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Sussurri Page 8

by Dean Koontz


  Frank Howard aveva altre ragioni che lo spingevano a offrirsi con tale dedizione al dipartimento. Non sembrava particolarmente ambizioso e nemmeno troppo preoccupato per questioni finanziarie. Per quanto ne sapeva Tony, Frank accettava di fare gli straordinari perché in realtà si sentiva vivo solo quando lavorava. L'unico ruolo che amava interpretare era quello di investigatore della Omicidi: solo in quella veste si sentiva realizzato.

  Tony distolse lo sguardo dai fanalini rossi delle automo­bili che aveva davanti e studiò il viso del compagno. Frank non si accorse neppure di essere osservato. Era concentrato sulla guida e scrutava attentamente il flusso di traffico sul Wilshire Boulevard. La luce verdastra proveniente dalle spie del cruscotto illuminava i suoi lineamenti marcati. Non era bello nel senso classico del termine, ma aveva un suo fascino. Sopracciglia folte. Profondi occhi azzurri. Il naso un po' troppo importante e affilato. La bocca ben disegnata assumeva spesso un'espressione corrucciata che metteva in evidenza la mascella robusta. Il viso era indub­biamente dotato di un certo fascino e lasciava trasparire tracce di una sincerità ostinata. Non era difficile immagi­nare Frank che tornava a casa, si sedeva e, immancabil­mente ogni notte, cadeva in uno stato di trance che durava fino alle otto del mattino successivo.

  Oltre alla disponibilità a lavorare più del necessario, Tony e Frank avevano altri punti in comune. Anche se la maggior parte degli investigatori in borghese avevano rifiu­tato le vecchie regole sull'abbigliamento e si presentavano in servizio indossando indifferentemente un paio di jeans o abiti sportivi, Tony e Frank erano convinti che fosse me­glio portare la tradizionale cravatta. Si consideravano dei professionisti e svolgevano un lavoro che richiedeva una particolare abilità e un certo talento, un lavoro fondamen­tale e difficile come quello di un avvocato, un insegnante o un assistente sociale; anzi, forse era ancora più difficile e i jeans non contribuivano certo a creare un'immagine profes­sionale. Nessuno dei due fumava. Nessuno dei due beveva quando era in servizio. E nessuno dei due aveva mai cer­cato di appioppare il proprio lavoro d'ufficio all'altro.

  Forse un giorno le cose funzioneranno tra noi, pensò Tony. Forse con il tempo riuscirò a convincerlo a usare più tatto e meno forza con i testimoni. Forse riuscirò a risve­gliare il suo interesse per i film e il cibo, se non proprio per i libri, l'arte e il teatro. Il motivo per cui ho tanti problemi ad adattarmi a lui è che forse sto puntando troppo in alto. Ma santo cielo, se soltanto parlasse un po' di più, invece di starsene lì seduto come una mummia!

  Per il resto della carriera come detective della Omicidi, Tony si sarebbe aspettato molto da chiunque avesse lavo­rato con lui perché per cinque anni, fino al mese di maggio, era stato affiancato da un compagno praticamente perfetto, Michael Savatino. Sia lui sia Michael provenivano da famiglie italiane e condividevano quindi gli stessi ricordi, gli stessi dolori e le stesse gioie. Inoltre, fattore ancora più im­portante, si avvalevano degli stessi metodi sul lavoro e amavano gli stessi passatempi. Michael era un divoratore di libri, un appassionato di cinema e un eccellente cuoco. Le loro giornate erano sempre state costellate da conversa­zioni estremamente interessanti.

  Nel mese di febbraio, Michael e Paula, sua moglie, erano andati a Las Vegas per un fine settimana. Avevano assistito a due spettacoli. Avevano cenato due volte al Battista's Hole in the Wall, il miglior ristorante della città. Avevano puntato su una decina di numeri senza vincere nulla. Avevano giocato a black jack e avevano perso ses­santa dollari. Poi, un'ora prima della partenza, Paula aveva infilato un dollaro in una slot machine che le era parsa particolarmente invitante, aveva abbassato la leva e aveva vinto poco meno di duecentoventimila dollari.

  Il lavoro di poliziotto non era mai stato la massima aspi­razione di Michael. Ma, come Tony, era alla ricerca di un posto sicuro. Aveva frequentato l'accademia di polizia e da semplice poliziotto in uniforme era rapidamente diventato investigatore, ma sostanzialmente perché un lavoro del ge­nere offriva una certa sicurezza economica. In marzo, co­munque, Michael aveva presentato le dimissioni al diparti­mento con sessanta giorni di preavviso e in maggio se n'era andato. Aveva sempre desiderato possedere un ristorante. Cinque settimane prima aveva aperto Savatino's, un pic­colo ma autentico ristorante italiano sul Santa Monica Bou­levard, non lontano da Century City.

  Un sogno che si era avverato.

  Quante probabilità ho di realizzare i miei sogni come ha fatto lui? si chiese Tony mentre studiava la città avvolta dalle tenebre. Quante probabilità ho di andare a Las Ve­gas, di vincere duecentomila dollari, di lasciare la polizia e di tentare il colpo come artista?

  Non era necessario esprimere quella domanda a voce alta. Non aveva bisogno del parere di Frank Howard. Co­nosceva già la risposta. Quante probabilità aveva? Ben po­che. Aveva le stesse probabilità di scoprire che era il figlio disperso di uno sceicco arabo.

  Se Michael Savatino aveva sempre sognato di aprire un ristorante, Tony Clemenza sperava un giorno di potersi guadagnare da vivere come artista. Aveva talento. Aveva realizzato opere raffinate con metodi diversi: a penna, ad acquerello e a olio. Non era soltanto dotato dal punto di vista tecnico, possedeva anche una capacità creativa assolu­tamente unica. Forse se fosse nato in una famiglia della me­dia borghesia con discrete risorse economiche, avrebbe po­tuto frequentare un'ottima scuola, avrebbe ricevuto una buona educazione dai migliori professori, avrebbe affinato il talento ricevuto da Dio e sarebbe diventato un artista di successo. Invece si era costruito da solo, grazie a centinaia di libri d'arte e con ore e ore di diligenti esercizi di disegno e di sperimentazione con i diversi materiali. Inoltre soffriva di quella perniciosa mancanza di fiducia in se stessi che caratterizza gli autodidatti di qualsiasi settore. Anche se aveva partecipato a quattro concorsi, vincendo per ben due volte il primo premio nella sua categoria, non aveva mai pensato seriamente di lasciare il lavoro e di immergersi in una vita più creativa. Era solo una fantasia piacevole e ricorrente, un bel sogno a occhi aperti. Il figlio di Carlo Cle­menza non avrebbe mai rinunciato allo stipendio di fine mese per le incertezze di un lavoro in proprio, a meno di vincere una montagna di soldi a Las Vegas.

  Era invidioso del colpo di fortuna di Michael Savatino. Naturalmente, erano rimasti buoni amici ed era davvero fe­lice per Michael. Contento. Sul serio. Ma anche invidioso. Dopotutto era un essere umano e ogni tanto nella sua mente si riaccendeva quell'interrogativo, simile a un'inse­gna al neon: Non poteva capitare a me?

  Frank premette il pedale del freno e suonò il clacson alla Corvet che gli aveva tagliato la strada, strappando Tony dai suoi sogni. "Stronzo!"

  "Calmati, Frank."

  "A volte vorrei essere ancora in divisa, per appioppare qualche bella multa."

  "È l'ultima cosa che desideri al mondo."

  "Gli farei un bel culo."

  "E magari salta fuori che è fuori di testa per la droga o che non ha tutte le rotelle a posto. Quando lavori in mezzo al traffico per molto tempo, hai la tendenza a dimenticare che il mondo è pieno di pazzi. Ti abitui alla routine e di­venti meno attento. Magari lo fermi oppure ti avvicini con il blocchetto delle multe in mano e quello ti dà il benve­nuto con una pistola. Magari ti fa saltare le cervella. No. Sono contento di non avere più a che fare con il traffico. Perlomeno, quando lavori alla squadra Omicidi, sai che ge­nere di persone ti puoi trovare davanti. Sai bene che ci può essere qualcuno che ti aspetta con una pistola, un coltello o una spranga in mano. Quando lavori alla squadra Omicidi è molto meno probabile che ti facciano una bella sorpresina."

  Frank rifiutò di farsi trascinare in un'altra discussione. Continuò a tenere gli occhi fissi sulla strada, mugugnando e trincerandosi dietro il solito silenzio.

  Tony sospirò e si mise a osservare il paesaggio circo­stante con l'occhio dell'artista, pronto a cogliere un detta­glio inaspettato o mai notato prima di allora.

  Impressioni.

  Ogni scena, ogni paesaggio, ogni strada, ogni edificio, ogni stanza all'interno di una casa, ogni persona, ogni cosa suggerivano una particolare impressione. Se si riusciva a cogliere l'impressione dettata da una
scena era possibile spingersi oltre, fino alla struttura che stava alla base. Se si riusciva a fermare il meccanismo che dava forma all'armo­nia di fondo, era possibile comprendere il significato intrin­seco delle cose e quindi dipingerle in modo adeguato. Se ci si limitava ad afferrare i pennelli e ad avvicinarsi alla tela senza aver compiuto una tale analisi, il risultato poteva es­sere un quadro accettabile, ma non certo un'opera d'arte.

  Impressioni.

  Mentre Frank Howard svoltava sul Wilshire, dirigendosi verso il bar di Hollywood chiamato The Big Quake, Tony si mise alla ricerca di nuove impressioni legate alla città e alla notte. Arrivando da Santa Monica, vide dapprima la lunga fila di casette affacciate sul mare e i contorni indefi­niti delle palme alte e ben ordinate: suggerivano immagini di serenità, cortesia e discreta agiatezza. Entrando a Westwood, il paesaggio sembrava dominato da una forma retti­linea: ammassi di grattacieli e macchie oblunghe di luce provenienti dalle finestre che si aprivano sui lati più scuri degli edifici. Quelle forme precise e perfettamente rettan­golari erano la rappresentazione visiva del pensiero mo­derno e del potere e suggerivano una ricchezza ancora maggiore di quella che traspariva dalle case sul lungomare di Santa Monica. Proseguirono verso Beverly Hills, un an­golino isolato all'interno dell'enorme metropoli, un luogo in cui la polizia di Los Angeles poteva passare senza eserci­tare tuttavia alcuna autorità. A Beverly Hills tutto era mor­bido, lussureggiante e scintillante in un grazioso susseguirsi di ville enormi, parchi, giardini, negozi esclusivi e automo­bili costose concentrati in pochi isolati come non avveniva in alcun altro paese della terra. Dal Wilshire Boulevard al Santa Monica Boulevard fino a Doheny, si aveva l'impres­sione di vivere in un lusso sempre crescente.

  Svoltarono a nord, verso Doheny, si arrampicarono sulle colline ripide e si ritrovarono sul Sunset Boulevard, verso il cuore di Hollywood. In un paio di isolati, quella strada sembrava concentrare tutto ciò che l'aveva resa celebre. Sulla destra c'era Scandia, uno dei ristoranti più eleganti della città e uno dei migliori dell'intero paese. Discoteche scintillanti. Un night club specializzato in giochi di presti­gio. Un altro locale gestito da un ipnotizzatore. Luoghi di ritrovo. Club del rock and roll. Enormi cartelloni luminosi che pubblicizzavano i film in prima visione e gli attori più famosi del momento. Luci, luci e ancora luci. All'inizio, il boulevard sembrava confermare la tesi sostenuta dalle uni­versità e dal governo, secondo cui Los Angeles e i suoi sob­borghi costituivano l'area metropolitana più ricca del paese e forse del mondo intero. Ma poco più avanti, proseguendo in direzione est, la patina dorata svaniva. Persino Los An­geles soffriva di senescenza. L'immagine si faceva marginal­mente ma inconfondibilmente cancerosa. Nel corpo florido della città si sviluppavano qua e là escrescenze maligne. Bar da quattro soldi, un locale di striptease, una stazione di servizio ormai in rovina, istituti di bellezza dall'aria equi­voca, un negozio con libri per adulti e alcuni edifici che avevano urgente bisogno di essere ristrutturati. La malattia non era allo stadio avanzato, come in molti altri quartieri, ma giorno dopo giorno rosicchiava parte del tessuto vitale. Frank e Tony non dovettero comunque giungere sino al fo­colaio dell'orribile tumore, dal momento che The Big Quake si trovava al limite della zona maligna. Il locale ap­parve improvvisamente sul lato destro della strada in un baluginare di luci rosse e azzurre.

  All'interno ricordava molto il Paradise, anche se l'arre­damento puntava decisamente più sulle luci colorate, sul­l'acciaio e sugli specchi rispetto al bar di Santa Monica. I clienti avevano un'aria più elegante, più au courant, e, in generale, si presentavano decisamente meglio della folla che gremiva il Paradise. Ma Tony ebbe la stessa impres­sione avvertita a Santa Monica. Immagini di desiderio, bra­mosia e solitudine. Immagini di disperazione.

  Il barista non era in grado di aiutarli e l'unica cliente che fornì qualche informazione utile fu una brunetta alta con gli occhi viola. Era sicura che avrebbero trovato Bobby alla Janus, una discoteca di Westwood. L'aveva incrociato nelle ultime due sere.

  Nel posteggio investito dai fasci di luce intermittente rossa e azzurra, Frank borbottò: "Da cosa nasce cosa."

  "Come al solito."

  "Si sta facendo tardi."

  "Già."

  "Vuoi andare subito al Janus o preferisci rimandare tutto a domani?"

  "È meglio adesso," rispose Tony.

  "Bene."

  Fecero dietrofront e proseguirono lungo il Sunset, uscendo dalla zona che mostrava segni di tumore urbano, per immettersi sul luccicante Strip e poi di nuovo in mezzo alla ricchezza e ai giardini ben curati, oltre il Beverly Hills Hotel, oltre le ville e le interminabili file di palme gigantesche.

  Come faceva spesso quando temeva che Tony intavo­lasse una conversazione, Frank sintonizzò la radio sulla fre­quenza della polizia e rimase in ascolto delle comunica­zioni diramate alle autopattuglie che controllavano la zona di Westwood. Su quella banda di frequenza non c'era niente di interessante. Una lite in famiglia. Una zuffa al­l'angolo del Westwood Boulevard e Wilshire. Un indivi­duo sospetto all'interno di una macchina posteggiata nella zona residenziale di Hilgarde aveva attirato l'attenzione ed era quindi meglio controllare.

  Nella maggior parte degli altri sedici distretti di polizia della città, le notti non erano altrettanto tranquille, ma Westwood era una zona decisamente privilegiata. Nei di­stretti Settantasette, Newton e Sudovest, che includevano i quartieri della comunità di colore a sud dell'autostrada di Santa Monica, i poliziotti in servizio non avevano certo il tempo di annoiarsi: nelle loro zone la notte era sempre mo­vimentata. Nella parte orientale della città, nei quartieri abitati da messicani e americani, le bande continuavano a scorrazzare terrorizzando la maggior parte dei cittadini fe­deli alla legge. Nel corso della notte si verifìcavano sempre incidenti fra bande rivali nella zona orientale, scontri vio­lenti fra punk e sparatorie fra i macho che ogni notte cerca­vano di dimostrare la propria virilità con quelle stupide, as­surde e sanguinose cerimonie senza tempo che si ripete­vano da generazioni, secondo un rituale ormai consolidato. Nella zona nordovest, sull'altro lato delle colline, i ragazzi provenienti dalle campagne bevevano decisamente troppo whisky, fumavano troppa marijuana e sniffavano troppa co­caina: era quindi logico che andassero a cozzare in mac­china e in motocicletta, l'uno contro l'altro, a velocità inau­dita e con sorprendente regolarità.

  Mentre Frank passava davanti all'ingresso di Bel Air e si arrampicava sulla collina che conduceva al campus della ucla, la scena di Westwood si animò improvvisamente. La radio segnalò la chiamata di una donna in difficoltà. Le in­formazioni erano sommarie. Apparentemente, si trattava di un tentativo di stupro e di aggressione a mano armata. Non si sapeva se l'assalitore era ancora nei paraggi. Erano stati sparati colpi di arma da fuoco, ma non era stato possi­bile accertare se la pistola apparteneva alla vittima o all'as­salitore. Non si sapeva neppure se c'erano stati dei feriti.

  "Forse dovremmo intervenire," suggerì Tony.

  "Quell'indirizzo è a un paio di isolati da qui," proseguì Frank.

  "Potremmo arrivarci nel giro di un minuto."

  "Probabilmente molto prima di una pattuglia."

  "Vuoi andarci?"

  "Certo."

  "Li chiamerò per informarli."

  Tony sollevò il microfono mentre Frank svoltava rapida­mente a sinistra al primo incrocio. Al secondo isolato svol­tarono nuovamente a sinistra e Frank premette il piede sul­l'acceleratore, per quanto gli fu possibile, lungo una strada stretta e fiancheggiata dagli alberi.

  Il cuore di Tony si mise a battere all'impazzata. Avver­tiva l'eccitazione di un tempo e una paura gelida gli attana­gliava lo stomaco.

  Gli venne in mente Parker Hitchison, un collega particolarmente funereo, cupo e pessimista che aveva dovuto sopportare per un po' durante il secondo anno passato alla polizia, molto tempo prima che diventasse investigatore. Ogni volta che rispondevano a una chiamata, ogni dannatissima volta, sia che si trattasse di un'emergenza con Co­dice Tre, o di un gatto spaventato finito in cima a un albero, Parker Hitchison sospirava con aria desolata e bofon­chiav
a: "Questa volta è fatta." Era fastidioso e decisamente di cattivo auspicio e ogni volta, durante ogni turno, giorno dopo giorno, con lo stesso pessimismo sincero e snervante, ripeteva: "Questa volta è fatta." A Tony pareva di impaz­zire.

  La voce funerea di Hitchison e quelle quattro parole gli risuonavano ancora nella mente in momenti come quello.

  Questa volta è fatta.

  Frank svoltò nuovamente, andando quasi a sbattere con­tro una BMW nera posteggiata troppo vicino all'incrocio. Le gomme fischiarono, la macchina slittò e Frank disse: "La casa dovrebbe essere da queste parti."

  Tony cercò di mettere a fuoco gli edifici immersi nell'o­scurità, solo parzialmente illuminati dai lampioni. "Credo sia quella," esclamò.

  Era una grande casa in stile neoispanico, con un vasto giardino e leggermente rientrata rispetto alla strada. Tetto in tegole rosse. Stucco color panna. Finestre con le infer­riate. Due grandi lampioni in ferro battuto ai lati della porta d'ingresso.

  Frank posteggiò sul vialetto circolare.

  Scesero dalla berlina.

  Tony infilò una mano sotto la giacca ed estrasse dalla fondina la pistola di ordinanza.

  Quando Hilary ebbe finito di piangere seduta alla scrivania dello studio, decise di andare al piano di sopra e di rendersi presentabile prima dell'arrivo della polizia. Aveva i capelli completamente scarmigliati, il vestito strappato e le mutan­dine a brandelli che le penzolavano fra le gambe in modo ridicolo. Non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato la polizia ad arrivare dal momento della diffusione del mes­saggio radio, ma sicuramente si sarebbero presentati di lì a poco. Era diventata un personaggio famoso dopo aver scritto due film di successo e aver ricevuto una nomination all'Oscar per Pete, l'ambiguo due anni prima. Aveva sempre cercato di difendere la sua privacy evitando la stampa per quanto possibile, ma sapeva che in un caso del genere avrebbe dovuto necessariamente rilasciare una dichiara­zione e rispondere ad alcune domande su quanto era acca­duto quella notte. Era il genere di pubblicità che non le piaceva. Era imbarazzante. Era sempre umiliante ammet­tere di essere la vittima di un caso del genere. Anche se in teoria avrebbe dovuto accattivarsi le simpatie e la compren­sione della gente, in realtà avrebbe fatto la figura della sciocca, della fanciulla sola alla mercé del primo venuto.

 

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