Non so che cosa voglia dire, ma in questo momento la mia unica preoccupazione è Malik. Faccio per girarmi verso di lui, ma mia madre mi afferra rudemente per un braccio e mi trascina via a passi rapidi nel corridoio. Devo quasi correre per starle dietro, le sue unghie affondano dolorosamente nel mio braccio. Ma l’unico vero dolore che provo è per Malik. Quando riesco a voltarmi per vederlo un’ultima volta, Elijah lo ha già afferrato per un braccio e lo sta scortando fuori. Mia madre mi costringe a girare l’angolo, si ferma e mi guarda con un odio e un disprezzo che mi spaventano. Nonostante tutti gli anni di freddezza e rimproveri, questa vecchia strega riesce ancora a superare se stessa. Alza un braccio e mi dà uno schiaffo in piena faccia. Mi sembra di essere stata colpita da un fulmine. Sento la guancia in fiamme e la tocco con una mano, che mia madre la scosta via con un gesto brusco. Poi tira fuori del fondotinta dalla borsa e copre i segni rossi lasciati dalle sue dita. Ha pensato proprio a tutto.
Sono così sopraffatta da questa catastrofe che non riesco a dire una parola. I miei pensieri sfrecciano impazziti in tutte le direzioni, senza che io riesca a fermarne neanche uno. Cosa succederà adesso a Malik? E a me? Mia madre è stata molto chiara: ha chiuso con il Fairmont. Non riesco a credere che, in tutto il tempo che abbiamo passato insieme, lui non mi abbia mai detto il nome dell’hotel dove svolgeva il tirocinio. Del resto, ci sono cose più importanti del lavoro di cui parlare.
Come farà a tornare a casa, adesso? In macchina ci vogliono circa venti minuti per scendere in paese da Paloma Hill, a piedi invece ci vorrà più di un’ora. Non ha niente da bere con sé, e probabilmente non ha ancora mangiato nulla. Come posso aiutarlo?
Usciamo di nuovo e mia madre mi lascia il braccio. «Adesso vado a parlare con tuo padre, ma lascia che ti dica una cosa, signorina: non farmi arrabbiare di nuovo. Spero che il primo avvertimento sia stato chiaro. Ancora non sai quali altre conseguenze potrebbero esserci in serbo per il tuo amichetto nero. Forse ha ancora la possibilità di ottenere una lettera di referenze non troppo negativa.»
Annuisco in silenzio. Sì, il suo avvertimento è arrivato forte e chiaro. Mi fermo accanto a uno dei tavoli, su cui ricordo di aver posato la borsetta con dentro il cellulare, ma non la trovo più. Eppure sono sicura di averla lasciata qui, e di certo non ci sono ladri tra questi ospiti, sono tutti troppo ricchi e pieni di sé. E poi il mio non è neanche un cellulare ultimo modello.
«Mi scusi?» chiedo a una signora anziana in piedi accanto a me. «Ha per caso visto una borsetta argentata qui sul tavolo?»
«Non l’ha presa sua madre?» chiede la signora. «Ha detto che voleva riportargliela.»
Il mio cuore fa un tonfo e mi getto su una sedia. Ce l’ha lei il mio cellulare! Adesso come diavolo faccio ad aiutare Malik?
Il mio sguardo vaga frenetico tra gli ospiti. Ho un nodo in gola e sento le lacrime riempirmi gli occhi. Ma non posso fare scenate. Mia madre sarà pure un’idiota totale, ma in questo mondo ha lei il coltello dalla parte del manico.
Quando vedo Philip, è come se mi cadesse un peso dal cuore. Finalmente un alleato in questa terra nemica. Mi alzo in piedi di scatto, anche se ho delle vesciche ai piedi in punti dove nemmeno pensavo potessero venire, e le gambe che mi tremano.
«Balliamo», gli dico senza fiato. «Ti prego.»
«Okay?» risponde lui con sguardo interrogativo.
Lo trascino sulla pista da ballo, la band ha appena attaccato una versione strumentale di My Baby Just Cares For Me. Philip mi cinge la vita, e come poco fa si mantiene a una certa distanza. Ma questa volta sono io che mi stringo il più possibile a lui.
«Devi aiutarmi», gli sussurro all’orecchio, badando che nessuno dei presenti ci ascolti.
«Che succede?» chiede lui sottovoce, in modo che solo io possa sentirlo.
«È una lunga storia, che prima o poi ti racconterò, sempre che i miei mi permettano ancora di avere rapporti sociali in futuro…»
«Cosa?» mi interrompe lui, a voce un po’ troppo alta.
«Sst», faccio. «Nessuno deve sapere che mi stai aiutando. Ti prego, Philip.»
«Okay, di cosa hai bisogno?»
Mi sento invadere da un profondo senso di sollievo. Puro sollievo.
«Devo chiamare un taxi per un amico che sta scendendo a piedi a Paloma Bay. I miei genitori lo hanno appena buttato fuori e credo che non abbia soldi con sé.»
«Dove deve andare?» chiede Philip.
«Abbastanza lontano, a Pearley. Ma prometto che ti ridarò i soldi appena riavrò la mia carta di credito.»
«Prenoto subito un taxi», dice Philip. «Evviva i pagamenti online. E non ti preoccupare per i soldi.»
Fa per allontanarsi, ma io lo trattengo.
«No, fermo!» dico in preda al panico, afferrandolo più forte. «Aspettiamo la fine della canzone, altrimenti diamo troppo nell’occhio.»
«Wow, ti sei cacciata in un bel guaio, eh?» commenta Philip, comprensivo. «Fammi sapere se posso fare altro per aiutarti.» Mi stringe la mano a mo’ di incoraggiamento, ed è l’unica cosa che può fare di fronte a questo disastro totale. Peccato che non serva a niente.
36
Malik
CHE cosa ho fatto? Che accidenti ho combinato? È come se il tempo si fosse fermato, come se il mondo intorno a me avesse cessato di esistere. Ci sono solo io, e la mia mostruosa stupidità. Il mio fallimento. La mia rovina. Mi tremano le mani, che ricordano ancora la pelle di Zelda. Ma è un ricordo così lontano che quasi faccio fatica a crederci ancora.
Metto stancamente un piede davanti all’altro, non ho idea di quanto ci voglia per arrivare a Paloma Bay. Probabilmente non tornerò alla civiltà prima di mezzanotte, dopodiché non ho idea di come arrivare a casa, il fratello di Zelda non mi ha dato nemmeno la possibilità di andare a prendere i miei effetti personali. Ripensandoci, però, forse non sarebbe poi così male non ritornare mai più a Pearley, perché davvero non so come potrei guardare in faccia la mia famiglia. O Amy. Li ho delusi tutti. Non sono riuscito a mantenere la calma, a controllarmi, e li ho piantati in asso. Ho tradito le loro speranze e i miei sogni, e per cosa? Per un momento di debolezza. Come se il domani non esistesse, come se un bacio – per quanto importante in quel momento – fosse una buona scusa per buttare all’aria il mio futuro.
Mi sento stringere il petto, mi manca l’aria. Dalla gola mi sfugge un gemito, poi un singhiozzo, mentre passo davanti all’ennesima villa dove abita gente ricca e privilegiata, il cui unico scopo è rendere la vita difficile a me e a quelli come me. Le mie sorelle, mio fratello… volevo essere forte per loro, volevo diventare qualcuno, volevo dimostrare che se si lavora duro si riesce a ottenere qualcosa. Ed ero sulla strada giusta. Mi è bastato un attimo per rovinare tutto.
Mi appoggio a un palo, perché ho paura che mi cedano le gambe. Inspira, espira. Piano. Devo riprendermi. Devo arrivare almeno a Paloma Bay, forse riuscirò a trovare un posto dove passare la notte. Un ponte, il portone di qualche casa abbandonata, un posto qualsiasi dove riordinare le idee, ed elaborare il mio fallimento. Ma come farò? Come farò a superare quello che è appena successo?
E se la signora Redstone-Laurie avesse solo bluffato? Se per caso avessi ancora il mio lavoro? Sbuffo e rido amaramente. Non avevo mai visto una persona così furiosa prima d’ora, così piena di odio. Sono sicuro che, se avesse potuto, non si sarebbe limitata a distruggermi l’esistenza, mi avrebbe schiacciato come uno scarafaggio.
Le parole di Zelda mi risuonano nella mente. Sono innamorata di lui, ha detto. E io? Sono innamorato di lei? Probabilmente sì. Probabilmente la amo. Ma che futuro potremmo mai avere insieme? Cosa ho da offrirle?
Mi trascino avanti, ho le gambe pesanti e le spalle curve sotto un peso invisibile. Riesco ad arrivare a malapena al palo successivo, poi devo fermarmi di nuovo e vengo scosso dall’ennesimo singhiozzo. Mi accovaccio a terra, la sensazione di soccombere sotto un peso immane si fa insostenibile. Appoggio la testa al palo. Se potessi chiudere gli occhi per un istante e fare pensieri felici…
Perché l’unica cosa che mi rimane adesso sono i pensieri positivi del signor Brentford, che in prig
ione non sono stati granché utili. Devo concentrarmi su quelli. Jasmine, Theo, Ebony, Ellie, Esther. Mamma e papà. La mia famiglia. La mia famiglia riunita a pranzo. Le gemelle in braccio a me. Il viso di Theo. Ma non mi aiuta. Mi sento soffocare ancora di più, perché non riesco nemmeno a guardarli, non posso, dopo averli delusi per la terza volta. Del resto, cosa mi aspettavo? Pensare a loro non ha funzionato nemmeno in carcere. All’epoca, l’unica cosa che riusciva a diradare la nebbia da cui mi sentivo avvolto era il servizio in mensa. Cucinare mi ha aiutato a non impazzire, ma adesso non ho più nemmeno questo. Non ho più niente. E la nebbia torna ad avvolgermi, una nebbia gelida, che mi circonda da ogni lato, e penetra in ogni angolo del mio corpo, paralizzandomi.
Percepisco in lontananza il rumore di un’auto che si avvicina. Sarà un invitato alla festa che arriva in ritardo? O forse il proprietario di qualche villa? Mi gira la testa, ma mi costringo ad alzarmi e a fare qualche passo in avanti. Non posso restare qui.
L’auto compare oltre la curva e i suoi fari mi abbagliano, costringendomi a schermare gli occhi con la mano. L’uomo al volante frena.
«È lei che ha prenotato un taxi?»
Non ero pronto a interagire con un altro essere umano, e devo schiarirmi la voce prima di rispondere.
«No, non l’ho chiamata io.»
«Per caso è lei l’amico di Zelda?» insiste l’autista.
Io deglutisco. Zelda mi ha chiamato un taxi? «Sì, sono io», dico.
«Allora la macchina è per lei», dichiara l’uomo. «Salga.»
Attraverso esitante la strada, apro la portiera posteriore e mi lascio cadere sul sedile.
«Non si preoccupi», mi rassicura l’uomo al volante, un signore piuttosto anziano con la barba e lo sguardo amichevole. «Il viaggio fino a Pearley è già pagato.»
Il mio cuore va in frantumi, lo sento sbriciolarsi in mille pezzi. Non saprei in che altro modo spiegare il dolore che provo.
Mi accascio sul sedile di pelle e chiudo gli occhi, non sopporto nemmeno di guardare il mondo fuori dal finestrino. Preferisco stare da solo nel buio, e attendere di essere di nuovo inghiottito dalla nebbia. Mamma, papà, Jasmine, Theo, Ebony, Ellie, Esther. Un’ultima volta. Poi sono pronto ad arrendermi.
«Ha passato una bella serata?» chiede l’autista, rompendo il silenzio.
Riapro gli occhi di malavoglia, ho paura di crollare definitivamente, se comincio a parlare.
«Non è un tipo molto loquace, eh?» chiede ancora l’autista.
«Mi dispiace», mi sforzo di rispondere. «Comunque no… direi che non ho passato affatto una bella serata.» Nel pronunciare queste ultime parole la mia voce si fa più acuta e rotta.
«Su, su», risponde l’uomo, «domani il mondo le sembrerà diverso.»
«Certo», mormoro, mentre il mio labbro inferiore prende a tremare senza che io possa impedirlo. Sento gli occhi bruciare e sono contento che, a quanto pare, l’autista abbia capito che non mi va di parlare. Chiudo di nuovo gli occhi e le lacrime cominciano a scendermi lungo le guance. Che immagine penosa.
Luci e ombre si alternano dietro le mie palpebre chiuse, a seconda di quanto è illuminata la strada. Il tragitto tra Paloma Bay e Pearley lo conosco a memoria, perciò riesco più o meno a capire dove ci troviamo. Vorrei solo poter dormire un po’, solo qualche minuto, per avere un po’ di tregua e rilassarmi per un momento. Forse potrei addirittura riuscire a trovare un altro pensiero positivo, qualcosa che mi ha reso felice. Per esempio i baci di Zelda, o rivedere il suo viso.
Sento di nuovo le lacrime sulle guance, lasciano una scia calda, fastidiosa e salata. Lacrime inutili, che non hanno mai aiutato nessuno. Come farò ad andare avanti senza di lei? Zelda non è una persona che si può lasciare andare facilmente. Rimarrà per sempre con me, anche se solo nei miei ricordi.
Percepisco di nuovo luce oltre le palpebre chiuse, e capisco che siamo arrivati alla periferia di Pearley. Le strade, qui, sono così ben illuminate che potrebbe anche essere giorno. Guardo fuori dal finestrino e, nonostante abbia la vista annebbiata, riconosco benissimo le case.
Venti minuti più tardi l’autista si ferma davanti al mio portone. Io faccio un bel respiro, poi apro la portiera ed esco nell’aria fresca di questa notte di primavera.
«Grazie mille», dico, e faccio per andarmene, ma l’uomo abbassa il finestrino.
«Ringrazi i suoi amici da parte mia per la generosa mancia», mi grida dietro. «E si tiri un po’ su!»
Annuisco con aria stanca.
Dalla porta a vetri vedo che l’appartamento è illuminato, il che vuol dire che Rhys è in casa. È una fortuna, perché ho lasciato le chiavi insieme a tutto il resto della mia roba nella villa dei genitori di Zelda. Certo, parlare di «fortuna» nella mia situazione è abbastanza ironico. Busso alla porta e un attimo dopo Rhys apre. Senza degnarlo nemmeno di uno sguardo, entro e mi trascino in camera. Con le ultime forze che mi rimangono mi libero delle scarpe e della divisa, poi mi lascio cadere sul letto, mi tiro la coperta fino al mento, volto la testa verso la parete e chiudo di nuovo gli occhi. So che non dormirò, ma almeno così posso concentrarmi sul mio respiro, che pare costantemente sul punto di fermarsi. Inspira, espira.
37
Zelda
SONO seduta a uno dei tavolini, da sola. Molti ospiti sono già andati via e i piedi mi fanno così male che quasi non riesco a muoverli.
«Sono venuto a salutarti», dice Philip, uscendo dal cerchio di luce proiettato dal lampioncino di fronte al tendone, e avvicinandosi nella mia zona d’ombra. Merito di stare al buio.
«E a dirti che l’autista ha trovato il tuo amico. A quest’ora l’avrà già portato a casa.»
«Grazie, Philip. Sono in debito con te.»
«Ah, non ti preoccupare. La versione completa di questa storia è più che sufficiente a ripagarmi.» Dopo avermi lanciato una rapida occhiata aggiunge: «Se ti va di raccontarmela, ovviamente».
Mi alzo faticosamente in piedi, con una smorfia di dolore.
«I piedi mi stanno uccidendo», dichiaro, poi saluto Philip con un abbraccio. Credo proprio di aver trovato un vero amico in lui.
«Stammi bene, Zelda.»
«Ci proverò. Ti chiamo quando si saranno calmate le acque.»
Philip mi saluta con un bacio sulla fronte e se ne va, lasciandosi alle spalle me, la festa, questa maledetta casa e tutti quelli che ci abitano. Vorrei quasi chiedergli di portarmi via con lui, ma non lo faccio per paura di come potrebbero reagire i miei genitori. Forse con una buona lettera di referenze Malik potrà trovare lavoro da qualche altra parte.
La band ha riposto gli strumenti nelle custodie già da un bel pezzo. A parte i miei genitori e i miei fratelli, sono rimasti pochi ospiti. Io rimango seduta al mio tavolo, mi tolgo le scarpe e mi massaggio i piedi doloranti. Se non fossi tormentata dalle preoccupazioni, questo sarebbe un momento di assoluta pace, quindi mi infurio ancora di più quando alzo lo sguardo e trovo davanti a me l’ultima persona al mondo che vorrei vedere.
Con un «Posso?» che è una presa in giro più che una domanda, Jason si prende una sedia e si accomoda accanto a me.
«Ti fanno male i piedi?» chiede, come se volesse intavolare una conversazione casuale. «Dai, ti faccio un massaggio.»
Fa per prendermi un piede, ma io mi allontano. «Non provarci nemmeno!» ringhio.
«Brutto momento?»
«Hai anche il coraggio di chiederlo?» Non ci posso credere. «Hai appena fatto perdere il lavoro al mio ragazzo, e anche qualsiasi punizione i miei genitori stanno architettando per me sarà colpa tua, schifoso ipocrita.»
Lui mi guarda perplesso, ma è troppo ubriaco per recitare bene la parte, i suoi occhi lo tradiscono.
«Mi hai sguinzagliato dietro mia madre», lo aiuto a ricordare. «O te lo sei già dimenticato?»
«Ero preoccupato per te. Ho visto un tizio nero, grande e grosso, correrti dietro. Era mio dovere di cittadino assicurarmi che non ti succedesse niente.»
Prova di nuovo a toccarmi, ma io gli do uno schiaffo sulla mano.
«Dovere di cittadino? Cosa ne vuoi sapere tu? Cosa ne vuoi sapere di c
he significa essere gentili, premurosi o leali nei confronti di qualcun altro?»
«E come facevo a sapere che conoscevi quel tizio?» chiede allora Jason, con un lampo di incertezza negli occhi. So cosa vuol dire quella espressione, è la stessa che mi riserva durante il seminario, quando ridimensiono le sue argomentazioni.
«Perché ci hai visti insieme al Pearls. Te lo ricordi? Sapevi benissimo cosa sarebbe successo.»
«Ecco perché aveva un’aria familiare! Gliel’ho anche chiesto, ma lui ha negato. È colpa sua.»
«No, la colpa è tua e solo tua. Perché sei uno stronzo viscido e pieno di sé.» Sono così furiosa che per poco non gli rovescio addosso il bicchiere d’acqua che è sul tavolo.
«Okay, forse la mia non è stata esattamente una buona azione», ammette. Ma io non credo nemmeno per un secondo che sia davvero pentito di quello che ha fatto. «Ma non hai pensato che magari ero solo geloso?» aggiunge ammiccando.
«Sei pessimo, Jason. Pessimo. E per me non esisti più. Perché, se esistessi, non so davvero cosa potrei farti, so solo che mi costerebbe troppa fatica, e non ho intenzione di sprecare le mie energie per uno come te.»
Mi rimetto le scarpe e lo mollo da solo al tavolo. Nel frattempo, si è fatto così tardi che sicuramente posso ritirarmi, perciò senza nemmeno voltarmi a guardare mi incammino sul prato, salgo le scale ed entro in casa. Passando dal salotto arrivo nell’atrio e salgo la scalinata che porta al primo piano, dove si trova la mia stanza. Una volta entrata mi lascio cadere sul letto e non mi prendo nemmeno la briga di togliermi questo scomodissimo vestito. Mi butto addosso una coperta, e mi addormento all’istante.
Vorrei non dovermi alzare. So che ciò che mi aspetta al piano di sotto supererà anche le mie più fosche previsioni. Mi giro e mi rigiro sotto la coperta e penso a Malik, spero che stia bene. Vorrei tanto chiamarlo, ma senza telefono non so come fare. Non è più come ai vecchi tempi, quando i numeri di telefono si imparavano a memoria!
Qualcuno bussa alla mia porta. Maledizione.
02 Hold Me. Qui Page 25