by Dante
36
non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge inver’ la porta →
del bassissimo pozzo tutta pende,
39
lo sito di ciascuna valle porta
che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
42
onde l’ultima pietra si scoscende.
La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
45
anzi m’assisi ne la prima giunta.
“Omai convien che tu così ti spoltre,”
disse ’l maestro; “ché, seggendo in piuma,
48
in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma, →
cotal vestigio in terra di sé lascia,
51
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
54
se col suo grave corpo non s’accascia.
Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
57
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia.”
Leva’mi allor, mostrandomi fornito →
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
60
e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito.”
Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
63
ed erto più assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso, →
66
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso →
fossi de l’arco già che varca quivi;
69
ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
72
per ch’io: “Maestro, fa che tu arrivi
da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’ i’ odo quinci e non intendo,
75
così giù veggio e neente affiguro.”
“Altra risposta,” disse, “non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
78
si de’ seguir con l’opera tacendo.”
Noi discendemmo il ponte de la testa →
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
81
e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa →
di serpenti, e di sì diversa mena
84
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia con sua rena; →
ché se chelidri, iaculi e faree
87
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree →
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
90
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e tristissima copia →
corrëan genti nude e spaventate,
93
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
96
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch’era da nostra proda, →
s’avventò un serpente che ’l trafisse →
99
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse, →
com’ el s’accese e arse, e cener tutto
102
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
105
e ’n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce, →
108
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
111
e nardo e mirra son l’ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
114
o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
117
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’ è severa, →
120
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: “Io piovvi di Toscana, →
123
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
126
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.”
E ïo al duca: “Dilli che non mucci, →
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
129
ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci.”
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
132
e di trista vergogna si dipinse; →
poi disse: “Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
135
che quando fui de l’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
138
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi, →
141
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra; →
144
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
147
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
151
E detto l’ho perché doler ti debbia!” →
INFERNO XXV
Al fine de le sue parole il ladro →
le mani alzò con amendue le fiche,
3
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, →
perch’ una li s’avvolse allora al collo, →
6
come dicesse “Non vo’ che più diche”
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
9
che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi →
d’incenerarti sì che più non duri,
12
poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt’ i cerchi de lo ’nferno scuri →
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
15
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia →
18
venir chiamando: “Ov’ è, ov’ è l’acerbo?”
Maremma non cred’ io
che tante n’abbia, →
quante bisce elli avea su per la groppa
21
infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
24
e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
27
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
30
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
33
gliene diè cento, e non sentì le diece.”
Mentre che sì parlava, ed el trascorse, →
e tre spiriti venner sotto noi,
36
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,
se non quando gridar: “Chi siete voi?”
per che nostra novella si ristette,
39
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
42
che l’un nomar un altro convenette,
dicendo: “Cianfa dove fia rimaso?” →
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, →
45
mi puosi ’l dito su dal mento al naso.
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
48
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.
Com’ io tenea levate in lor le ciglia, →
e un serpente con sei piè si lancia
51
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
54
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
57
e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
60
per l’altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
63
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:
come procede innanzi da l’ardore, →
per lo papiro suso, un color bruno
66
che non è nero ancora e ’l bianco more.
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: “Omè, Agnel, come ti muti! →
69
Vedi che già non se’ né due né uno.” →
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
72
in una faccia, ov’ eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
75
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
78
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come ’l ramarro sotto la gran fersa →
dei dì canicular, cangiando sepe,
81
folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso l’epe →
de li altri due, un serpentello acceso,
84
livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
87
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
90
pur come sonno o febbre l’assalisse.
Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
93
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.
Taccia Lucano omai là dov’ e’ tocca →
del misero Sabello e di Nasidio,
96
e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
99
converte poetando, io non lo ’nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
102
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme, →
che ’l serpente la coda in forca fesse,
105
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
108
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
111
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
114
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
117
e ’l misero del suo n’avea due porti.
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
120
per l’una parte e da l’altra il dipela,
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
123
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
126
uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
129
e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
132
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
135
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
138
e l’altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle, →
e disse a l’altro: “I’ vo’ che Buoso corra,
141
com’ ho fatt’ io, carpon per questo calle.”
Così vid’ io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
144
la novità se fior la penna abborra. →
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
147
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; →
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
151
l’altr’ era quel che tu, Gaville, piagni. →
INFERNO XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande →
che per mare e per terra batti l’ali,
3
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
> Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
6
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna, →
tu sentirai, di qua da picciol tempo, →
9
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ ei, da che pur esser dee!
12
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria, →
15
rimontò ’l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
18
lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio →
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
21
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
24
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, →
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
27
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
30
forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea →
l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
33
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.