by Dante
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
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che fanno le letane in questo mondo.
Come ’l viso mi scese in lor più basso, →
mirabilmente apparve esser travolto
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ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,
ché da le reni era tornato ’l volto, →
e in dietro venir li convenia,
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perché ’l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
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ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto →
di tua lezione, or pensa per te stesso
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com’ io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
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le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi →
del duro scoglio, sì che la mia scorta
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mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand’ è ben morta; →
chi è più scellerato che colui
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che al giudicio divin passion comporta?
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui →
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
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per ch’ei gridavan tutti: ‘Dove rui,
Anfïarao? perché lasci la guerra?’
E non restò di ruinare a valle
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fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
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di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante →
quando di maschio femmina divenne,
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cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
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che rïavesse le maschili penne.
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga, →
che ne’ monti di Luni, dove ronca
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lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
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e ’l mar non li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle, →
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
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e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’ io;
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onde un poco mi piace che m’ascolte. →
Poscia che ’l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
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questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco, →
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
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sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna →
tra Garda e Val Camonica e Pennino
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de l’acqua che nel detto laco stagna.
Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese
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segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese →
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
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ove la riva ’ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi →
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
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e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
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fino a Govèrnol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, ch’el trova una lama, →
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
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e suol di state talor esser grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
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sanza coltura e d’abitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano, →
ristette con suoi servi a far sue arti,
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e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
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per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
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Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.
Già fuor le genti sue dentro più spesse, →
prima che la mattia da Casalodi
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da Pinamonte inganno ricevesse.
Però t’assenno che, se tu mai odi →
originar la mia terra altrimenti,
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la verità nulla menzogna frodi.”
E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
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che li altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
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ché solo a ciò la mia mente rifiede.”
Allor mi disse: “Quel che da la gota →
porge la barba in su le spalle brune,
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fu—quando Grecia fu di maschi vòta,
sì ch’a pena rimaser per le cune—
augure, e diede ’l punto con Calcanta
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in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
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ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quell’ altro che ne’ fianchi è così poco, →
Michele Scotto fu, che veramente
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de le magiche frode seppe ’l gioco.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, → →
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
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ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron l’ago, →
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
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fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine →
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
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sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda: →
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda.”
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Sì mi parlava, e andavamo introcque. →
INFERNO XXI
Così di ponte in ponte, altro parlando →
che la mia comedìa cantar non cura,
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venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando
restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
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e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani →
bolle l’inverno la tenace pece
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a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno—in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
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le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
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chi terzeruolo e artimon rintoppa—:
tal, non per foco ma per divin’ arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
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che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che ’l bollor levava,
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e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr’ io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”
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mi trasse a sé del loco dov’ io stava.
Allor mi volsi come l’uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
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e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia ’l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero →
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correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant’ elli era ne l’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
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con l’ali aperte e sovra i piè leggero!
L’omero suo, ch’era aguto e superbo, →
carcava un peccator con ambo l’anche,
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e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.
Del nostro ponte disse: “O Malebranche, →
ecco un de li anzïan di Santa Zita! →
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Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche →
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo; →
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del no, per li denar, vi si fa ita.”
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
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con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s’attuffò, e tornò sù convolto; →
ma i demon che del ponte avean coperchio,
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gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio! →
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
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non far sopra la pegola soverchio.”
Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: “Coverto convien che qui balli,
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sì che, se puoi, nascosamente accaffi.”
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
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la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro “Acciò che non si paia →
che tu ci sia,” mi disse, “giù t’acquatta
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dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
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per ch’altra volta fui a tal baratta.” →
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’ el giunse in su la ripa sesta,
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mestier li fu d’aver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta →
ch’escono i cani a dosso al poverello
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che di sùbito chiede ove s’arresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt’ i runcigli;
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ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l’un di voi che m’oda,
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e poi d’arruncigliarmi si consigli.”
Tutti gridaron: “Vada Malacoda!” →
per ch’un si mosse—e li altri stetter fermi—
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e venne a lui dicendo: “Che li approda?”
“Credi tu, Malacoda, qui vedermi →
esser venuto,” disse ’l mio maestro,
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“sicuro già da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
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ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro.”
Allor li fu l’orgoglio sì caduto, →
ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
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e disse a li altri: “Omai non sia feruto.”
E ’l duca mio a me: “O tu che siedi →
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
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sicuramente omai a me ti riedi.”
Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
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sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;
così vid’ ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona, →
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veggendo sé tra nemici cotanti.
I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi
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da la sembianza lor ch’era non buona.
Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ’l tocchi,” →
diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”
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E rispondien: “Si, fa che gliel’ accocchi.”
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
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e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”
Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo →
iscoglio non si può, però che giace
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tutto spezzato al fondo l’arco sesto.
E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
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presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’ otta, →
mille dugento con sessanta sei
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anni compié che qui la via fu rotta.
Io mando verso là di questi miei →
a riguardar s’alcun se ne sciorina;
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gite con lor, che non saranno rei.”
“Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina,” →
cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo;
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e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
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e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate ’ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio →
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che tutto intero va sovra le tane.”
“Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?” →
diss’ io, “deh, sanza scorta andianci soli,
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se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.
Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
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e con le ciglia ne minaccian duoli?”
Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi; →
lasciali digrignar pur a lor senno,
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ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti.”
Per l’argine sinistro volta dienno; →
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
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ed elli avea del cul fatto trombetta.
INFERNO XXII
Io vidi già cavalier muover campo, →
e cominciare stormo e far lor mostra,
3
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
6
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
&
nbsp; 9
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
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né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni. →
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
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coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
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e de la gente ch’entro v’era incesa.
Come i dalfini, quando fanno segno →
a’ marinar con l’arco de la schiena
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che s’argomentin di campar lor legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
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e nascondea in men che non balena.
E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
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sì che celano i piedi e l’altro grosso,
sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
30
così si ritraén sotto i bollori.
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli ’ncontra
33
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
36
e trassel sù, che mi parve una lontra.
I’ sapea già di tutti quanti ’l nome, →
sì li notai quando fuorono eletti,
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