.

  Malik passerà a prendermi tra mezz’ora. Sono un po’ a disagio all’idea di passare due ore in uno spazio ristretto con una persona che per me è quasi estranea. Non so praticamente niente del coinquilino di Rhys, a parte il fatto che partecipano allo stesso programma di reinserimento sociale. E non so neanche bene cosa significhi. Ovviamente, mi è chiaro che a un certo punto la sua vita deve aver preso una piega sbagliata, anche se è difficile da credere quando lo si incontra. Non mi verrebbe mai in mente di associare la sua personalità allegra e tranquilla a un passato criminale. Malik mi è sempre sembrato gentile. Carino e perfettamente normale. E molto più aperto di Rhys, per esempio. Comunque, non importa quel che so o non so sul suo conto, Tamsin si fida di lui e questo mi basta. Eppure, provo un leggero fremito al pensiero di attraversare la California in macchina in sua compagnia. Ma il pensiero di cosa direbbero i miei, se sapessero che sto per passare il weekend con un ragazzo afroamericano che partecipa a un programma di reinserimento sociale, mi fa sorridere. I loro pregiudizi riescono a spazzare via tutte le mie preoccupazioni. E, visto che Malik sta per arrivare, non ho più tempo per queste fantasticherie.

 

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