Blackout

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Blackout Page 17

by Gianluca Morozzi


  Senza pensare che, forse, suo padre poteva aver fatto un paio di telefonate.

  Senza pensare al fatto che, casualmente, il pezzo grosso in questione lavorava per la rete di cui era direttore suo padre.

  Senza sospettare niente.

  Dietro il suo sorriso beato, Wilmo sapeva benissimo tutte queste cose. Non gli importava. Le sue idee stavano assumendo sembianze concrete, finalmente.

  Erano partiti per Milano diretti a quel colloquio-farsa, Walter a ripetere come un disco rotto «Mio padre nemmeno lo sa, pensa che sorpresa se lo incontro nei corridoi, lui non sa niente». Wilmo a pensare «Ma sı̀, ma certo, figurarsi».

  Durante quel viaggio in macchina, Wilmo aveva elaborato l’idea di un programma - il loro programma, ovviamente - da proporre alla rete. L’aveva esposto minuziosamente a Walter, e il contributo di Walter era stato il solito «Sı̀, sı̀, meraviglioso! », e il titolo del programma. Cacofonico. Orrendo.

  Dal colloquio-farsa, Walter era uscito stolidamente entusiasta. «Hai visto com’è rimasto colpito dal nostro progetto?» squittiva.

  Come se fosse stato normale, per due neolaureati del DAMS senza referenze, venir contattati solo sulla base di due corti clandestini, esporre un azzardatissimo progetto, e vederselo accettato cosı̀, su due piedi.

  Normale.

  Certo.

  Se si è figli di Colui che tutto può.

  Comunque, il progetto aveva preso il via. Con l’orribile titolo Constatazione amichevole, trentacinque puntate da venti minuti, le undici di sera come morbida collocazione oraria.

  L’idea di Wilmo era semplice, geniale ed economica.

  Walter e un paio di tecnici del suono si appostavano sul terrazzo di una palazzina alla periferia di Milano, un terrazzo proprio sopra a un semaforo. Wilmo stava in macchina col motore acceso, mezzo nascosto in una stradina laterale.

  Appena arrivava un’auto solitaria, Wilmo usciva dalla stradina laterale e tamponava l’auto ferma al rosso. Quando il proprietario dell’auto scendeva, Wilmo lo affrontava con incredibile faccia tosta sostenendo di aver ragione. Quel che succedeva dopo, Walter lo riprendeva dal terrazzino.

  Dal punto di vista sociologico, l’idea si era rivelata azzeccata e interessante. Le vittime inconsapevoli reagivano il più delle volte con urla e improperi, bestemmie, telefonate agitate ai vigili, prima della rivelazione finale. Con la telecamera che sbucava dal terrazzino, la stretta di mano di Wilmo, la garanzia di risarcimento dei danni.

  Wilmo, dal canto suo, si era scoperto bravissimo. La sua espressione alla Buster Keaton in certe situazioni al limite dello scontro fisico si era rivelata un punto di forza del programma.

  Aveva ingoiato impassibile carrettate di insulti, pianti di signore isteriche, perfino la testata in mezzo agli occhi di un energumeno esagitato, alla sesta puntata. Aveva mostrato la cicatrice a tutti, orgoglioso, come una medaglia ricevuta sul campo.

  Poi, alla nona puntata, c’era stato il disastro.

  La storia del giovane avvocato.

  La mattina del disastro era iniziata come tutte le altre mattine. Walter e i tecnici si erano appostati come al solito sul terrazzino, mentre Wilmo era in macchina col motore acceso, aspettando la sua vittima.

  Il semaforo era diventato rosso, proprio mentre spuntava quella Volvo nera dal fondo della strada. Wilmo aveva avuto il tempo di notare una ragazza dietro il finestrino, sul sedile del passeggero, aveva lasciato la frizione, era partito. Puntando la targa della Volvo ferma al semaforo.

  La sua tecnica era ormai consolidata: una frenata improvvisa, un po’ di stridore di gomme per far scena, e poi il crash!, il metallo sul metallo, i fanalini frantumati. Era sceso con la solita faccia di creta, pronto a incolpare l’altro guidatore.

  Solo, dalla Volvo nera nera, era sceso un pazzo.

  Il pazzo era un trentenne distinto, ben vestito, i capelli corti, il pizzetto curato, la camicia nera di sartoria. Con le iridi dilatate, le vene del collo gonfie, la voce da psicolabile.

  Aveva iniziato a strillare, a insultarlo, ad accusarlo di avergli rovinato la Volvo. Prima che Wilmo potesse parlare, l’aveva preso per la gola.

  Wilmo non aveva ceduto alla tentazione di scoprire subito il gioco. Dopotutto, la puntata più vista di Constatazione amichevole era stata quella della testata in mezzo agli occhi, e se il suo pubblico voleva veder scorrere un po’ di sangue, be’, per il suo programma, per il suo sogno, Wilmo era pronto a sacrificarsi.

  E allora aveva continuato a negare l’evidenza, con una faccia tosta inimmaginabile. Aveva rantolato - mentre il pazzo gli stringeva la gola - «Adesso lei si calma, mi firma la constatazione amichevole e si prende tutte le colpe dell’incidente».

  Il pazzo non ci aveva visto più. Gli aveva rovesciato addosso una valanga di minacce, minacce in cui tirava in ballo certi amici potenti in grado di schiacciare Wilmo con una telefonata, amici potenti pronti a correre in suo aiuto. Aveva fatto anche il nome e il cognome di questi suoi amici, completamente folle di rabbia, fuori di testa.

  Wilmo aveva avuto solo il tempo di realizzare che, forse, forse, le cose stavano prendendo una brutta piega. Che, forse, era meglio finirla lı̀.

  Poi, una scarica di pugni allo stomaco gli aveva spezzato il fiato e i pensieri.

  Il resto, Wilmo l’aveva appreso dopo. Walter e i tecnici si erano sbracciati dal terrazzino, urlando: «È una candid camera! È una candid camera!»

  Imprevedibilmente, il pazzo si era infuriato ancora di più. Aveva urlato di consegnargli la cassetta, di smetterla di riprendere, intanto che la ragazza sulla Volvo si copriva la faccia, e Wilmo sputava grumi di sangue sull’asfalto.

  In ospedale, Walter gli aveva spiegato - bianco in faccia - tutto quello che aveva saputo.

  Il pazzo era un giovane avvocato rampante, figlio di un politico in ascesa. Con amicizie molto in alto, ma davvero molto, molto in alto. Cosı̀ in alto da poter veramente contare sui nomi che aveva urlato in faccia a Wilmo, ignaro di essere ripreso.

  Chi fosse la ragazza sulla Volvo, nessuno aveva neppure osato immaginarlo.

  La rete protettiva del padre di Walter, in questo caso, aveva funzionato solo in parte. Wilmo e Walter avevano rimestato in una palude troppo torbida per loro, nella stessa palude da cui da trent’anni traeva nutrimento Colui che tutto può.

  Constatazione amichevole era stato cancellato con l’ottava puntata, ufficialmente per ragioni di scarsa audience. Wilmo e Walter non avevano protestato. Non avevano obiettato niente.

  Si erano resi conto di essere stati fortunati, in realtà.

  Molto, molto fortunati.

  Se la rete protettiva non aveva salvato il programma, comunque, quantomeno li aveva fatti atterrare sul morbido. Il padre di Walter aveva gettato la maschera col figlio - una maschera di carta sottilissima -, e gli aveva brutalmente dettato le condizioni per tornare a lavorare. Walter lo aveva ringraziato, poi era andato in ospedale a spiegare tutto a Wilmo.

  «Mio padre dice che abbiamo una seconda possibilità» aveva detto, «ma che dobbiamo tornare in sella con qualcosa di fortissimo. Qualcosa di imbattibile. Che metta tutti a tacere con i numeri dell’audience, dobbiamo avere dei numeri inattaccabili da sbattere in faccia a tutti.» Aveva guardato implorante Wilmo con la sua solita espressione da ragazzo buono, assolutamente incapace di farsi venire un’idea brillante.

  «Cosa facciamo, Wilmo? Cosa ci inventiamo?» aveva sussurrato in un modo che significava «Sono nelle tue mani».

  E allora Wilmo aveva chiuso gli occhi.

  Aveva iniziato a pensare.

  A qualcosa di forte.

  Di fortissimo.

  DECIMA ORA

  La fiammella dello Zippo è morta già da un’ora, ma Claudia non ha paura del buio. È troppo impegnata a ricordare le parole di una canzone, seduta, concentrata, con i pugni sulle tempie.

  Un tempo si era messa in testa di imparare i rudimenti della chitarra, Claudia, col solo aiuto della Clarissa scordata di suo fratello, di un manualetto degli accordi, e di un canzoniere di Vasco Rossi. Non era andata oltre a una grattatina informe che vagamente ricordava
la base di quella canzone, quella di cui confonde irrimediabilmente il testo. Inizia a cantarla flebilmente nell’oscurità, arriva fino al punto che non riesce a rammentare. Poi rinuncia, e chiede aiuto.

  «Tomas? Come fa il testo di Albachiara? C’è prima Nei tuoi pensieri o Nei tuoi problemi? Io mi ricordo come si suona con la chitarra, do, sol, la minore, questo me lo ricordo, solo, ho scordato le parole. Cosa viene prima, Nei tuoi problemi o Nei tuoi pensieri?»

  «Non lo so.»

  «Fa lo stesso. Cantala con me. Cantiamola come ci viene.»

  La voce di Claudia è l’ululato triste di un coyote col deserto nella gola. Quando la canzone incontra lo scoglio dei pensieri e dei problemi, la lascia morire senza rimpianti.

  UNDICESIMA ORA

  «Claudia? Stai dormendo?»

  «Tomas? Sei tu?»

  «No.»

  «Chi sei?»

  «Lo sai.»

  «No che non lo so. Io sto cercando di dormire, Tomas è mezzo svenuto, e tu sei morto con la testa tra le porte. Quindi, vedi di restare morto e vaffanculo.»

  «Mi dispiace che tu mi abbia conosciuto cosı̀, Claudia. Io non ero una cattiva persona, un tempo.»

  «Nooo, dai. Raccontami qualche storiella divertente. Raccontami che mi hai quasi violentata e hai fatto a fette Tomas perché tua madre ti faceva leccare i pannolini sporchi. Fammi ridere. Ne ho bisogno.»

  «No, davvero. È brutto che tu mi abbia conosciuto in questa veste. Io credevo di essere un ribelle ai tempi della scuola, odiavo mio padre, odiavo quello che era diventato, un fantasma in canottiera gettato sul divano. Una larva che non degnava mia madre di uno sguardo, che spendeva tutti i soldi al bar e dalla solita puttana sdentata che andava a trovare da vent’anni. Andavo in giro per la strada, la sera, mezzo ubriaco, a spegnere i lampioni con un calcio.»

  «Immagino, immagino, che triste storia. Allora ti perdono, ti comprendo, guarda. Hai fatto proprio bene ad accoltellare Tomas, adesso è lı̀ che sanguina come un maiale, poverino, ma la colpa è tutta del tuo vecchio che andava a troie. Già. Hai quarant’anni e non hai ancora superato il trauma di tuo padre che andava a troie, perfettamente ragione. Forse è stato meglio cosı̀, povera anima. Forse stai meglio in mezzo alle porte, col cervello che cola giù per il vano. Che ne dici?»

  «Sai, Claudia? Io ho partecipato a un concorso, una volta. Un concorso per sosia di Elvis.»

  «Non mi dire.»

  «Io mi ero allenato tantissimo per quel concorso, avevo preparato Can’t Help Falling in Love. Mi ero esercitato davanti allo specchio, col registratore, ero perfetto. Assolutamente perfetto. Be’, sono arrivato al concorso che ero emozionato come un bambino, in questa balera dozzinale nella Bassa, sono andato in bagno cinque volte da tanto che ero nervoso, e all’ultimo momento mi hanno cambiato la canzone. Ci credi? Prima di me c’erano già altri quattro concorrenti con Can’t Help Falling in Love, e allora mi hanno cambiato la canzone. Ci sono rimasto malissimo.»

  «Immagino. Terribile vicenda. Angosciante.»

  «Ho dovuto improvvisare, ho fatto Suspicious Mind ma non l’avevo preparata, capisci, non ero pronto. Sono arrivato dodicesimo. Dopo tutto il tempo passato a prepararmi, dopo tutte le prove con lo specchio e il registratore, sono arrivato dodicesimo.»

  «Mi sanguina il cuore. Ora che ti sei sfogato, per piacere, vuoi farmi il piacere di tornare nel buio e restare morto? Per favore?»

  «Avrei vinto, se mi avessero fatto cantare Can’t Help Falling in Love. Avrei vinto. Ne sono sicuro.»

  «VAFFANCULO!» strilla Claudia ad alta voce. Scatta in piedi nello stridore delle sue ginocchia scricchiolanti «NON ME NE FREGA UN CAZZO DEL TUO CONCORSO DI MERDA! BRUCIA ALL’INFERNO! SEI MORTO, RESTA MORTO! BRUCIA ALL’INFERNO! BRUCIA ALL’INFERNO !»

  Dal buio non arriva nessuna voce in risposta. Solo il tossire liquido di Tomas, pochi centimetri più in là.

  DODICESIMA ORA

  «Tomas?» sussurra nel buio Claudia, la testa sgombra e liscia come un sasso di fiume.

  «Hm?»

  «Chi dovevi incontrare alla stazione di Parma? Con chi avevi appuntamento, alla stazione di Parma?»

  «Nessuno. Non dovevo incontrare nessuno alla stazione di Parma.»

  «Che cazzo dici? Certo che dovevi incontrare qualcuno, alla stazione di Parma. Dicevi che la tua vita stava per cambiare, che tutto dipendeva da quell’incontro alla stazione di Parma. Che dovevi vedere una persona alla stazione di Parma, alle venti e cinquantaquattro, mi ricordo benissimo, avevi parlato delle venti e cinquantaquattro, sono sicura. Chi dovevi vedere alle venti e cinquantaquattro alla stazione di Parma?»

  «Nessuno. Non conosco nessuno a Parma.»

  Claudia scuote la testa. «Va bene. Convinciti di non conoscere nessuno alla stazione di Parma. Muovi pure la lingua come se fosse un pezzo di carne morta, raccontati pure tutte queste belle storielle. Raccontane una anche a me, allora. Raccontami una storia per passare il tempo, che qua dentro il tempo non passa mai, prima che vengano a tirarci fuori potresti anche raccontarmi una storia, potresti, mi pare.»

  «Non conosco nessuna storia.»

  «RACCONTAMI UNA STORIA! INVENTALA!»

  Tomas sputa un grumo di sangue. Deglutisce.

  «Ti racconto la storia della principessa Mycomandrya. È una storia molto molto molto bella. Ascolta.» Tossisce, si schiarisce la voce. «C’era un cavaliere in armatura. Stava cercando la principessa Mycomandrya, perché un mago l’aveva rapita per sposarla e renderla la regina dei rospi. Il cavaliere la cercava per liberarla e sposarsela lui, si suppone. Questo la storia non lo dice. Possiamo solamente dedurlo.» Tomas respira a fondo, con un sordo brontolı̀o. «Il mago aveva nascosto la principessa Mycomandrya in una caverna profondissima. Solo un tunnel scavato nella roccia portava alla caverna.»

  «È la stessa storia del verme nella montagna?»

  «No. Questo è un altro tunnel. Ascolta. Il cavaliere in armatura entrò nel tunnel. Cominciò a strisciare sulla pancia, facendo presa con le dita, artigliando la roccia viva con le unghie.»

  «Non aveva dei guanti, l’armatura? Perché doveva artigliare la roccia con le unghie, se aveva dei guanti di metallo?»

  «Non faceva presa sulla roccia, con quelle tozze dita di ferro. E cosı̀ strisciò nel tunnel buio per giorni e giorni, con la sete che gli incendiava la gola. Il cavaliere sapeva che sarebbe stato sufficiente avere dell’acqua. Se avesse avuto dell’acqua sarebbe stato bene, sarebbe uscito dal tunnel, sarebbe arrivato alla caverna.»

  «E trovò l’acqua?»

  «No. Udı̀ un rombo spaventoso, come una frana, e il tunnel si richiuse alle sue spalle. Il cavaliere continuò ad avanzare comunque, fino alla strozzatura.»

  «Quale strozzatura?»

  «Poco più avanti. Una strozzatura nel tunnel. Un piccolo restringimento. Pochi centimetri. Abbastanza da impedirgli di andare oltre, ma appena appena, una piega di solida roccia. Senza l’armatura sarebbe riuscito a passare.»

  «Allora si tolse l’armatura.»

  «Ci provò, ma non aveva spazio per muovere le braccia. Si girò e si contorse e si sforzò e lottò con quella gabbia di metallo, ma per quanto provasse e riprovasse non c’era una sola possibilità al mondo di togliersi l’armatura. Nessuna. Proprio nessuna.»

  Un brivido a forma di tarantola si arrampica sulla nuca di Claudia. Risale lento dalla spina dorsale, gioca con i suoi capelli verdi. «E allora?»

  «Cercò di strappare l’armatura con le dita ridotte a moncherini. Poi tentò di scavare con i denti nella roccia. Non riusciva a credere di essere rimasto sepolto vivo per pochi centimetri, cosı̀ pochi centimetri, non riusciva a crederlo. Scavò con i denti fino a consumarsi le gengive. Alla fine, la sua mente sprofondò nel profondissimo pozzo della follia.»

  «È orribile. Una storia orribile.»

  «Dicono che sia ancora laggiù. Che si possa sentirlo urlare dal cuore della terra, nelle notti silenziose e senza vento.»

  «È orribile. Orribile. ORRIBILE.» La voce di Claudia è stridula come quella di una strega. «Perché me l’hai raccontata? Eh? P
ERCHÉ ME L’HAI RACCONTATA?»

  Conficca le unghie nelle guance di Tomas, le affonda nella carne, digrignando i denti fino a farli scricchiolare. Spinge la sua testa contro la parete d’acciaio alle sue spalle.

  Tomas non reagisce. È ipnotizzato dallo stridore dei denti nel buio.

  INTERLUDIO: TRE LUCERTOLE IN UN VASO

  La luce rossogrigia dell’alba bagna un Transit blu, parcheggiato con due ruote in strada e due sul marciapiede nell’ombra ancora incerta del palazzo.

  Dentro il Transit, Walter si agita come un elettrone impazzito. Wilmo, al contrario, fuma davanti ai monitor impassibile, calmo.

  «Siamo due criminali» balbetta sconnesso Walter, gli occhi rossi e infossati. «Due criminali, siamo. Ci credevamo artisti ma non siamo artisti, siamo due criminali, due criminali, siamo.»

  «Stai calmo.»

  «Ma stai calmo cosa, ma cosa stai calmo, ma ti rendi conto? Qui finiamo in galera, cazzo! In galera finiamo, cazzo, cazzo, ma ti rendi conto?, in galera, finiamo!»

  «Stai calmo» ripete Wilmo, soffiando fuori il fumo. «Non finiamo in galera. Basta fare le cose per bene, ribaltare un pochino la verità. Se facciamo le cose per bene, usciamo da tutta questa storia candidi e puliti come gigli.»

  Torna a osservare Claudia che blatera da sola al centro del monitor.

  Illuminata dagli infrarossi che squarciano il buio.

  Sapendo di non poter sbagliare, di giocarsi l’avvenire con quel nuovo programma, Wilmo aveva pianificato tutto fino ai minimi dettagli.

 

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