Sussurri

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Sussurri Page 5

by Dean Koontz


  Hilary rimase a fissarlo per un paio di minuti. Non notò il benché minimo movimento, neppure il lieve alzarsi e ab­bassarsi del torace.

  Era morto?

  Lentamente, timidamente, si avvicinò all'uomo.

  "Mr Frye?"

  Non intendeva avvicinarsi troppo. Non voleva correre alcun rischio, ma doveva vederci più chiaro. Tenne la pi­stola puntata contro di lui, pronta a sparargli un altro colpo al minimo movimento.

  "Mr Frye?"

  Non ci fu risposta.

  Era ridicolo chiamarlo ancora "Mr Frye". Dopo quello che era successo quella sera, dopo quello che aveva cercato di farle, Hilary era ancora formale e gentile. Forse perché era morto. Una volta passato a miglior vita, anche il peggior individuo merita rispetto, persino da parte di chi l'a­veva sempre considerato un bugiardo o un farabutto. Tutti dobbiamo morire e sminuire un morto equivale un po' a sminuire se stessi. Oltretutto, se si parla male della morte, in qualche modo ci si fa gioco di quel grande mistero e forse, così facendo, gli dei sono più portati a punirci per il nostro affronto.

  Hilary aspettò continuando a fissare l'uomo, mentre tra­scorreva un altro minuto.

  "Sa una cosa, Mr Frye? Penso che non correrò alcun ri­schio con lei. Credo che le pianterò un altro proiettile in testa. Già. Un bel colpo proprio in mezzo alla nuca."

  Naturalmente non era capace di fare una cosa simile, non era violenta per natura. Una volta aveva sparato al po­ligono di tiro, subito dopo aver comprato la pistola, ma non aveva mai ucciso una creatura vivente che fosse più grande degli scarafaggi dell'appartamento di Chicago. Aveva trovato il coraggio di sparare a Bruno Frye solo per­ché quell'uomo la stava minacciando e le aveva provocato un'incredibile scarica di adrenalina. L'isterismo e un primitivo istinto di sopravvivenza l'avevano resa violenta per un attimo. Ma ora che Frye giaceva sul pavimento, assoluta­mente immobile, non più pericoloso di un mucchio di stracci sporchi, non era semplice riuscire a premere il gril­letto. Non sarebbe potuta rimanere lì a osservare il cer­vello spappolato di un uomo. Il solo pensiero le faceva ri­voltare lo stomaco. Ma la minaccia avrebbe indotto l'uomo a scoprirsi. Se stava fingendo, la possibilità che lei gli spa­rasse a bruciapelo avrebbe dovuto porre fine alla sua sce­neggiata.

  "Diritto alla testa, lurido bastardo," esclamò, sparando un colpo in aria.

  Frye rimase immobile.

  Hilary sospirò e abbassò la pistola.

  Morto. Era morto.

  Aveva ucciso un uomo.

  Già paventando i brutti momenti che polizia e giornalisti le avrebbero fatto passare, scavalcò il corpo disteso e si di­resse verso la porta.

  Ma improvvisamente Frye non era più morto.

  Improvvisamente, era tornato vivo e vegetò come non mai.

  Quell'uomo aveva previsto le sue mosse. Aveva capito che quella minaccia di sparargli in testa era un trucco. Aveva intuito l'inganno senza perdere il proprio sangue freddo. Non aveva battuto ciglio!

  Ora usava il braccio piegato sotto il corpo per spingersi in avanti, attaccando Hilary come un serpente: con la mano sinistra le afferrò la caviglia e la trascinò a terra. Urlando e agitandosi, rotolarono in un intrico di gambe e braccia; le era di nuovo addosso, con i denti all'altezza della sua gola, e ringhiava come un cane; Hilary era terrorizzata dall'idea che la mordesse, che le azzannasse la giugulare per suc­chiarle il sangue. Alla fine riuscì a mettere una mano fra di loro: fece scivolare il palmo della mano sotto il mento del­l'uomo e allontanò la testa dal suo collo mentre ricomincia­vano a rotolare, finendo a sbattere contro il muro con un colpo sordo: si fermarono storditi e ansimanti. Frye era sopra di lei, un animale violento, pesante, che la schiacciava e la contemplava con sguardo lascivo. Gli occhi freddi e mo­struosi erano socchiusi, vuoti e spaventosi, il fiato puzzava di cipolla e birra; era riuscito a infilarle una mano sotto il vestito, voleva strapparle le calze, cercava di fare scivolare le dita tozze sotto gli slip per afferrarle il sesso, ma non con la presa dell'amante, bensì con quella del lottatore; il pen­siero di quello che avrebbe potuto fare ai delicati tessuti del suo corpo la riempì di terrore: sapeva che in quel modo era persino possibile uccidere una donna, entrandole den­tro, lacerandola, strappandola. Hilary cercò disperata­mente di graffiare quegli occhi color cobalto per accecarlo, ma l'uomo spostò velocemente la testa, allontanandola dalla sua portata; improvvisamente si irrigidirono en­trambi, perché si resero conto nello stesso, preciso istante, che Hilary non aveva mollato la pistola quando lui l'aveva scaraventata a terra. L'arma era bloccata fra di loro, il cal­cio premeva contro i genitali di Frye e sebbene il dito di Hilary non fosse sul grilletto, lei riuscì ugualmente a farlo scivolare e a metterlo nella giusta posizione proprio nell'at­timo in cui si rese conto della situazione.

  La mano tozza dell'uomo era ancora in mezzo alle sue gambe. Una posa oscena. Una mano dura, demoniaca e di­sgustosa. Riusciva ad avvertire il sudore anche attraverso il guanto che indossava Frye. L'uomo non stava più cercando di strapparle gli slip. Tremava. E anche la sua lurida mano stava tremando.

  Il bastardo ha paura.

  I suoi occhi sembravano uniti a quelli della donna da un filo invisibile, un filo resistente che non si sarebbe spezzato facilmente. Nessuno dei due riusciva a distogliere lo sguardo.

  "Se fai una mossa falsa," sussurrò Hilary, "ti faccio sal­tare le palle."

  Frye sbattè gli occhi.

  "Hai capito?" domandò Hilary, senza riuscire a mante­nere la voce ferma. Era affannata e ansimava per lo sforzo ma, soprattutto, per la paura.

  Frye si leccò le labbra.

  Sbattè lentamente gli occhi.

  Come una maledetta lucertola.

  "Hai capito?" ripetè Hilary, questa volta in tono deciso.

  "Sì."

  "Sarai ragionevole?"

  "Sì."

  "Non mi fregherai un'altra volta."

  "Come vuoi tu."

  La voce di Frye era nuovamente profonda, rauca e si­cura. Niente nella sua voce, nei suoi occhi o nel suo viso tradiva la sua immagine di macho. Ma la mano guantata continuava ad agitarsi nervosamente fra le gambe della donna.

  "Va bene," disse Hilary. "Quello che devi fare è muo­verti lentamente, molto, molto lentamente. Quando ti do il via, rotoliamo tutt'e due molto lentamente finché io non sarò sopra di te."

  Hilary si rese conto che quello che stavano per fare asso­migliava terribilmente e in modo grottesco all'abbraccio di due amanti durante un atto sessuale, ma quell'idea non la divertì per niente.

  "Quando te lo dico, e non un secondo prima, ti giri sulla tua destra," ordinò.

  "Okay."

  "E io rotolerò con te."

  "Certo."

  "Semplice e facile."

  "Certo."

  "E terrò la pistola dove si trova adesso."

  Gli occhi dell'uomo erano ancora duri e gelidi, ma era scomparsa quella luce di furiosa pazzia. Il pensiero che qualcuno potesse sparargli agli organi genitali l'aveva ri­portato immediatamente alla realtà, almeno per un po'.

  Lei gli premette la canna della pistola contro il pene e Frye gemette di dolore.

  "Adesso, girati lentamente," ordinò Hilary.

  L'uomo fece esattamente quanto gli era stato detto: scivolò sul fianco con estrema attenzione, poi sulla schiena, senza mai staccare gli occhi da Hilary, Le tolse la mano da sotto il vestito mentre cambiavano posizione, ma non cercò di strapparle la pistola.

  Hilary si aggrappò a lui con la mano sinistra, mentre con l'altra stringeva la pistola e rotolò con lui, tenendo sempre la canna puntata contro gli organi genitali dell'uomo. Fi­nalmente fu sopra di lui, con un braccio intrappolato e la calibro 32 automatica sempre in posizione strategica.

  La mano destra cominciava a intorpidirsi a causa della posizione scomoda, ma anche perché stringeva la pistola con tutta la forza, nel timore di allentare la presa. Impu­gnava l'arma con tanta rabbia che le dita e i muscoli del braccio erano tesi per lo sforzo. Temeva che in qualche modo l'uomo si rendesse conto della crescente debolezza della sua mano oppure che le dita perdessero sensibi
lità co­stringendola a mollare la pistola.

  "Va bene," disse Hilary. "Adesso scivolerò giù. Terrò la pistola puntata e mi metterò accanto a te. Non muoverti. Non sbattere neanche gli occhi."

  L'uomo tenne lo sguardo fisso su di lei.

  "Hai capito?" domandò lei.

  "Sì."

  Tenendo la 32 puntata sul suo scroto, Hilary si allontanò dall'uomo come se si risollevasse da un campo minato. Aveva i muscoli addominali contratti per la tensione. La bocca era asciutta e impastata. Il soffio del loro respiro sembrava riempire la stanza come un vento impetuoso, ep­pure Hilary aveva i sensi così all'erta da riuscire a percepire il leggero ticchettio del suo Cartier. Scivolò da una parte, si appoggiò sulle ginocchia, esitò un attimo e finalmente si alzò in piedi, allontanandosi velocemente dall'uomo, prima che lui potesse afferrarla un'altra volta.

  Frye si mise a sedere.

  "No!" urlò Hilary.

  "Che cosa c'è?"

  "Sdraiati."

  "Non ho intenzione di inseguirti."

  "Sdraiati."

  "Rilassati."

  "Maledizione, sdraiati!"

  Non le avrebbe obbedito. Rimase seduto. "Allora, adesso che cosa succede?"

  Puntando la pistola contro di lui, Hilary sbottò: "Ti ho detto di sdraiarti sulla schiena, obbedisci! Subito!"

  Frye storse le labbra in uno di quegli orribili sorrisi che gli venivano tanto bene. "Ti ho chiesto che cosa succede adesso."

  Stava cercando di riprendere il controllo della situazione e a Hilary questo non andava. D'altra parte, era davvero importante che rimanesse sdraiato piuttosto che seduto? Anche rimanendo seduto, non avrebbe potuto essere così veloce da alzarsi e raggiungerla prima che lei gli piantasse in corpo un paio di proiettili.

  "Va bene," concesse riluttante Hilary. "Siediti, se pro­prio insisti. Ma se solo fai un gesto verso di me ti scarico la pistola addosso. Ti spappolo le budella. Giuro su Dio che lo faccio."

  Frye sogghignò e annuì.

  Tremando, Hilary proseguì: "Adesso vado sul letto. Mi siedo e telefono alla polizia."

  Si spostò lateralmente e indietreggiò, come un granchio, un passetto dopo l'altro, finché raggiunse il letto. Il tele­fono era sul comodino. Nel momento in cui si sedette e sol­levò il ricevitore, Frye si alzò in piedi.

  "Ehi!"

  Hilary lasciò la cornetta e strinse la pistola con entrambe le mani, cercando di tenerla ferma.

  Lui alzò le mani per calmarla, con i palmi rivolti verso di lei. "Aspetta. Aspetta solo un secondo. Non ti faccio niente."

  "Siediti."

  "Non ho intenzione di avvicinarmi."

  "Siediti immediatamente."

  "Adesso me ne vado," le comunicò Frye.

  "Neanche per sogno."

  "Me ne vado da questa stanza e da questa casa."

  "No!"

  "Non mi sparerai se me ne vado."

  "Tu provaci e te ne pentirai."

  "Non lo farai," continuò Frye con tono sicuro. "Sei il tipo che preme il grilletto solo se non ha altra scelta. Non riusciresti a uccidermi a sangue freddo. E sicuramente non alle spalle. Non ce la faresti mai. Non tu. Non hai quel ge­nere di forza. Sei debole. Dannatamente debole." Sul suo viso comparve ancora quell'orribile ghigno, quel sorriso di morte. Fece un altro passo verso la porta. "Puoi chiamare gli sbirri dopo che me ne sarò andato." Un altro passo. "Sa­rebbe diverso se fossi uno sconosciuto. In tal caso forse avrei qualche probabilità di farla franca. Ma, dopotutto, tu puoi spiegare loro chi sono." Un altro passo. "Mi trove­ranno in fretta. Troppo in fretta, dannazione." Un altro passo. "Vedi, tu hai già vinto e io ho perso. Sto solo cer­cando di guadagnare un po' di tempo. Solo un po' di tempo."

  Sapeva che quell'uomo aveva ragione. Avrebbe potuto ucciderlo se l'avesse attaccata, ma non sarebbe mai stata ca­pace di sparargli mentre se ne andava.

  Frye si rese conto che le sue parole avevano colpito nel segno, anche se lei non aveva detto nulla, e si voltò per an­darsene. Quel gesto sprezzante la mandò su tutte le furie, ma non riuscì a premere il grilletto. Si era avvicinato lenta­mente all'uscita, ma ora camminava a grandi passi e a testa alta, senza nemmeno guardarsi alle spalle. Scomparve oltre la porta devastata e il rumore dei passi riecheggiò lungo il corridoio.

  Quando Hilary lo udì scendere le scale, si rese conto che sarebbe anche potuto rimanere nella casa. Senza essere vi­sto, avrebbe potuto infilarsi in una delle stanze del piano di sotto e nascondersi in un armadio, aspettando paziente­mente che la polizia se ne fosse andata per poi uscire dal suo nascondiglio e coglierla di sorpresa. Corse in cima alle scale giusto in tempo per vedere l'uomo che girava a sini­stra, verso l'ingresso. Un attimo più tardi, lo sentì armeggiare con le serrature; poi uscì, sbattendosi fragorosamente la porta alle spalle.

  Era quasi giunta in fondo alle scale quando le venne in mente che forse aveva solo fatto finta di andarsene. Forse aveva sbattuto la porta senza uscire. Forse la stava aspet­tando nell'ingresso.

  Hilary teneva la pistola lungo il fianco, con la canna ri­volta verso il pavimento, ma la alzò prontamente, in preda a un terrore cieco. Scese le scale e si bloccò sull'ultimo gra­dino, rimanendo con le orecchie tese. Alla fine si sporse in avanti per riuscire a lanciare un'occhiata all'ingresso. Era deserto. La porta dell'armadio era spalancata. Frye non era neppure lì dentro. Se n'era andato davvero.

  Hilary chiuse la porta dell'armadio.

  Andò verso la porta d'ingresso e chiuse anche quella a doppia mandata.

  Muovendosi lentamente, attraversò il soggiorno e si di­resse verso lo studio. Nella stanza si sentiva il profumo di limone del prodotto usato per i mobili: il giorno prima c'e­rano state le due donne dell'impresa di pulizie. Hilary ac­cese la luce e si avvicinò all'enorme scrivania. Appoggiò la pistola al centro del tampone di carta assorbente.

  Sul tavolino accanto alla finestra era appoggiato un vaso pieno di rose rosse e bianche. Davano un tocco dolciastro all'aria che sapeva di limone.

  Si sedette alla scrivania e prese il telefono che aveva da­vanti. Cercò il numero della polizia.

  Improvvisamente e inaspettatamente, gli occhi le si riempirono di calde lacrime. Cercò di trattenerle. Era Hi­lary Thomas e Hilary Thomas non piangeva. Non piangeva mai. Hilary Thomas era forte. Hilary Thomas poteva sop­portare le offese e le ingiurie peggiori senza lasciarsi mai andare. Hilary Thomas sapeva sempre come comportarsi in modo corretto. Cercò di strizzare gli occhi ma non riuscì a contenere il flusso di lacrime. Le rigavano le guance per poi sostare un attimo agli angoli della bocca e scivolare lungo il mento. Dapprima pianse sommessamente, senza emettere il benché minimo rumore, ma dopo un paio di minuti, cominciò a tremare e a sussultare e fu costretta a rompere il silenzio. Dal fondo della gola le salì un suono soffocato che si trasformò rapidamente in un grido acuto di disperazione. Poi scoppiò. Proruppe in un gemito racca­pricciante e si strinse con le braccia. Si abbandonò ai sin­ghiozzi, cercando invano di riprendere fiato. Prese un Kleenex dal pacchetto appoggiato sulla scrivania, si soffiò il naso, cercò di riprendersi ma rabbrividì e ricominciò a singhiozzare.

  Non stava piangendo perché Frye le aveva fatto male. Non le aveva procurato alcun danno serio e tanto meno ir­reparabile: almeno non fisicamente. Stava piangendo per­ché quell'uomo l'aveva violata, anche se le risultava diffì­cile usare quel termine. Ribolliva di rabbia e di vergogna. Anche se non l'aveva stuprata, anche se non era riuscito a strapparle i vestiti, aveva comunque distrutto la sua sfera di cristallo, la sua privacy, una barriera che si era costruita con la massima attenzione e che rivestiva un'enorme im­portanza per lei. Si era introdotto nel suo mondo ben or­dinato e aveva toccato dappertutto con le sue manacce sporche.

  Quella stessa sera, al miglior tavolo della Polo Lounge, Wally Topelis aveva cercato di convincerla che avrebbe po­tuto abbassare la guardia almeno di qualche millimetro. Per la prima volta in ventinove anni, aveva seriamente preso in considerazione la possibilità di vivere allentando le difese con le quali era praticamente cresciuta. Grazie alle buone notizie e all'interessamento di Wa
lly, era rimasta af­fascinata dall'idea di poter vivere la sua vita senza quella paura che l'attanagliava da sempre. Una vita con molti amici. Molto relax. Molto divertimento. Quella nuova vita pareva un bel sogno, difficile da raggiungere ma per cui va­leva la pena di lottare. Ma Bruno Frye aveva afferrato quel fragile sogno per la gola e l'aveva soffocato. Le aveva ricor­dato che il mondo era un posto pericoloso, una cantina buia con creature spettrali nascoste negli angoli. Proprio mentre cercava di uscire dall'inferno, prima che avesse la possibilità di apprezzare il mondo, quell'uomo le aveva sferrato un calcio a tradimento e l'aveva fatta ricadere in quella voragine, in mezzo al dubbio, alla paura e alla diffi­denza, sprofondata nella terribile quiete della solitudine.

  Piangeva perché si sentiva violata. E perché era stata umiliata. E perché lui le aveva rubato la speranza e l'aveva calpestata come il più prepotente della scuola avrebbe fatto con il giocattolo preferito del bambino più indifeso.

  2

  Impressioni.

  Anthony Clemenza ne era affascinato.

  Al tramonto, prima ancora che Hilary Thomas rientrasse a casa, mentre stava guidando in mezzo alle colline nel ten­tativo di rilassarsi, Anthony Clemenza e il suo collega, il te­nente Frank Howard, stavano interrogando il proprietario di un bar di Santa Monica. Oltre l'enorme vetrata della sala posta a occidente, il sole che stava calando creava continui giochi di luce color porpora, arancio e argento sul mare sempre più scuro.

  Era un bar per single chiamato Paradise, punto d'incon­tro per i solitari cronici e i vogliosi inguaribili di entrambi i sessi, che un tempo si trovavano alle feste parrocchiali, dai vicini, ai picnic o in club privati ormai rasi al suolo da bull­dozer reali o psicologici per lasciare posto a enormi gratta­cieli, condomini di cristallo e cemento, pizzerie e parcheggi a cinque piani. Il Paradise era il classico locale in cui il ra­gazzo dell'era spaziale incontrava la sua extraterrestre, lo stallone macho faceva conoscenza con la piccola ninfo­mane, la timida segretaria di Chatsworth arrossiva davanti allo scialbo programmatore di computer di Burbank e in cui, a volte, il violentatore trovava la sua vittima.

 

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