Blackout

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Blackout Page 13

by Gianluca Morozzi


  Guarda Tomas, appeso alla porta alla destra del mostro. Guarda Tomas, e vede solo un sacco di carne vuota. Vede i muscoli che fanno pressione, i piedi puntellati sul pavimento in gomma, ma la sua mente e i suoi occhi sono lontanissimi dalla bara di luce verde e acciaio inossidabile. La sua mente è su qualche binario al seguito di un treno, un treno in corsa verso una ragazza in attesa. Convinta che sul treno in arrivo ci sia una certa persona, venuta a portarla via come il cavaliere delle favole. Una certa persona venuta a salvarle la vita. Quella persona che è a torso nudo in un ascensore, piegato in avanti, radente alle pareti, con le mani artigliate sull’estremità di una porta, una lastra di metallo che cerca di prevalere sui suoi poveri muscoli torturati.

  E a un tratto, mentre Ferro sta ricamando l’ennesimo anello di fumo, la mente di Tomas si scinde un po’ troppo dal corpo. Le dite sudate scivolano sull’acciaio, le scarpe da basket slittano all’indietro, il corpo si sbilancia, le braccia cedono.

  Gli occhi del ragazzo tornano abitati quando è ormai troppo tardi. La porta d’acciaio è già scattata come una tagliola sul binario di scorrimento.

  Ferro ha solo il tempo di fare un balzo indietro. Il pannello di metallo si schianta violento contro il suo piede destro.

  Ferro caccia un urlo. Getta in aria la sigaretta, schizza all’indietro con una contorsione allo stesso tempo comica e drammatica.

  Claudia lascia la porta, che si ricongiunge alla gemella con un clangore di metallo. La sigaretta percorre un arco nel verde, ricade sotto la bottoniera.

  «Mi dispiace, mi dispiace» balbetta Tomas, appena atterrato da un mondo lontano per prendersi le colpe di un corpo non suo, «non l’ho fatto apposta, giuro, non l’ho fatto apposta.»

  Ferro si lascia cadere sul fondo della cabina, bestemmia, si tiene il piede. «Testa di cazzo!» latra. «Testa di cazzo! L’hai fatto apposta, testa di cazzo, frocetto del cazzo, l’hai fatto apposta, porca troia, porca troia.» Si sfila lo stivale, si tocca il piede, caccia un altro urlo. Non riesce nemmeno a toccarsi la caviglia.

  Tra poco sarà gonfia come un pesce palla. Cazzo.

  Come faccio a guidare la macchina, quando usciamo da qui? Come faccio a tornare alla baracca con un piede fuori uso?

  Merda.

  Merda.

  Merda.

  «Mi hai rotto il piede!» ringhia. «Me l’hai rotto, coglione, testa di cazzo!»

  Ficca una mano nella tasca dove tiene il coltello, gli occhi traboccanti d’odio. Una fitta fortissima lo azzanna alla caviglia. Stringe i denti.

  «Mi dispiace» geme Tomas. «Mi dispiace. Non l’ho fatto apposta. La porta era pesante. Avevo le dita sudate.»

  «Non può essersi rotto il piede» interviene Claudia. «Avrà preso una botta. Al massimo si gonfierà un po’.»

  «Sı̀, sı̀, difendilo pure, difendilo pure, io sono zoppo e adesso lo difendi pure, brava. Perché non gli fai un pompino davanti a me, cosı̀ almeno mi distraggo, cazzo, cazzo, che maleee, cazzo», e continua a guardarsi il piede come se volesse amputarlo. «Me la paghi, me la paghi, frocetto, testa di cazzo.»

  (Ha le dita strette sul coltello. Cedono gli argini. Le mura crollano. Scoppia il mondo. Macchie scarlatte, dietro le palpebre.)

  Claudia schiaccia la sigaretta ancora accesa sotto la scarpa. La grattugia continua a scavarle la spina dorsale.

  Sta per parlare, ma poi sente qualcosa. Qualcosa di bellissimo e insperato.

  Tomas sta ancora piagnucolando isterico. «Non è stata colpa mia, giuro, giuro, non l’ho fatto apposta», Claudia lo zittisce.

  «Si è mosso! Avete sentito? Si è mosso!»

  Tomas e Ferro drizzano le orecchie nello stesso momento. Le loro espressioni mutano all’istante.

  «Cosa?» biascica Ferro. «Cosa si è mosso?»

  «L’ascensore! L’ascensore! Si è mosso! L’ho sentito! Si è mosso!»

  Ferro schizza in piedi, in equilibrio sul piede sinistro e sul tallone del destro. Batte col pugno contro la parete, urla: «Siamo qui! Siamo qui, figli di troia! C’è qualcuno? Siamo qui!»

  Si butta in avanti, cercando di non spostare il peso del corpo sulla caviglia dolorante. Striscia contro Tomas e Claudia, solleva spruzzi di sudore al contatto tra le carni. Si attacca alla bottoniera, schiaccia sei volte il pulsante di allarme, urla: «Siamo qui! Siamo qui, figli di puttana! Siamo qui!»

  Preme l’orecchio contro la parete. Tomas riapre faticosamente le porte, di pura adrenalina. Le labbra serrate e i denti stretti.

  Le apre solo di qualche centimetro. Osserva la parete del vano.

  «Non si sta muovendo» geme. Ferro lo zittisce, la fronte corrugata. Guarda Claudia speranzoso. «Si è mosso? Sei sicura che si è mosso?»

  Lei aspetta un’eternità prima di rispondere. «Forse. Credo di sı̀. Mi era sembrato...»

  Per qualche minuto restano tutti e tre immobili, in silenzio, nel verde. Poi Tomas si rassegna, si accascia sotto la bottoniera.

  «Si era mosso» giura Claudia con gli occhi umidi. «Si era mosso.»

  Ferro torna a sedersi, si massaggia il piede nudo. Frantuma tra i denti strane bestemmie inarticolate.

  «Si era mosso» piagnucola Claudia. «Si era mosso.»

  Alla fine, tace anche lei.

  20:50

  Scende la sabbia nella clessidra, cantilena la voce di ragno nella testa di Tomas, scende la sabbia nella clessidra, quanta sabbia è rimasta nella clessidra, ooooh, guarda, cosı̀ poca.

  Stai zitto.

  Ooooh, guarda quanta poca sabbia nella clessidra, quanta poca sabbia, pensa a Francesca, Francesca è già uscita di casa, è già in stazione, conta i minuti, Francesca, con la sua valigina e il suo orologino e il suo cervellino contento, girandola felice nell’attesa, povera Francesca.

  Stai zitto.

  Ooooh, quanto manca poco, quanto manca poco, quattro minuti, pensa a quando il treno si fermerà sul binario, sarà trepidante e bellissima, con lo stomaco stretto e il cuore che batte, a cercare il tuo viso tra i tanti, povera bimba delusa.

  Stai zitto. Bastardo.

  Cosa farà, povera Francesca, quando il treno sarà ripartito e il binario si sarà svuotato e di te non ci sarà traccia? Si attaccherà al telefono, chiaro. Chiamerà il tuo cellulare. E che penserà nel sentire una vocina registrata che ripete: «L’utente selezionato non è al momento raggiungibile»? Cosa penserà di te?

  Farà il numero di casa tua, la burrasca nel petto e un lago negli occhi. Quante volte lo farà squillare prima di rassegnarsi?

  Dieci volte?

  Venti volte?

  Quante volte lo farà squillare?

  «Ehi, bimbo. Vieni qua.»

  Tomas riapre gli occhi, torna alla realtà. Ferro lo sta fissando attraverso il verde.

  Ha gli occhi cerchiati, profondamente incassati nel cranio. Sono strani quegli occhi nella luce smeraldo. Sembrano gialli.

  «Avvicinati, bimbo» bisbiglia Ferro, come se non fossero a quaranta centimetri l’uno dall’altro. Tomas guarda di sfuggita Claudia, che ora è appoggiata alle porte. È raggomitolata sul suo zaino peruviano. Sembra che dorma.

  «Non ti faccio niente, bimbo. Voglio parlarti.»

  Tomas si sporge un po’ riluttante. Ferro guarda fugacemente Claudia, anche lui, poi parla, pianissimo, lento.

  «Facciamo un patto, bimbo. Io sono un uomo ragionevole, sai? Magari mi prendono i cinque minuti come a tutti, fa caldo, mi fa male la caviglia, ho sete, mi prendono i cinque minuti come a tutti, ma poi ragiono. Sono capace di ragionare. Quando mi hai chiuso la porta sul piede, prima, ti avrei strangolato con queste mani...»

  «Non l’ho fatto apposta, è stato...»

  «Sı̀, sı̀, lasciami parlare, lasciami parlare. Voglio dirti che non ce l’ho con te, lo so che non l’hai fatto apposta, è stato un incidente, certo. In queste situazioni noi uomini dobbiamo restare uniti, le donne provano sempre a ficcarsi in mezzo, a dividerci, invece gli uomini devono restare uniti, dico bene? »

  Tomas annuisce senza capire. Ferro sogghigna, scoprendo i denti.

  «Bravo, bimbo. Vedi che io sono una persona ragionevole? Che
non ti porto rancore?» Indica Claudia, con un cenno del capo. «Mica come quella mezza matta dai capelli verdi. Lo vedi subito che è una stracciacazzi e basta quella lı̀, che fa tanto la dura, ci prende anche per il culo, ci dice che l’ascensore si è mosso, ci illude cosı̀, la stronza, fa tanto la dura e magari sono quattro ore che è tutta bagnata, perché le donne si bagnano con la tensione, lo sai? Magari sono quattro ore che fa la sostenuta, e intanto è tutta bagnata e non fa che pensare ’Ma questi due, perché questi due non tirano fuori l’uccello e non mi sbattono come si deve e come si conviene, cosa sono questi due, impotenti?, che mi vedono cosı̀ mezza nuda e non fanno niente di quello che sarebbe logico e naturale fare’, sai cosa facciamo, bimbo?, dimmi se non ti piace l’idea, adesso ci tiriamo giù i pantaloni, la svegliamo, e quando apre gli occhi la prima cosa che vede sono le nostre verghe belle in tiro, che dici?, secondo te non si eccita da bestia?, secondo me sı̀, allora, che dici, lo facciamo?»

  Tomas deglutisce. Otto zampe di sudore gelato si arrampicano sulla sua schiena. «Ho la ragazza» balbetta.

  Ferro agita la mano come a scacciare una mosca. «Che c’entra, che c’entra, io sono sposato, cosa credi?, ho detto un sacco di balle, si fa cosı̀ con le ragazze, si dicono un sacco di balle, io sono sposato e ho anche un figlio, ve’, cosa c’entra, credi che la troia si formalizzi perché ho una moglie e un figlio? Guarda come va vestita, non ti sembra una che ha una voglia infinita di cazzo, una che si veste cosı̀? Che con quel faccino da finta innocente, sai che ti dico?, questa è una che non si limita mica a prendertelo in bocca e buttar giù tutto fino all’ultima goccia, no, guarda, ascolta la voce dell’esperienza, che io di esperienza ce ne ho da vendere, bimbo, lei lı̀ è una di quelle che te lo lavorano con la lingua e intanto ti guardano, te lo lavorano tutto con la lingua e intanto guardano in alto con gli occhioni belli spalancati, che vogliono vederti bene quando godi, le conosco quelle come lei, con quella voglia illimitata di cazzo che hanno addosso, allora, che dici, ci stai?»

  Tomas ha i nervi che tirano in tutte le direzioni. È consapevole di ogni suo singolo nervo. Li sente tendersi sotto la pelle sottile come seta.

  «Non mi sembra il caso» balbetta, alla fine.

  (Che cazzo perdi tempo a parlarci, con questo ragazzino idiota? Tira fuori il coltello! Ficcaglielo in gola! Dritto in gola!)

  (No. Non posso. Scoprirebbero tutto. L’appartamento. La baracca. Tutto. Devo stare calmo, ragionare. Stare calmo, ragionare. )

  Ferro scuote la testa, ridacchia. Borbotta qualcosa.

  E torna a massaggiarsi il piede, concentrato solo sul gonfiore della sua caviglia.

  «Cosa sono questi sussurri?» si dice Claudia nel dormiveglia, racchiusa in un bozzolo di mezzacoscienza misericordiosa. «Di cosa stanno parlando? Cos’hanno da bisbigliare? Parlano di me?»

  Dentro il bozzolo, la grattugia sulla nuca è diventata una pallina d’acciaio.

  La pallina d’acciaio pulsa come un sole nero dietro il collo.

  Dentro il bozzolo, Claudia sta cercando inutilmente di visualizzare il viso di Bea.

  Si concentra, scava nei recessi spugnosi della memoria, raschia fuori vaghe impressioni di occhi, naso, bocca, cerca di appiccicarli su un volto.

  Ma i particolari, tutti i particolari, scivolano via.

  Non rievoca altro che un manichino con un ovale bianco al posto della testa. Si rivede a passeggiare per le stradine del ghetto con un manichino senza volto, andare al cinema con un manichino senza volto, svegliarsi in una mattina di pioggia accanto a un manichino senza volto. Non ricorda il suo viso. Non ricorda più il suo viso.

  Tranne.

  Forse.

  Ecco!

  C’è un’immagine che emerge dal tessuto spugnoso, eccola, Bea, ecco le sue lentiggini, ecco i suoi capelli rossi, ecco i suoi denti perfetti, eccola, Bea! Il ricordo di quella sera d’inverno, la prima nevicata dell’anno, Claudia e Bea che entrano nel palazzo di venti piani, sono allegre, hanno i capelli bagnati e gocciolanti, entrano nell’ascensore (nell’ascensore)

  Bea ha in mano il sacchetto del videonoleggio con dentro Amore e guerra e il classicissimo Io e Annie, Claudia sorregge i cartoni delle pizze, si lamenta perché i cartoni delle pizze scottano e colano olio, ridono perché il calore che si alza dai cartoni si sta condensando sul cielino bianco dell’ascensore (quell’ascensore)

  e Bea usa la mano libera per schiacciare il bottone, e le porte elettriche si chiudono

  (quelle porte)

  come sempre, l’ascensore sale, si ferma al piano, le porte elettriche si aprono, Claudia e Bea escono dalla cabina (quella cabina)

  e appena mettono piede sul pianerottolo i lineamenti di Bea si dissolvono, Bea è di nuovo un manichino con l’ovale vuoto al posto del viso, un manichino che tiene in mano il sacchetto del videonoleggio con Amore e guerra e il classicissimo Io e Annie, e a quel punto la vera Claudia inizia a piangere, la pallina d’acciaio si sposta nello sterno e comincia a pulsare, e quando le lacrime traboccano dietro le palpebre e la pulsazione è troppo intensa dietro le costole, Claudia si sveglia.

  Scagliata fuori dal mondo bianco e rosa, di nuovo nel mondo color dello smeraldo.

  Guarda l’ascensore in cui il calore aveva formato la condensa sull’acciaio, in cui aveva scherzato con Bea, lo guarda e vede Ferro che si massaggia il piede nudo, Tomas che gioca disperato con le chiavi, le pareti vicine, vicinissime.

  Cerca di tornare dentro il bozzolo, ma tornare dentro il bozzolo è impossibile.

  E allora si rassegna ad aspettare.

  E si aggancia a una stringa rassicurante di pensieri.

  Albi del Falco Nembo Kid, seicentocinquantun numeri. Dal numero cinquecentoventinove cambia nome in Superman Nembo Kid. Dal numero cinquecentosettantacinque cambia nome in Superman Mondadori.

  Superalbo Nembo Kid, ottantacinque numeri. Dal numero sessantadue diventa Batman Nembo Kid.

  Superman Williams prima serie, sedici numeri.

  Superman Williams seconda serie, undici numeri.

  Collana Super, ventisei numeri.

  Superman Cenisio...

  Arriva fino ai Superman TP della Play Press. Poi riavvolge la stringa. Ricomincia da capo.

  QUINTA ORA

  21:05

  Un suono penetra nel verde, distante ma chiaramente percettibile.

  Un suono che proviene da uno degli appartamenti. Il trillo di un telefono.

  La lama del boia.

  «Eccola» geme Tomas, la testa tra le ginocchia.

  Sa benissimo da dove proviene quella telefonata. Dalla stazione di Parma. Passando per il quindicesimo piano.

  «In leggero ritardo» ridacchia Ferro. «La tua fidanzata ti ha dato fiducia per dieci minuti.»

  «La smetta!» sbotta Claudia.

  Ferro schiocca le dita. «Cazzo! Mi è appena saltata la teoria sulla guerra batteriologica.»

  Il telefono suona di nuovo. Ferro si massaggia il piede. «Potrei riformulare la teoria. Una guerra batteriologica localizzata. Prima hanno preso Bologna. Stanotte, Parma. Domani, il mondo.»

  Tomas si tappa le orecchie per non sentire. «Stai tranquillo » prova a consolarlo Claudia. «Stai tranquillo. Richiamerà, Richiamerà, vedrai. Richiamerà appena saremo fuori di qui. La chiamerai tu quando saremo fuori di qui.» Ha appena bevuto il contenuto del secondo Pocket Coffee, ma non ne ha tratto benefici. Quel liquido denso e pastoso le ha asciugato ulteriormente le fauci. Sta sempre peggio.

  «Non sai di cosa stai parlando» dice Tomas con un filo sottilissimo di voce. «Non sai di cosa stai parlando. La mia vita è appena finita. Non sai assolutamente di cosa cazzo stai parlando. Stai zitta, per favore. Per favore.»

  Terzo squillo.

  Tomas chiude gli occhi.

  «Io ho bisogno di una sigaretta» urla d’improvviso Ferro. «Io impazzisco se non fumo. Non scomodatevi. Mi apro le porte da solo, che vorrei mantenere sano almeno un piede. Oppure fumo qui dentro.»

  «Non c’è aria, qui dentro» protesta Claudia. Ferro la ignora. Cerca la sigaretta, poi lo Zippo. Non fa neppure lo sforzo di aprire le porte.


  «Per favore» geme Claudia al quinto squillo. «Non respiriamo. Non si respira, qui dentro. Non respiriamo. Nessuno di noi tre.»

  Ferro distoglie lo sguardo, infastidito. Si porta la sigaretta alla bocca. La accende.

  Claudia si alza in piedi, si trascina alle porte. Cerca l’aiuto di Tomas, ma Tomas è nell’abisso.

  E allora cerca di aprirle da sola, con tutta la forza che le rimane nel corpo. Solo pochi centimetri. Un po’ di ossigeno. Solo un po’.

  Ferro soffia fuori il fumo, canticchia Mystery Train con la voce di un orco.

  Il telefono squilla un’ultima volta, poi il silenzio torna a farla da padrone.

  SESTA ORA

  22:47

  Non si parlano. Hanno palati ruvidi, lingue aride. Non sprecano parole.

  Claudia respira piano, in simbiosi con la pallina che pulsa nello sterno.

  L’unica cosa che riesce a pensare è «Voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire uscire uscire uscire uscire uscire

  «uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire voglio uscire».

  Ferro sta ascoltando la voce di un morto, nel suo angolo di ascensore.

  «Non voglio guai, ragazzi» dice la voce del morto.

  Ferro sghignazza, inascoltato.

  La voce appartiene allo Spacciatore, il primissimo ospite della baracca nel bosco. Lo Spacciatore era legato alla sedia con una catena intorno al petto e alle cosce. Davanti a lui c’era il Dentista, a braccia conserte. Ferro stava un po’ più defilato.

  Lo Spacciatore aveva avuto la pessima idea di scegliersi come zona operativa il piazzale davanti al locale di Ferro, il primo, il Graceland. Il Pink Cadillac e il Memphis erano ancora di là da venire.

 

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