by Dante
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di Montaperti, perché mi moleste?”
E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta, →
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
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poi mi farai, quantunque vorrai, fretta.”
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
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“Qual se’ tu che così rampogni altrui?” →
“Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo,” rispuose, “altrui le gote,
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sì che, se fossi vivo, troppo fora?”
“Vivo son io, e caro esser ti puote,”
fu mia risposta, “se dimandi fama,
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ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.”
Ed elli a me: “Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
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ché mal sai lusingar per questa lama!”
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: “El converrà che tu ti nomi,
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o che capel qui sù non ti rimagna.”
Ond’ elli a me: “Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti
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se mille fiate in sul capo mi tomi.”
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’ avea più d’una ciocca,
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latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
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se tu non latri? qual diavol ti tocca?”
“Omai,” diss’ io, “non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
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io porterò di te vere novelle.”
“Va via,” rispuose, “e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi, →
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di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.
El piange qui l’argento de’ Franceschi:
‘Io vidi,’ potrai dir, ‘quel da Duera
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là dove i peccatori stanno freschi.’
Se fossi domandato ‘Altri chi v’era?’
tu hai dallato quel di Beccheria
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di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
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ch’aprì Faenza quando si dormia.”
Noi eravam partiti già da ello, →
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
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sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca, →
così ’l sovran li denti a l’altro pose
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là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
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che quei faceva il teschio e l’altre cose.
“O tu che mostri per sì bestial segno →
odio sovra colui che tu ti mangi,
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dimmi ’l perché,” diss’ io, “per tal convegno, →
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
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se quella con ch’io parlo non si secca.”
INFERNO XXXIII
La bocca sollevò dal fiero pasto →
quel peccator, forbendola a’ capelli
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del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli →
disperato dolor che ’l cor mi preme
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già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, →
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parlare e lagrimar vedrai insieme. →
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino →
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mi sembri veramente quand’ io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
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or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
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e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda, →
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udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda, →
la qual per me ha ’l titol de la fame,
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e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’ io feci ’l mal sonno →
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che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno, →
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
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per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
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s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
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mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane, →
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
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ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli →
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
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e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
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e per suo sogno ciascun dubitava; →
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto →
a l’orribile torre; ond’ io guardai
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nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai: →
piangevan elli; e Anselmuccio mio
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disse: ‘Tu guardi sì, padre! che hai?’
Perciò non lagrimai né rispuos’ io
tutto quel giorno né la notte appresso,
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infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
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per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi; →
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
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di manicar, di sùbito levorsi
e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
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queste misere carni, e tu le spoglia.’
Queta’mi allor per non farli più tristi; →
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
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ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
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dicendo: ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
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tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’ io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur mor
ti. →
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Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno.” →
Quand’ ebbe detto ciò, con li occhi torti →
riprese ’l teschio misero co’ denti,
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che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti →
del bel paese là dove ’l sì suona,
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poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
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sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
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non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
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e li altri due che ’l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata →
ruvidamente un’altra gente fascia,
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non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia, →
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
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si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
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rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d’un callo, →
per la freddura ciascun sentimento
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cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: “Maestro mio, questo chi move?
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non è qua giù ogne vapore spento?”
Ond’ elli a me: “Avaccio sarai dove →
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
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veggendo la cagion che ’l fiato piove.”
E un de’ tristi de la fredda crosta →
gridò a noi: “O anime crudeli
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tanto che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
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un poco, pria che ’l pianto si raggeli.”
Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, →
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
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al fondo de la ghiaccia ir mi convegna.”
Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo; →
i’ son quel da le frutta del mal orto,
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che qui riprendo dattero per figo.”
“Oh,” diss’ io lui, “or se’ tu ancor morto?”
Ed elli a me: “Come ’l mio corpo stea →
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nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
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innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volontier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
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sappie che, tosto che l’anima trade
com fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
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mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso →
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de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso;
elli è ser Branca Doria, e son più anni
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poscia passati ch’el fu sì racchiuso.”
“Io credo,” diss’ io lui, “che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
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e mangia e bee e dorme e veste panni.”
“Nel fosso sù,” diss’ el, “de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
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non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
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che ’l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano; →
aprimi li occhi.” E io non gliel’ apersi;
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e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi →
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
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perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
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e in corpo par vivo ancor di sopra.
INFERNO XXXIV
“Vexilla regis prodeunt inferni →
verso di noi; però dinanzi mira,”
3
disse ’l maestro mio, “se tu ’l discerni.”
Come quando una grossa nebbia spira, →
o quando l’emisperio nostro annotta,
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par di lungi un molin che ’l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro →
9
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro, →
là dove l’ombre tutte eran coperte, →
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e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte, →
quella col capo e quella con le piante;
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altra, com’ arco, il volto a’ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
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la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
“Ecco Dite,” dicendo, “ed ecco il loco →
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ove convien che di fortezza t’armi.”
Com’ io divenni allor gelato e fioco, →
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
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però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
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qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
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e più con un gigante io mi convegno, →
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’ esser dee quel tutto
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ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’ elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, →
36
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia →
quand’ io vidi tre facce a la sua testa!
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L’una dinanzi, e quella era vermiglia; →
l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
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e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
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vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali, →
quanto si convenia a tanto uccello:
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vele di mar non vid’ io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e que
lle svolazzava,
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sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti →
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gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
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sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che tal volta la schiena
60
rimanea de la pelle tutta brulla.
“Quell’ anima là sù c’ha maggior pena,” →
disse ’l maestro, “è Giuda Scarïotto,
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che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
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vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai →
69
è da partir, ché tutto avem veduto.”
Com’ a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste, →
72
e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
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tra ’l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia →
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
78
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’ elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’ om che sale,