Sussurri

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Sussurri Page 54

by Dean Koontz


  Pregustando il sapore del gelato e sperando che un buon pasto gli fornisse le energie necessarie per dare la caccia a Hilary-Katherine, uscì dalla mansarda e attraversò la casa reggendo in mano una candela. Giunto all'esterno, spense la fiamma e si mise la candela in tasca. Scese lungo la scala semidistrutta e si incamminò a lunghi passi tra i vigneti sprofondati nelle tenebre.

  Dieci minuti più tardi, in casa sua, accese di nuovo la candela perché temeva che le luci potessero attirare l'atten­zione di visitatori indesiderati. Afferrò un cucchiaio dal cassetto sotto il lavandino, prese una confezione di gelato al cioccolato da un chilo e si sedette al tavolo per un quarto d'ora, affondando il cucchiaio direttamente nel car­tone e sorridendo felice fino a quando non riuscì più a in­goiare un solo boccone.

  Lasciò cadere il cucchiaio nella confezione semivuota, ri­mise il gelato nel freezer e si rese conto che avrebbe do­vuto preparare un po' di cibo da portare nella casa sulla collina. Forse avrebbe impiegato qualche giorno a rintrac­ciare e uccidere Hilary-Katherine e non voleva essere ob­bligato a intrufolarsi di nascosto in casa alla ricerca di qual­cosa da mangiare. Prima o poi, quella puttana avrebbe chiesto alle sue spie di tenere sotto controllo quel posto e quindi avrebbero finito con il catturarlo. Ma sicuramente non sarebbe mai andata a cercarlo nella casa sulla collina, non l'avrebbe fatto per tutto l'oro del mondo: era lì quindi che doveva tenere le provviste di cibo.

  Andò nella camera da letto e prese un'enorme valigia dall'armadio, la portò in cucina e la riempì con scatolette di pesche, pere e arance, barattoli di burro d'arachidi e olive, due vasetti di marmellata avvolti in tovaglioli di carta e confezioni di minuscoli wurstel. Quando ebbe finito, la valigia risultò incredibilmente pesante, ma lui era sufficien­temente forte per riuscire a trasportarla.

  Non faceva la doccia da parecchie ore, da quando si era fermato a casa di Sally, e si sentiva sudicio. Odiava lo sporco, perché gli faceva venire in mente i sussurri e quelle orribili creature striscianti che popolavano la fossa oscura nella terra. Decise di correre il rischio di lavarsi rapidamente prima di riportare il cibo nella casa sulla collina, an­che se significava spogliarsi e restare privo di difese per qualche minuto. Ma mentre attraversava il soggiorno per raggiungere il bagno principale, udì il rumore di macchine che si avvicinavano. I motori risuonavano incredibilmente forte nel silenzio assoluto della campagna.

  Bruno corse alla finestra e socchiuse la tenda per poter osservare all'esterno.

  Due auto. Quattro fari. Puntavano in direzione dello spiazzo.

  Katherine.

  Quella puttana!

  La puttana e i suoi amici. I suoi amici morti.

  Terrorizzato, corse in cucina, afferrò la valigia, spense la candela e se la mise in tasca. Uscì dalla porta sul retro e si precipitò verso il vigneto immerso nell'oscurità, proprio mentre le auto si fermavano davanti alla casa.

  Bruno procedette carponi, trascinando la valigia fra le vigne, con le orecchie tese, pronte a cogliere il minimo ru­more. Fece il giro della casa per riuscire a vedere le mac­chine. Si nascose dietro la valigia appoggiata a terra, ran­nicchiandosi sulla terra umida, fra le ombre della notte. Osservò gli occupanti della macchina che scendevano e il cuore prese a battergli furiosamente quando li riconobbe.

  Lo sceriffo Laurenski e un suo aiutante. Così anche i po­liziotti erano morti viventi! Non l'aveva mai sospettato.

  Joshua Rhinehart. Anche il vecchio avvocato era un co­spiratore! Era uno degli amici infernali di Katherine.

  E poi c'era lei! Quella puttana. La puttana nel suo nuovo corpo. E anche quell'uomo di Los Angeles.

  Entrarono tutti in casa.

  Accesero le luci una dopo l'altra.

  Bruno cercò di ricordare se aveva lasciato qualcosa fuori posto. Forse la candela aveva sgocciolato ma la cera doveva già essersi indurita. Non avrebbero potuto capire da quanto tempo era stata accesa. Aveva lasciato il cucchiaio nella confezione di gelato, ma avrebbe potuto farlo anche molti giorni prima. Grazie al cielo, non aveva fatto la doc­cia! L'acqua sul pavimento e l'asciugamano bagnato l'a­vrebbero tradito; se avessero trovato un asciugamano usato di recente, avrebbero capito immediatamente che era tor­nato a St. Helena e avrebbero intensificato le ricerche.

  Si alzò in piedi, sollevò la valigia e si allontanò precipito­samente. Proseguì verso la cantina e poi svoltò in direzione della collina. Non sarebbero mai andati a cercarlo nella casa sulla collina. Nemmeno per sogno. In quella casa sa­rebbe stato al sicuro perché loro pensavano che avesse troppa paura per ritornarci.

  Se si fosse nascosto nell'attico, avrebbe avuto il tempo per pensare e organizzarsi. Non doveva agire in fretta. Ulti­mamente era un po' confuso, soprattutto dopo la morte dell'altra metà di se stesso, e non avrebbe osato affrontare quella puttana fino a quando non avesse esaminato a fondo la situazione.

  Ormai sapeva come trovarla. Attraverso Joshua Rhinehart.

  Avrebbe potuto metterle le mani addosso in qualsiasi momento.

  Ma prima aveva bisogno di tempo per mettere a punto un piano a prova di bomba. Non vedeva l'ora di tornare nell'attico per discuterne con se stesso.

  Laurenski, Tim Larsson, Joshua, Tony e Hilary si sparpa­gliarono nella casa. Setacciarono cassetti, armadi, mobili e credenze.

  Dapprima, non trovarono tracce che facessero pensare a una casa abitata da due uomini invece che da uno solo. Forse c'erano un po' troppi vestiti. E più provviste di quanto ci si sarebbe aspettati nella casa di un uomo solo. Ma non c'erano prove.

  Poi, rovistando nei cassetti della scrivania, Hilary si im­battè in un pacchetto di fatture e ricevute non ancora sal­date. Due di queste provenivano da due dentisti diversi: uno di Napa e l'altro di San Francisco.

  "Ma certo!" esclamò Tony chiamando tutti a raccolta. "I gemelli sarebbero dovuti andare da medici diversi e, so­prattutto, da dentisti diversi. Il Bruno Numero Due non sa­rebbe potuto andare nello studio di un dentista per farsi aggiustare un dente che quello stesso dentista aveva già ri­parato al Bruno Numero Uno solo una settimana prima."

  "Questo ci può aiutare," riconobbe Laurenski. "Persino due gemelli identici presentano delle differenze per quanto riguarda i denti. Le impronte dentali dimostreranno che esistono due Bruno Frye."

  Più tardi, controllando un armadio in camera da letto, Larsson fece una scoperta agghiacciante. In una scatola di scarpe trovò una dozzina di foto di giovani donne, sei pa­tenti di guida a loro nome e altre undici intestate ad altret­tante ragazze. In ogni foto spiccava l'immagine di una donna che aveva qualcosa in comune con tutte le altre: un bel viso, occhi scuri, capelli scuri e lineamenti molto simili.

  "Ventitré donne che assomigliano vagamente a Katherine," mormorò Joshua. "Mio Dio, ventitré."

  "Una galleria di morte," mormorò Hilary, tremando.

  "Perlomeno non sono tutte anonime," aggiunse Tony. "Sulle patenti sono riportati nomi e indirizzi."

  "Diffonderemo subito la notizia," disse Laurenski, man­dando Larsson a prendere contatto via radio con la Cen­trale. "Ma temo di sapere già quello che scopriremo."

  "Ventitré casi di omicidi mai risolti avvenuti negli ultimi cinque anni," bofonchiò Tony.

  "O ventitré sparizioni," aggiunse lo sceriffo.

  Rimasero altre due ore in quella casa, ma non trovarono niente di interessante, a parte le fotografie e le patenti. Hilary aveva i nervi scossi ed era visibilmente turbata all'idea che anche la sua patente sarebbe potuta finire in quella sca­tola. Ogni volta che apriva un cassetto o un'antina dell'ar­madio, si aspettava di trovare un cuore avvizzito trafitto da un picchetto o la testa putrefatta di una donna morta. Si sentì sollevata quando conclusero le ricerche.

  Nella fresca aria della sera, Laurenski chiese: "Domani mattina verrete nell'ufficio del coroner?"

  "Non faccia conto su di me," esclamò Hilary.

  "No, grazie," ribattè Tony.

  Joshua incalzò: "Comunque non potremmo fare nulla."

  "A che ora ci vediamo alla casa sulla collina?" domandò Laurenski.

  Joshua rispose: "Tony, Hilary
e io ci andremo subito do­mani mattina, per aprire le finestre. Quella casa è rimasta chiusa per cinque anni. È meglio farle prendere un po' d'a­ria prima di iniziare a frugare in giro. Perché non ci rag­giunge appena ha finito con il coroner?"

  "D'accordo," disse Laurenski. "Ci vediamo domani. Forse la polizia di Los Angeles riuscirà a prendere quel ba­stardo nel corso della notte."

  "Speriamo," si augurò Hilary.

  Dalle Mayacamas si udì il fragore di un tuono.

  Bruno Frye trascorse gran parte della notte parlando con se stesso e organizzando meticolosamente la morte di Hilary-Katherine.

  La sua altra metà continuò a dormire accanto al tremolio delle candele. Sottili fili di fumo si levarono dai mozziconi. Le fiamme ballerine gettavano macabre ombre sulle pareti e si riflettevano negli occhi vuoti del cadavere.

  Joshua Rhinehart non riuscì a dormire. Continuò a rigirarsi nel letto, ingarbugliandosi sempre più nelle lenzuola. Alle tre del mattino si alzò, andò verso il bar e si versò un dop­pio bourbon, bevendolo tutto d'un fiato. Ma nemmeno così riuscì a calmarsi.

  Non aveva mai sentito la mancanza di Cora come in quella notte.

  Hilary si svegliò più volte per colpa degli incubi, ma la notte trascorse rapidamente. Il tempo parve volare a velo­cità supersonica. Aveva sempre l'impressione di correre verso un precipizio, ma non riusciva a fare nulla per fer­marsi.

  All'alba, quando Tony si svegliò, Hilary gli si avvicinò e gli sussurrò in un orecchio: "Facciamo l'amore."

  Per circa mezz'ora si persero l'uno nelle braccia dell'al­tra, con la passione e l'entusiasmo di sempre. Assaporarono sino in fondo quell'unione dolce e silenziosa.

  Poi lei mormorò: "Ti amo."

  "Anch'io ti amo."

  "Non importa quello che può succedere," proseguì lei. "Perlomeno siamo stati insieme per qualche giorno."

  "Non essere fatalista."

  "Be'... non si sa mai."

  "Abbiamo ancora molti anni davanti a noi. Moltissimi anni da trascorrere insieme. E nessuno potrà toglierceli."

  "Tu sei così ottimista. Avrei voluto conoscerti molto tempo fa."

  "Ormai il peggio è passato. Ora conosciamo la verità."

  "Ma non hanno ancora preso Frye."

  "Lo prenderanno presto," la rassicurò Tony. "E convinto che tu sia Katherine e quindi non si allontanerà troppo da Westwood. Terrà d'occhio casa tua per vedere se torni e prima o poi riusciranno a individuarlo e sarà tutto finito."

  "Stringimi."

  "Certo."

  "Mmmm. È carino."

  "Già."

  "Rimanere così abbracciati."

  "Sì."

  "Mi sento già meglio."

  "Andrà tutto bene."

  "Finché ci sarai tu."

  "Allora, per sempre."

  Il cielo era scuro, cupo e minaccioso. Le vette delle Mayacamas erano avvolte dalle nubi.

  Peter Laurenski era in piedi davanti alla tomba, le mani in tasca e le spalle strette per proteggersi dall'aria gelida.

  Usando una robusta zappa e poi una pala per togliere l'ultimo strato di terra, gli uomini del Napa County Memorial Park scavarono nel terreno soffice, distruggendo la fossa di Bruno Frye. Mentre lavoravano, continuavano a la­mentarsi con lo sceriffo perché non venivano pagati per al­zarsi all'alba, saltando persino la colazione, ma non ven­nero presi molto in considerazione: Laurenski li invitò sem­plicemente a scavare con più lena.

  Alle 7.45 Avril Tannerton e Gary Olmstead arrivarono con il carro funebre della Forever View. Si diressero verso Laurenski: Olmstead aveva un'aria triste mentre Tannerton sorrideva, respirando a pieni polmoni, come se stesse sem­plicemente facendo la sua passeggiata quotidiana.

  "Buongiorno, Peter."

  "Buongiorno, Avril. Gary."

  "Quanto ci vuole prima che la aprano?" domandò Tan­nerton.

  "Hanno detto un quarto d'ora."

  Alle 8.05, uno degli uomini si issò dalla fossa e chiese: "Siete pronti per tirarlo fuori?"

  "Vediamo di sbrigarci," sbottò Laurenski.

  Furono attaccate delle catene alla cassa, che fu estratta dal terreno con lo stesso procedimento utilizzato per calar­cela la domenica precedente. La bara color bronzo era rico­perta di terra attorno alle maniglie e nelle fessure, ma nel complesso era ancora ben tenuta.

  Alle 8.40, Tannerton e Olmstead caricarono la cassa sul carro.

  "Vi seguirò fino all'ufficio del coroner," disse lo sceriffo.

  Tannerton fece una smorfia. "Peter, ti assicuro che non abbiamo intenzione di scappare con i resti di Mr Frye."

  Alle 8.20, mentre la cassa veniva riesumata nel cimitero a poche miglia di distanza, Tony e Hilary sistemavano i piatti della colazione nel lavandino della cucina di Joshua Rhinehart.

  "Li laverò più tardi," disse Joshua. "Andiamo subito in cima alla collina e apriamo la casa. Deve esserci una puzza micidiale dopo tutti questi anni. Spero solo che la muffa e la ruggine non abbiano rovinato troppo la collezione di Katherine. Ho avvisato Bruno almeno un migliaio di volte, ma sembrava non gliene importasse nulla..." Joshua si bloccò e battè le palpebre. "Sto dicendo una stupidaggine, vero? Per forza non gliene fregava niente anche se marciva tutto. Quegli oggetti appartenevano a Katherine e non gliene fregava assolutamente niente della sua collezione."

  Si recarono alla Shade Tree Vineyards con la macchina di Joshua. La giornata era tetra e la luce grigiastra. Joshua posteggiò nel parcheggio riservato agli impiegati.

  Gilbert Ulman non era ancora arrivato. Era il meccanico che si occupava della manutenzione della funivia e di tutta l'attrezzatura e i macchinali della Shade Tree Vineyards.

  La chiave che metteva in funzione la funivia era appesa nel garage e il portiere di notte, un corpulento uomo di nome Iannucci, fu felice di andarla a prendere per Joshua.

  Con la chiave, in mano Joshua condusse Hilary e Tony fino al primo piano dell'enorme costruzione, attraverso gli uffici amministrativi, un laboratorio vinicolo e una larga passerella. Metà dell'edificio si apriva dal pianterreno fino al soffitto e in quell'enorme locale erano stati sistemati i gi­ganteschi serbatoi per la fermentazione. L'aria gelida circo­lava fra le cisterne alte tre piani e ovunque regnava l'odore del vino che fermentava. In fondo alla lunga passerella ol­trepassarono una pesante porta in legno di pino con i car­dini in ferro che si apriva su una stanza minuscola. Il tetto si estendeva per circa quattro metri oltre la parete man­cante per proteggere dalla pioggia il locale dei serbatoi. La cabina a quattro posti, completamente chiusa dai vetri, era appoggiata sotto il tetto sospeso, all'estremità opposta del locale.

  Nel laboratorio di patologia regnava un vago e sgradevole odore di sostanze chimiche che avvolgeva lo stesso coroner, il dottor Amos Garnet, intento a succhiare una cara­mella alla menta.

  C'erano cinque persone nel locale: Laurenski, Larsson, Garnet, Tannerton e Olmstead. Nessuno, a eccezione di Tannerton, perennemente di buonumore, sembrava felice di trovarsi lì.

  "Apritela," ordinò Laurenski. "Ho un appuntamento con Joshua Rhinehart."

  Tannerton e Olmstead tolsero i ganci dalla cassa. Gli ul­timi pezzi di terriccio caddero sul telo di plastica che Gar­net aveva sistemato sul pavimento. Spostarono il coperchio e lo alzarono.

  Il corpo era scomparso.

  La cassa rivestita di seta e di velluto conteneva solo i tre sacchi di calcina di venticinque chili ciascuno rubati una settimana prima dalla casa di Avril Tannerton.

  Hilary e Tony si sedettero nella funivia e Joshua prese po­sto di fronte a loro. Le ginocchia dell'avvocato sfioravano quelle di Tony.

  Hilary strinse la mano di Tony mentre la cabina si muo­veva molto lentamente lungo il cavo, verso la sommità della parete rocciosa. Non aveva paura dell'altezza, ma quel veicolo aveva un aspetto così instabile che non poté fare a meno di digrignare i denti.

  Joshua notò la tensione sul suo viso e sorrise. "Non si preoccupi. Questo aggeggio è piccolo ma resistente. E Gilbert effettua una perfetta manutenzione."

  Il vagone iniziò ad arrampicarsi gradualmente, oscil­lando
per il vento gelido del mattino.

  La veduta della vallata era sempre più spettacolare. Hi­lary cercò di concentrarsi sul paesaggio e non sugli scric­chiolii prodotti dalla funivia.

  Finalmente la cabina raggiunse la fine del cavo. Si bloccò e Joshua aprì la portiera.

  Mentre uscivano nella stazione superiore, un lampo biancastro squarciò il cielo e un violento tuono rimbombò nell'aria cupa. Cominciò a piovere. Erano gocce sottili e gelate.

  Joshua, Hilary e Tony corsero a ripararsi. Si precipita­rono verso i gradini e attraversarono il portico fino all'in­gresso.

  "E diceva che qui non c'è il riscaldamento, vero?" disse Hilary.

  "La caldaia è rimasta spenta per cinque anni," spiegò Jo­shua. "E per questo che vi ho consigliato di infilare un ma­glione pesante sotto l'impermeabile. Oggi non fa molto freddo, ma, con questa umidità, fra un po' sarete gelati."

  Joshua aprì la porta ed entrò, seguito da Hilary e Tony; ognuno accese la propria torcia. "Che puzza," esclamò Hilary.

  "La muffa," spiegò Joshua. "Proprio quello che temevo." Attraversarono l'ingresso e proseguirono verso l'enorme soggiorno. I fasci di luce illuminavano quello che sembrava un magazzino colmo di mobili antichi.

  "Mio Dio," commentò Tony, "è ancora peggio della casa di Bruno. Si fa fatica a camminare."

  "Katherine era letteralmente ossessionata dalle cose belle," spiegò Joshua. "Non lo faceva per investire. E nem­meno perché le piaceva ammirare la sua collezione. Molti oggetti sono nascosti negli armadi. I quadri sono ammon­ticchiati gli uni sugli altri. E come potete vedere voi stessi, c'è decisamente troppa roba. Sono troppo ammassati per risultare piacevoli."

  "Se in ogni stanza ci sono oggetti di questo valore," disse Hilary, "qui ci dev'essere un'autentica fortuna."

  "Già," convenne Joshua. "Se non se la sono mangiati i vermi, le termiti e chissà cos'altro." Fece scorrere il fascio di luce da un angolo all'altro della stanza. "Non sono mai riuscito a capire questa sua mania per il collezionismo. Al­meno fino a questo momento. Mi stavo chiedendo se... guardando tutti questi oggetti e ripensando a quello che ci ha detto Mrs Yancy..."

 

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