Sussurri

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Sussurri Page 15

by Dean Koontz


  All'esterno, gli occhi rimasero feriti dalla luce del sole. Era una delle giornate più luminose che avesse mai visto e il sole implacabile alto nel cielo lo colpiva senza pietà. Era come se gli si riflettesse negli occhi, lanciando minuscole saette sulla superficie del cervello.

  Piegandosi sulle ferite e imprecando sottovoce, si tra­scinò lungo il marciapiede fino a quando raggiunse il fur­goncino grigio fumo. Si sistemò al posto di guida e chiuse la portiera che sembrava pesare una tonnellata.

  Guidò con una mano lungo Wilshire Boulevard, svoltò a destra, proseguì verso Sepulveda e girò a sinistra alla ri­cerca di una cabina del telefono al riparo da sguardi indi­screti. Ogni buca nella strada gli provocava una fitta al plesso solare. Le automobili attorno a lui sembravano al­lungarsi, flettersi e gonfiarsi come se fossero state costruite con un metallo magico: dovette concentrarsi per ridare loro una forma più familiare.

  Per quanto stringesse la ferita, il sangue continuava a sgorgare. La sensazione di caldo nello stomaco si fece più intensa. Il pizzicore ritmico si trasformò in una stretta pun­gente. Ma non avvertiva ancora il dolore lancinante che sa­rebbe sopraggiunto inevitabilmente.

  Guidò per un tratto interminabile prima di individuare una cabina del telefono adatta alle sue esigenze. Era situata in un angolo del posteggio di un supermercato, a circa cento metri dal negozio.

  Posteggiò il furgone in un angolo per evitare gli sguardi dei clienti del negozio e degli automobilisti di passaggio. Non era una vera e propria cabina, ma una semplice semi­cupola di plastica che avrebbe dovuto garantire un ottimo isolamento acustico ma che in realtà non era in grado di attutire i rumori in sottofondo; a ogni modo sembrava in fun­zione ed era sufficientemente riparata. Dietro, si ergeva un alto muro di cemento che separava il posteggio dal terreno di una casa. A destra, alcuni arbusti e due piccole palme proteggevano il telefono dalla strada laterale che condu­ceva sulla Sepulveda. Nessuno avrebbe potuto accorgersi che era ferito ed era proprio ciò che desiderava.

  Scivolò sul sedile accanto a quello del guidatore e scese dal furgoncino. Quando vide il sangue appiccicoso che co­lava sulle dita strette attorno alla ferita, si sentì quasi sve­nire e dovette distogliere lo sguardo. Doveva fare solo tre passi per raggiungere il telefono, ma sembrava lontano mille miglia.

  Non riuscì a ricordare il numero della sua carta di cre­dito telefonica, che gli era sempre stato familiare come la data di nascita, così addebitò la chiamata a Napa County.

  L'operatore fece squillare il telefono sei volte.

  "Pronto?"

  "Ho una chiamata a carico del destinatario da un certo Bruno Frye. La accetta?"

  "Proceda pure."

  Si udì un leggero suono metallico.

  "Sono gravemente ferito. Sto... sto per morire," mor­morò Frye all'uomo a Napa County.

  "Oh, Cristo. No. No!"

  "Dovrò... chiamare un'ambulanza," proseguì Frye, "e al­lora... tutti conosceranno la verità."

  Parlarono per un minuto, entrambi spaventati e confusi.

  Improvvisamente, Frye sentì che qualcosa si stava la­sciando andare dentro di lui. Qualcosa simile a una molla. Un sacchetto di acqua che si rovesciava. Urlò dal dolore.

  Il suo interlocutore a Napa County gridò in segno di so­lidarietà, come se avvertisse lo stesso tormento.

  "Devo... chiamare l'ambulanza," mormorò Frye.

  Riappese.

  Il sangue era colato lungo i pantaloni e le scarpe e stava sgocciolando sul marciapiede. Frye sollevò il ricevitore e lo appoggiò sulla mensola di metallo. Prese una moneta con le dita intorpidite ma gli cadde dalla mano e lui rimase a osservarla con aria stupida mentre rotolava sull'asfalto. Cercò un'altra monetina. Si sforzò di stringerla per quanto gli fu possibile. La sollevò come se fosse stata un pesante disco di piombo delle dimensioni di un pneumatico e final­mente riuscì a inserirla nella fessura. Fece per comporre lo zero. Ma non aveva abbastanza forza neppure per com­piere quel gesto banale. Le braccia muscolose, le ampie spalle, il torace possente, la schiena robusta, il ventre sodo e le cosce poderose sembravano ormai scomparsi.

  Non riusciva a telefonare e non riusciva nemmeno a stare in piedi. Cadde a terra, rotolò su un fianco e si ritrovò a faccia in giù sull'asfalto.

  Non riusciva a muoversi.

  Non vedeva più nulla. Era cieco.

  Era circondato dall'oscurità più completa.

  Aveva paura.

  Cercò di convincersi che sarebbe ritornato dal mondo dei morti come aveva fatto Katherine. Ritornerò e la pren­derò, pensò. Ritornerò. Ma in realtà non ne era molto con­vinto.

  Mentre si sentiva sempre più leggero, ebbe un attimo di incredibile lucidità e si chiese se non si fosse sbagliato a proposito di Katherine che ritornava dal mondo dei morti. Era stata solo la sua immaginazione? Aveva forse ucciso solo le donne che le somigliavano? Donne innocenti? Era un pazzo?

  Una nuova esplosione di dolore cancellò quei pensieri, costringendolo a riflettere sull'oscurità soffocante nella quale giaceva.

  Sentì qualcosa che si muoveva su di lui.

  Qualcosa che strisciava sopra di lui.

  Qualcosa che strisciava sulle gambe e sulle braccia.

  Qualcosa che strisciava sulla faccia.

  Cercò di gridare. Non ci riuscì.

  Udì i sussurri.

  No!

  Le viscere si lasciarono andare.

  I sussurri si trasformarono in un rabbioso coro sibilante e lo trascinarono via come un grande fiume oscuro.

  Giovedì mattina, Tony Clemenza e Frank Howard localiz­zarono Jilly Jenkins, una vecchia amica di Bobby "Angelo" Valdez. Jilly aveva incontrato il violentatore e assassino con il viso infantile in luglio, ma da allora non ne aveva più sentito parlare. A quell'epoca, Bobby aveva appena lasciato un lavoro alla Lavanderia Vee Vee Gee sull'Olympic Bou­levard. Jilly non sapeva nient'altro.

  Vee Vee Gee era un grande edificio a un solo piano che risaliva all'inizio degli anni Cinquanta, dove un'intera squadra di architetti un po' pazzoidi aveva cercato di af­fiancare un surrogato di gusto spagnolo a un design pura­mente funzionale. Tony non era mai riuscito a capire come un architetto, per quanto dotato di scarsa sensibilità, po­tesse cogliere la bellezza in un incrocio così grottesco. Il tetto con le tegole rosso arancio era costellato da decine di comignoli di mattoni e tubi di sfiato in metallo: da almeno metà delle aperture si levavano nuvole di fumo. Gli stipiti delle finestre erano costruiti in legno scuro e massiccio, come se fosse stata la casa di qualche ricco e potente terrateniente, ma le orribili vetrate da quattro soldi erano co­perte di ragnatele. Al posto della veranda c'erano alcune stazioni di carico. I muri erano perpendicolari, gli angoli aguzzi e l'intero edificio ricordava una scatola, pratica­mente l'opposto delle arcate leggiadre e degli spigoli arrotondati delle costruzioni in autentico stile spagnolo. Quel luogo ricordava una vecchia puttana che indossa abiti di classe, nel disperato tentativo di farsi passare per una si­gnora.

  "Perché l'hanno fatto?" chiese Tony scendendo dalla macchina della polizia e chiudendo la portiera.

  "Fatto che cosa?" replicò Frank.

  "Perché hanno costruito tutti questi edifici disgustosi? A che cosa servono?"

  Frank strizzò gli occhi. "Che cosa c'è di tanto disgu­stoso?"

  "Non ti dà fastidio?"

  "E una lavanderia. Non abbiamo forse bisogno di lavan­derie?"

  "Mai avuto un architetto in famiglia?"

  "Un architetto? No," rispose Frank. "Perché me lo chiedi?"

  "Semplice curiosità."

  "Sai una cosa? A volte non si capisce un accidente quando parli."

  "Me l'hanno già detto," replicò Tony.

  Quando entrarono nell'ufficio e chiesero di parlare con il proprietario, Vincent Garamalkis, ricevettero un'acco­glienza a dir poco glaciale. La segretaria era decisamente ostile. La Lavanderia Vee Vee Gee aveva pagato quattro multe nel corso degli ultimi quattro anni per aver assunto stranieri privi di regolari documenti. La segretaria era con­vinta che Tony e Frank fossero agenti del Servizio
Immi­grazione. Divenne leggermente più cordiale quando vide il distintivo della polizia di Los Angeles, ma si decise a collaborare solo quando Tony la convinse che non avevano il benché minimo interesse nella nazionalità delle persone che lavoravano alla Vee Vee Gee. Alla fine, seppure riluttante, ammise che Mr Garamalkis era nei dintorni. Stava per accompagnarli da lui quando il telefono squillò e do­vette fornire poche, rapide istruzioni, invitandoli a rintrac­ciarlo da soli.

  L'enorme stanzone della lavanderia sapeva di sapone, candeggina e vapore. Era un posto umido, caldo e rumo­roso. Le enormi lavatrici industriali sbattevano, ronzavano e si agitavano mentre i giganteschi essiccatori giravano e borbottavano senza sosta. Il suono secco e il sibilo delle sti­ratrici automatiche innervosirono Tony. La maggior parte degli operai che scaricavano i cestelli, quelli che riempi­vano le macchine e le donne che contrassegnavano la bian­cheria disposta su lunghi tavoli parlavano in spagnolo e ad alta voce. Mentre Tony e Frank attraversavano il locale da un capo all'altro, il rumore diminuì poiché gli operai smi­sero di parlare e li osservarono con aria sospetta.

  Vincent Garamalkis era seduto in fondo alla stanza. La scrivania sgangherata era appoggiata su una piattaforma di circa un metro, in modo che il padrone potesse sorvegliare i propri operai. Garamalkis si alzò e si avvicinò al bordo della piattaforma quando li vide arrivare. Era un uomo basso e tarchiato, calvo, con i lineamenti duri e gli occhi color nocciola incredibilmente gentili che contrastavano con il resto del viso. Si bloccò con le mani sui fianchi, come se volesse sfidarli a raggiungerlo.

  "Polizia," esclamò Frank, mostrando il distintivo.

  "Sì," bofonchiò Garamalkis.

  "Non siamo dell'Immigrazione," lo rassicurò Tony.

  "Perché dovrei aver paura dell'Immigrazione?" chiese Garamalkis in tono di difesa.

  "La sua segretaria ne aveva," proseguì Frank.

  Garamalkis li guardò di traverso. "Io sono pulito. As­sumo soltanto cittadini degli Stati Uniti o stranieri con re­golare permesso."

  "Oh, certo," esclamò Frank in tono sarcastico. "Com'è vero che gli orsi non cagano più nei boschi."

  "Senta," intervenne Tony, "a noi non interessa proprio da dove vengono i suoi operai."

  "E allora che cosa volete?"

  "Vorremmo rivolgerle qualche domanda."

  "A proposito di che cosa?"

  "Di quest'uomo," spiegò Frank allungando le tre foto se­gnaletiche di Bobby Valdez.

  Garamalkis le osservò per un attimo. "Che cosa volete sapere?"

  "Lo conosce?"

  "Perché?"

  "Vorremmo rintracciarlo."

  "Per che cosa?"

  "È scappato."

  "Che cos'ha fatto?"

  "Senta," sbottò Frank, stanco del tono arrogante del­l'uomo, "posso renderle tutto molto semplice o molto com­plicato. Può rispondere qui oppure in città. E se vuole gio­care a fare il duro, possiamo chiamare il Servizio Immigra­zione. Non ce ne frega veramente un cazzo se lei assume un mucchio di messicani, ma nel caso in cui non volesse collaborare con noi, faremo in modo che passino tutto al setaccio. Mi sono spiegato? È tutto chiaro?"

  Intervenne Tony. "Mr Garamalkis, mio padre era un emigrante italiano. È giunto in questo paese con tutti i do­cumenti in regola e alla fine è diventato cittadino ameri­cano. Un giorno ha avuto qualche problema con gli agenti del Servizio Immigrazione. Una stupidaggine a livello bu­rocratico. Ma lo hanno perseguitato per più di cinque setti­mane. Lo chiamavano continuamente al lavoro e venivano a trovarci a casa alle ore più strane. Hanno chiesto una va­langa di carte e documenti, ma quando mio padre li ha pro­curati, hanno affermato che erano falsi. Ci sono state anche delle minacce. Molte minacce. Gli hanno anche dato il fo­glio di via prima che tutto fosse chiarito. Ha dovuto rivol­gersi a un avvocato anche se non poteva permetterselo e mia madre è quasi impazzita. Quindi si renderà conto che quelli del Servizio Immigrazione non mi sono simpatici. Non muoverei un dito per metterli contro di lei. Non muo­verei neppure un fottutissimo dito, Mr Garamalkis. "

  L'uomo osservò Tony per un attimo, poi scosse la testa e sospirò: "Non vi fanno incazzare? Voglio dire, un paio di anni fa, quando gli studenti iraniani hanno iniziato a fare casino qui a Los Angeles, rovesciando le automobili e cer­cando di incendiare le case, forse quei dannati agenti del Servizio Immigrazione hanno pensato almeno per un at­timo di cacciarli a pedate nel culo dal nostro paese? Dia­mine, no! Gli agenti erano troppo occupati a rompere le scatole ai miei operai. Eppure le persone che assumo non distruggono le case degli altri. Non rovesciano le macchine e non lanciano pietre ai poliziotti. Sono bravi e onesti lavo­ratori. Vogliono solo guadagnarsi da vivere, ed è qualcosa che non possono fare al di là del confine. Sapete perché l'Immigrazione passa il suo tempo a dar loro la caccia? Ora ve lo spiego. Credo di averlo capito. E solo perché i messi­cani non si ribellano. Non sono fanatici politici o religiosi come la maggior parte degli iraniani. Non sono pazzi e nemmeno pericolosi. E per l'Immigrazione è dannata­mente più facile e più sicuro prendersela con questa gente che in genere se ne va senza troppe storie. Ah, questo dan­nato sistema fa veramente schifo."

  "Capisco benissimo quello che vuole dire," esclamò Tony. "Per cui se fosse così gentile da dare un'occhiata a queste foto segnaletiche..."

  Ma Garamalkis non era pronto per rispondere alle loro domande. Aveva ancora un paio di cose da dire. Inter­ruppe Tony e proseguì: "Quattro anni fa, sono stato mul­tato per la prima volta. Le solite cose. Alcuni degli operai messicani non avevano il permesso di soggiorno, altri lavo­ravano con i documenti scaduti. Dopo essere finito in tri­bunale, decisi di rigare diritto. Decisi di assumere solo mes­sicani con i documenti in regola. E se non ne avessi trovati a sufficienza, mi sarei rivolto a cittadini americani. Sapete una cosa? Sono stato uno stupido. Sono stato veramente uno stupido a pensare di poter rimanere nel mondo degli affari in quel modo. Vedete, alla maggior parte dei lavora­tori posso offrire soltanto un salario minimo. E anche in questo modo, faccio fatica a campare. Il problema è che gli americani non sono disposti a lavorare per uno stipendio così basso. Un cittadino riceve più soldi dalla previdenza sociale se decide di non lavorare rispetto a quello che po­trebbe guadagnare con uno stipendio minimo. E i soldi della previdenza sociale sono esentasse! Così sono pratica­mente impazzito per due mesi, cercando di trovare gente disposta a lavorare e continuando a mandare avanti la la­vanderia. Mi è quasi venuto un infarto. Vedete, i miei principali clienti sono alberghi, motel, ristoranti, parruc­chieri... Hanno tutti bisogno di riavere la loro roba velo­cemente e secondo un calendario prestabilito. Se non avessi ricominciato ad assumere i messicani, avrei dovuto chiudere."

  Frank ne aveva abbastanza. Stava per sbottare in qual­cosa di poco gentile quando Tony gli appoggiò una mano sulla spalla e gliela strinse delicatamente, invitandolo a portare pazienza.

  "Comunque," proseguì Garamalkis, "sono d'accordo che non sia giusto offrire le medicine gratuite e roba del genere agli immigrati illegali. Ma non capisco perché sia necessa­rio cacciarli quando in fin dei conti non fanno che accet­tare lavori che nessun altro vuole svolgere. È ridicolo. È uno schifo." Sospirò nuovamente, lanciò un'occhiata alle foto di Bobby Valdez che aveva ancora in mano e mor­morò: "Sì, conosco questo tipo."

  "Ci hanno detto che lavorava qui."

  "Esatto."

  "Quando?"

  "All'inizio dell'estate, credo. In maggio. Forse anche in giugno."

  "Dopo che se l'è svignata," spiegò Frank a Tony.

  "Non ne so niente," si difese Garamalkis.

  "Che nome le ha dato?" chiese Tony.

  "Juan."

  "E il cognome?"

  "Non me lo ricordo. Si è fermato solo sei settimane. Ma dovrebbe essere segnato in archivio."

  Garamalkis scese dalla piattaforma e li guidò attraverso l'enorme stanza piena di vapore e di odore di disinfettante, mentre gli operai li osservavano con aria sospetta. Arrivò in ufficio e chiese alla segretaria di controllare l'archivio. La donna trovò il fascicolo giusto in un minuto. Bobby aveva usat
o il nome Juan Mazquezza. E aveva fornito un indi­rizzo su La Brea Avenue.

  "Viveva davvero in quell'appartamento?" chiese Frank.

  Garamalkis si strinse nelle spalle. "Non è il tipo di lavoro che richiede un controllo accurato delle informazioni fornite da chi viene assunto."

  "Le ha spiegato perché se ne andava?"

  "No."

  "Le ha forse detto che intenzioni aveva?"

  "Non sono sua madre."

  "Voglio dire, le ha parlato di un altro lavoro?"

  "No. Se n'è andato e basta."

  "Se non riusciamo a trovare Mazquezza a questo indi­rizzo," proseguì Tony, "vorremmo ritornare qui per parlare con i suoi operai. Forse c'è qualcuno che lo conosce. Ma­gari c'è qualcuno che gli è ancora amico."

  "Potete tornare, se volete," rispose Garamalkis. "Ma avrete qualche problema a comunicare."

  "E perché?"

  Con una smorfia, bofonchiò: "Molti di loro non parlano inglese."

  Tony sorrise e sillabò: "Yo leo, escribo y hablo español."

  "Ah," esclamò Garamalkis, compiaciuto.

  La segretaria consegnò loro una fotocopia del libro paga e Tony ringraziò Garamalkis per la collaborazione.

  In macchina, mentre si dirigeva verso La Brea Avenue, Frank disse: "È meglio che lasci fare a te."

  Tony borbottò: "Ma che cosa dici?"

  "Sei riuscito a ottenere molte più informazioni di quante ne avrei sapute strappare io."

  Tony fu sorpreso da quel complimento. Per la prima volta da quando lavoravano insieme, Frank aveva ammesso che la tecnica del suo compagno poteva essere efficace.

  "Mi piacerebbe avere un pizzico del tuo stile," proseguì

  Frank. "Non sempre, sia chiaro. Sono ancora convinto che il mio sistema sia migliore nella maggior parte dei casi, ma ogni tanto capita di imbatterci in tipi che non parlerebbero con me neppure se li interrogassi per un milione di anni, ma che sputano subito il rospo con te nel giro di un mi­nuto. Sì, a volte mi piacerebbe essere un po' più affabile."

 

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