Blackout

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Blackout Page 7

by Gianluca Morozzi


  E allora schiaccia dieci volte il pulsante del piano terra.

  Poi dieci volte quello del ventesimo.

  L’ascensore non si muove.

  Ferro perde la pazienza. Sferra un pugno contro la parete d’acciaio, urla: «Puttana troia! Cazzo! Cazzo!», e la sua voce rimbomba in quella bara di metallo morto come sul fondo di una cripta. I suoi occhi si muovono a scatti, cercano un varco, un pertugio, una via d’uscita. Dardeggiano su quegli altri due, inutili corpi che consumano aria e occupano spazio, prima di focalizzarsi sulle porte automatiche chiuse.

  Cosa c’è che non va in quei due pannelli scorrevoli, in quelle due mezze porte d’acciaio? Cosa c’è che non va?

  Usa la testa, vecchio, usa la testa. È ovvio.

  Va che dovrebbero essere aperte.

  Ci sono delle fotocellule. Se manca la corrente, le fotocellule smettono di funzionare. Non c’è più niente a tenere unite quelle due mezze porte.

  Magari, chi può dirlo, magari abbiamo avuto un colpo di fortuna e ci siamo fermati in corrispondenza con il piano. Magari ci sono le porte di piano, là dietro, magari possiamo aprirle dall’interno e sgusciare fuori.

  Unisce i dorsi delle mani e affonda le dita nell’intersezione tra le porte. Prova ad aprirle, facendo forza nelle due direzioni opposte. I due pannelli scorrevoli non si muovono di un millimetro.

  Stringe i denti. Si gira verso Tomas.

  «Tu! Aiutami!» ordina. Tomas obbedisce meccanicamente, scatta in avanti strusciandosi involontariamente su Claudia. Sono come vermi rinchiusi in un vaso, non possono fare a meno di sfiorarsi a ogni movimento e di rubarsi l’aria l’uno con l’altro.

  Ferro e Tomas si schierano uno di fronte all’altro, il ragazzo impegnato sulla porta di sinistra, l’uomo su quella di destra. Cercano di far presa sull’acciaio, di far aderire le dita, ma le dita scivolano sul metallo. Sono viscide, sudate. Cercano di penetrare nell’intersezione con le unghie, di ficcare i polpastrelli più a fondo che possono. Claudia si sporge in avanti per aiutarli, ma non c’è spazio per muoversi nei novantacinque centimetri di larghezza della cabina. La schiena larga e massiccia di Ferro e quella magra e ossuta di Tomas non lasciano un millimetro di spazio per inserirsi, per far prevalere la carne sul metallo.

  Ferro e Tomas lottano ancora un po’, poi il ragazzo ha un’idea.

  «Aspetti» dice. «Usiamo questa.»

  Cerca nella tasca la chiave della cantina, quella grossa, pesante e massiccia. La sfrutta come un cuneo, insinuandola tra i due pannelli scorrevoli. La usa come una leva, sudando, ansimando, e alla fine le due porte si scostano di pochi centimetri.

  Quanto basta.

  Le dita di Ferro e di Tomas scattano a invadere quello stretto varco, stringono, tirano, allargano il varco. E alla fine, con l’ultimo sforzo, le porte si aprono. Oppongono resistenza, le lastre di metallo, ma alla fine cedono.

  Davanti a loro c’è un muro.

  La parete del vano corsa, solida, inviolabile. Tra il vano e la cabina c’è uno spazio di otto miseri centimetri.

  «Merda» mormora Tomas.

  «Splendido» sospira Ferro. «Tutta questa fatica per niente. Siamo stati proprio bravi. Proprio bravi, siamo stati.»

  Lascia la presa. Il pannello scorre sul binario, ritorna alla posizione originaria.

  Anche Tomas lascia la presa, e le due porte gemelle si ricongiungono con un tonfo metallico e sordo.

  Non ha senso. Le porte automatiche non funzionano mica a molla. Funzionano con una fotocellula, funzionano a corrente, cazzo. Non ha assolutamente senso.

  Rinuncia a capire, occhieggia speranzoso il display del cellulare. La sua vista si intreccia sulle due solite parole Ricerca rete, se le ripete come un mantra... ricerca rete, ricerca rete, ricerca rete... respira quel poco d’aria rovente che c’è in cabina, respira e inspira, cercando di calmarsi.

  Inspira.

  Respira.

  Inspira.

  Respira.

  Inspira.

  Claudia guarda le porte richiudersi, gli occhi persi, una sensazione come d’acqua sporca che scende a mulinello, un gorgo vorticoso nella sua povera testa disidratata e stanca.

  Sta vivendo una giornata cosı̀ orrenda da eclissare qualsiasi giornata orrenda precedente, chiusa in ascensore con due sconosciuti, con Bea lontana, sudata, esausta, ma bene, che meraviglia, fantastico. Il giorno di ferragosto, decisamente, sta scalando la graduatoria delle giornate più schifose dei suoi ventiquattro anni di vita.

  Ha appena scavalcato di slancio un lercio giorno di aprile, quando la sveglia l’aveva tradita la mattina dell’esame, aveva perso tutti gli autobus possibili e immaginabili, l’esame era stato un lento e umiliante stillicidio, era uscita dalla facoltà in coincidenza con un temporale, l’autobus era rimasto quaranta minuti in un ingorgo, e quand’era finalmente arrivata a casa con la voglia di buttarsi sul letto, dormire e dimenticare, aveva scoperto sulla soglia di aver lasciato in facoltà lo zainetto peruviano.

  Con le chiavi dentro.

  Persino quella schifosa mattina di aprile, cazzo, persino quella è stata superata in pompa magna da questo magnifico pomeriggio di ferragosto. Chiusa in un ascensore. A pochi metri dalla doccia e dal bicchier d’acqua. In compagnia di due completi sconosciuti. E tre cellulari che senza alcun motivo al mondo si prendono una vacanza nella ionosfera.

  Tre su tre.

  Merda.

  Claudia, Ferro e Tomas aspettano. Che l’ascensore riparta. O che qualcuno li tiri fuori.

  Nella frustrante consapevolezza che non c’è nient’altro, proprio nient’altro che possano fare se non aspettare.

  Poco a poco le vespe smettono di agitarsi, iniziano a zampettare attendiste sulle lisce pareti del bicchiere.

  È solo un po’ di spazio sottratto alle nostre vite. Come un ingorgo in autostrada, né più né meno di un ingorgo in autostrada. Di una fila in posta. Di una gomma a terra. È solo un po’ di spazio sottratto alle nostre vite.

  Allora si calmano, tutti e tre. Escono dall’incubo rapido all’adrenalina. Cominciano a parlare lenti, riflessivi. A usare parole dense, pesanti.

  Ad analizzare la situazione.

  «Io ribadisco che non si sente niente» borbotta Ferro, premendo dieci volte il pulsante con la campanella. «Un ascensore non è mica isolato acusticamente, no? Dovremmo sentire l’allarme anche qua dentro, se una cosa è fatta apposta per essere sentita in tutto il palazzo, miseria boia, si dovrebbe sentire anche qua dentro, no?»

  Tomas si gratta il mento, appoggiato alla parete d’acciaio. «Forse il blackout l’ha messo fuori uso. L’allarme, dico.»

  Ferro lo guarda dall’alto in basso.

  «Ascolta, giovane fanciullo, io non lo so mica come funzionano i pulsanti d’allarme degli ascensori, non ho mica studiato manutenzione degli ascensori, io. Però» e muove le mani come un conferenziere, «usando la logica, suppongo che l’allarme sia studiato in modo da funzionare specialmente in mancanza di corrente, no? Altrimenti, scusate, quei pulsanti con la campanellina sopra non servono davvero, ma davvero a un accidente.»

  Claudia non dice niente. Si limita a controllare il Nokia sperando nella sua resurrezione, serra le labbra in una smorfia, ricaccia il telefonino nello zaino peruviano.

  Per qualche secondo non parla nessuno. Non parla Ferro, non parla Claudia, non parla Tomas. Aspettano che la situazione si sblocchi, che i cavi e i contrappesi tornino a fare il loro lavoro, che l’ascensore si muova.

  Respirano impazienti l’uno sull’altro, in un loculo di un metro e trenta per novantacinque centimetri, sotto la targhetta Portata massima quattrocentonovanta chili, capienza massima sei persone, sotto l’inutile numero del Pronto intervento ventiquattr’ore su ventiquattro, con il pavimento in gomma a bolle sotto le scarpe, il cielino bianco sopra le teste. E la luce verde tutto intorno, come in un sommergibile, schiacciato dalla pressione inumana del fondo degli oceani.

  Aspettano.

  Ognuno padrone del proprio territorio. Consapevole di tutto ciò che c’è nel proprio terzo di spazio.

  Un territorio largo novantacinque centime
tri, profondo poco più di quaranta.

  Ferro si è preso il territorio adiacente all’uscita.

  È in piedi davanti alla bottoniera, il fianco sinistro verso le maledette porte automatiche, il destro verso Tomas e Claudia. Sta sudando come un maiale sgozzato. La camicia bianca dagli intarsi country presenta due vistosissime chiazze scure sotto le ascelle. Nemmeno quella volta nell’Eurostar fermo sotto il sole, con l’aria condizionata fuori uso, i finestrini bloccati, senz’acqua, nemmeno quella volta nell’Eurostar ha sofferto cosı̀ tanto il caldo.

  Ha il portafogli nella tasca posteriore destra dei pantaloni.

  Le chiavi nella tasca anteriore sinistra.

  Il pacchetto di sigarette e lo Zippo nel taschino della camicia.

  E il coltello a serramanico, nella tasca anteriore destra.

  Ha una voglia pazzesca di fumare.

  Claudia regna sul territorio di mezzo. Di fronte a lei c’è la targhetta con la capienza e la portata. Dietro di lei, il numero verde del Pronto intervento.

  È girata col fianco destro verso le porte, si muove meno possibile per non dover sfiorare Ferro. Ha un odore sgradevole, Ferro, come profumo dolciastro su rancido sudore. E anche un altro odore, alieno, sotto. Un odore mai sentito, difficile da definire.

  Stringe la cordella dello zaino peruviano, lo zaino che contiene l’inutile telefonino, le chiavi di casa, i biscotti al cioccolato sbocconcellati in autobus.

  Non ha fame, Claudia. Per niente. È capace di non toccare cibo per due interi giorni senza avvertire lo stimolo della fame, e poi nutrirsi per altri due giorni solo di Macine del Mulino Bianco, Nutella e Coca-Cola. Bea inorridiva nel vederla mangiare,

  «Nemmeno in America le tue abitudini alimentari sarebbero remotamente accettabili» diceva nel vederla ingurgitare quel pastone di biscotti, Nutella e Coca-Cola. «Nemmeno nel più barbaro e incivile stato del Midwest.»

  Ha sete, Claudia. Aveva sete già prima di entrare nell’ascensore, ma ora il caldo e la tensione le hanno asciugato del tutto la gola, la lingua e il palato.

  Ha una voglia pazzesca di bere.

  Tomas si è accucciato in fondo alla cabina, la schiena contro i pannelli d’acciaio. Ha provato a sedersi con la faccia rivolta alle porte, ma si è accorto di non poterlo fare senza invadere lo spazio di Claudia. Allora ha cercato di sedersi di lato, nei novantacinque centimetri di larghezza della cabina, abbracciandosi gli stinchi. Posizione scomoda. Ha rinunciato a sedersi, si è rimesso in piedi. Aspetta.

  Non è preoccupato, Tomas. Per il treno delle otto c’è tempo. C’è un sacco di tempo.

  Ha il biglietto nella tasca dei jeans. La maglietta di Springsteen fradicia di sudore.

  Gioca con le chiavi, nervosamente.

  Ha una voglia pazzesca di vedere Francesca.

  Ferro spezza il silenzio, lucido, calmo.

  «Razionalizziamo» dice, sempre muovendo le mani in continuazione. «Ci sono due possibilità.» Claudia e Tomas si ridestano, si girano nella sua direzione, lo ascoltano attenti.

  «La prima è quella del blackout. È mancata la luce nel palazzo, o nell’isolato, o in tutta la città, non lo so, e l’ascensore si è fermato. Conseguenza: c’è tutta una squadra di tecnici che sta riparando le centraline o quello che è, tra poco l’ascensore riparte e noi usciamo di qui. Quanto potrà mai durare un blackout, andiamo? Un blackout non dura mica una vita, no?»

  «No che non dura una vita» approva Tomas, rassicurato dalla concretezza convincente di Ferro. «No che non dura una vita».

  Ma sì, ha ragione lui, per quanto tempo mancherà la corrente? Mezz’ora? Un’ora, to’, diciamo che dura un’ora. Si esce da qui alle sei, mettiamo, dalle sei alle otto, dalle sei alle otto c’è un sacco di tempo. Posso recuperare il maglione, preparare la valigia, andare in stazione con calma. Ho anche quest’avventura da raccontare a Francesca mentre andiamo ad Amsterdam.

  «La seconda possibilità?» incalza Claudia, gli occhi piantati su Ferro.

  «La seconda possibilità è il guasto dell’ascensore. Questo potrebbe essere un problema, specie se l’allarme non funziona, e i cellulari per qualche cazzo di motivo non funzionano, scusate il linguaggio... voglio dire, se si tratta di un blackout generalizzato, allora qualcuno starà avvisando i tecnici, qualcuno si starà muovendo, no? Se invece il mondo intero continua a girare come sempre ha fatto con l’unica eccezione del nostro adorabile ascensore, be’, con mezza popolazione sulle spiagge, potrebbe passare un po’ prima che si accorgano di noi.»

  Tomas inorridisce. «Ma qualcuno userà l’ascensore prima o poi, no? L’altro è fuori servizio, c’è solo questo utilizzabile, qualcuno si accorgerà che è fermo tra due piani, no? Mica ci abitiamo solo noi, in questo palazzo. Ci sono sessanta appartamenti, in questo palazzo» deglutisce trafelato, si riprende. «Forse dovremmo gridare, non saranno mica tutti al mare! La gattara del nono piano, per dire, la gattara del nono piano di sicuro non è al mare, né da nessun’altra parte. Quella è sempre qua, con tutti i suoi gatti e i suoi sacchi di sabbia.»

  «Anche la coppia col figlio» aggiunge Claudia. «Quella del settimo, presente?»

  «Il tipo con la coda di cavallo, dici?» domanda Tomas. «Lui con la coda di cavallo e quella camicia stranissima, lei con quei capelli assurdi, quelli?»

  «Quelli, quelli, i due che sembrano usciti ieri da Woodstock, quelli hanno un figlio appena nato. Non saranno mica partiti per il mare con il figlio appena nato.»

  Ferro riagguanta le redini del discorso. «Io però propendo per l’ipotesi del blackout» fa una pausa, aggiunge: «E vi spiego perché.»

  Chiude la mano destra a pugno, alza il dito indice. «Primo. Io non sono esperto di ascensori, non so come funzionano, ma se ci fosse ancora corrente non saremmo riusciti ad aprire le porte con le mani. Ci dev’essere una fotocellula o qualcosa del genere, che cazzo ne so, scusate il linguaggio, ci dev’essere una fotocellula che le tiene chiuse. Senza corrente la fotocellula non funziona.» Alza il dito medio, affiancandolo all’indice. «Secondo, la luce verde. Appena l’ascensore si è fermato c’è stato un istante di buio, giusto? E dopo l’istante di buio si è accesa questa luce verde che, ripeto, non sono esperto di ascensori, ma suppongo possa essere l’illuminazione d’emergenza. Che scatta in caso di blackout. Cosa dite? Fila la mia ipotesi?»

  «C’è una cosa che non torna» medita Claudia. «Le porte. Se è la fotocellula che le tiene chiuse, e la fotocellula si è disattivata col blackout, ecco, allora non c’è più niente a tenerle chiuse, giusto? E invece si sono ricongiunte appena avete lasciato la presa. Come se ci fosse stato un magnete, o qualcosa del genere, capite? Non si spiega.»

  Ferro allarga le braccia. «Signorina, come dicevo, non ho studiato manutenzione degli ascensori. Anch’io non so spiegarmi queste strane porte a molla, anch’io ho gli stessi dubbi. È cosı̀. Ne prendiamo atto.»

  Claudia inarca un sopracciglio.

  Signorina? Mi ha chiamato signorina? Ha frequentato un corso di etichetta o è un bizzarro approccio?

  Ci sta provando con le buone maniere?

  La faccia da maiale non gli manca.

  Signorina. Bah.

  «Io proverei a gridare» insiste Tomas. «C’è la gattara, c’è la coppia col bambino, insomma, non saremo mica le uniche tre persone rimaste in città, noi, giusto?»

  «Avremmo avuto una bella sfiga» scherza Ferro. Ridacchiano nervosi, tutti e tre.

  Tomas guarda speranzoso Ferro, autonominato coordinatore dei prigionieri dello Skylark 2000. «Gridiamo, allora?»

  «Al tre» lo autorizza Ferro. «Uno. Due. Tre».

  E al tre esplodono un «Ooooh!» collettivo che rimbomba tra i pannelli di acciaio, seguito da qualche urlo individuale.

  Claudia grida: «Siamo qui!»

  Tomas aggiunge: «C’è nessuno?»

  Ferro li coordina: «Di nuovo insieme. Al tre. Uno. Due. Tre».

  Lanciano altri due «Ooooh!» collettivi, perfettamente sincronizzati.

  Poi ritornano ad aspettare, in silenzio.

  17:39

  Ferro appoggia la schiena alla parete di
acciaio inossidabile, le porte alla sua sinistra, la bottoniera di fronte. Ha le braccia conserte, gli occhi fissi sulle punte delle scarpe. Riflette.

  Ragioniamo. Stiamo calmi e ragioniamo.

  Questa è una di quelle situazioni che possono tenerti in un limbo a tempo indeterminato, ma anche sbloccarsi di colpo, senza preavviso. Un attimo prima bestemmi perché l’Eurostar è fermo sotto il sole, l’aria condizionata non funziona, i finestrini sono bloccati, non c’è acqua e ti senti al centro esatto dell’inferno. Un attimo dopo il treno torna in vita, si riparte, e la frustrazione da immobilità forzata diventa un vago ricordo.

  Magari tra un minuto ci si muove, questo verde da acquario sfuma in un normale bianco da ascensore, e quaranta minuti di sospensione delle nostre esistenze vengono degradati allo stadio di seccatura irrilevante.

  Però, siamo realisti.

  Può anche darsi che non si sblocchi cosı̀ in fretta, la situazione. È il caso che cominci a considerarlo. Potresti passarci un’ora, o anche due, in questo cazzo di ascensore. Con i cellulari impazziti. Con l’allarme che probabilmente non funziona. Con la fantomatica gattara e l’altrettanto fantomatica coppia hippy che non ci sentono gridare.

  E nessuno, cazzo, nessuno che in quaranta minuti si sia accorto che c’è un ascensore fermo tra due piani.

  Allora, realisticamente: può darsi che tra un minuto si esca, ma intanto fai buon viso a cattivo gioco. Come diceva il Dentista? Trasforma il fango in oro.

  La ragazza è piccolina e piatta sul davanti, d’accordo. Bella non è bella, con quei capelli verdi ispidi, quel faccino affilato da lince. Però ha delle gambe niente male. E un vestitino da stupro nei giardinetti.

 

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