Nessun Dove

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Nessun Dove Page 3

by Neil Gaiman


  «È ferita» ribadì semplicemente lui. Sul suo viso si era dipinta un'espressione che Jessica non aveva mai visto.

  «Richard» disse, con tono minaccioso, poi si ammorbidi un pochino e offri un compromesso. «Chiama un'ambulanza, allora. Spicciati.»

  Gli occhi della ragazza si aprirono, bianchi e grandi in un viso che era poco più di una chiazza di polvere e sangue. «Non in ospe­dale, per favore. Mi troveranno. Portatemi in un posto sicuro. Per favore.» La voce era flebile.

  «Stai perdendo sangue» disse Richard. Si voltò per capire da dove fosse venuta, ma il muro era una liscia e ininterrotta distesa di mattoni.

  «Mi aiuti?» sussurrò la ragazza, chiudendo gli occhi.

  «Quando telefoni al pronto soccorso» disse Jessica «non dare il tuo nome. Potrebbero chiederti un resoconto o qualcosa del gene­re, e non lascerò che questa serata venga rovinata da... Richard? Cosa stai facendo?»

  Richard aveva sollevato la ragazza e la teneva in braccio. Era incredibilmente leggera. «La porto a casa mia, Jess. Non posso la­sciarla qui. Di' al signor Stockton che sono davvero spiacente ma era un caso di emergenza. Sono certo che capirà.»

  «Richard Oliver Mayhew» disse gelida Jessica. «Tu ora rimetti giù quella persona e vieni qui immediatamente. Altrimenti questo fidan­zamento è da considerarsi chiuso, finito, terminato. Ti avverto.»

  Richard sentiva il sangue caldo e appiccicoso che gli inzuppa­va la camicia. A volte non hai alternative.

  Si allontanò lentamente.

  Jessica rimase ferma sul marciapiede, guardandolo rovinare la sua grande serata, gli occhi brucianti di lacrime. Dopo qualche mi­nuto era sparito alla vista, e allora, solo allora, con voce chiara e stentorea disse: «Merda!» e scagliò a terra la borsetta con tutta la forza che aveva, sufficiente a sparpagliare sull'asfalto telefonino, rossetto, agenda e una manciata di Tampax.

  Poi, dato che non c'era altro da fare, raccolse il tutto e lo rimise nella borsetta, quindi si diresse verso il ristorante, ad aspettare il signor Stockton.

  Sorseggiando del vino bianco, cercò di fornire un'adeguata spie­gazione del fatto che il suo fidanzato non fosse con lei, e si ritrovò a domandarsi disperata se non potesse semplicemente dire che Ri­chard era morto.

  «È stata una fine rapida e improvvisa» disse Jessica sottovoce, desiderando che fosse vero.

  Lungo tutta la strada, Richard non si era mai fermato a pensare. Non che l'avesse fatto esattamente di sua propria volontà. In un qualche angolo della parte ragionevole e assennata del cervello, qualcuno - un Richard Mayhew ragionevole e assennato - gli diceva quanto era stato ridicolo, che avrebbe dovuto limitarsi a chia­mare la polizia o un'ambulanza; che era pericoloso sollevare una persona ferita; che aveva realmente, seriamente, irritato Jessica; che quella sera avrebbe dovuto dormire sul divano; che stava rovi­nando l'unico completo buono; che la ragazza puzzava in modo terribile... ma si ritrovò a mettere un piede davanti all'altro e, con i crampi alle braccia e un forte dolore alla schiena, ignorando le oc­chiate dei passanti, continuò a camminare. Giunse al portone del palazzo in cui abitava e incespicando sali le scale, poi arrivò da­vanti alla porta del suo appartamento e si rese conto di avere di­menticato le chiavi sul tavolino in corridoio, all'interno...

  La ragazza allungò una mano sudicia verso la porta, che si apri.

  Non avrei mai pensato di essere cosi contento per non avere chiuso bene la porta, pensò Richard, che portò dentro la ragazza - richiudendo la porta dietro di sé con un piede - e la adagiò sul letto.

  Lo sparato della sua camicia elegante era zuppo di sangue.

  Lei pareva non del tutto cosciente. Gli occhi si muovevano sot­to le palpebre.

  Le tolse la giacca di pelle. La parte superiore del braccio sinistro e la spalla presentavano un lungo taglio. Richard trattenne il fiato.

  «Senti, chiamo un medico» disse con tono tranquillo. «Mi ascolti?»

  Gli occhi della ragazza si spalancarono, pieni di paura. «Per favore, no. Starò bene. Non è grave come sembra. Ho solo biso­gno di dormire. Niente dottori.»

  «Ma il tuo braccio - la spalla...»

  «Starò bene. Domani. Per favore!» Era poco più che un sussurro.

  «Be', suppongo, d'accordo» e lasciando un po' di spazio al buonsenso disse, «Senti, posso chiederti...?»

  Ma si era già addormentata.

  Usci dalla stanza in punta di piedi, richiudendosi la porta alle spalle. Quindi si sedette sul divano, davanti al televisore, doman­dandosi cosa aveva fatto.

  DUE

  Si trovava da qualche parte nel sottosuolo, molto in fondo: for­se in un tunnel, o nelle fogne. La luce era ridotta a qualche debole sprazzo, che definiva il buio, piuttosto che disperderlo.

  Non era solo. C'erano altre persone che gli camminavano ac­canto.

  Che correvano, ora, attraverso la parte interna della fognatu­ra, inzaccherandosi di melma e di sporcizia. Goccioline d'acqua cadevano lentamente, limpide come cristallo nell'oscurità.

  Svoltò un angolo, ed eccola là che lo aspettava.

  Era enorme. Riempiva completamente lo spazio della fognatu­ra: la testa massiccia abbassata, corpo e fiato fumanti nell'aria gelida. Una sorta di cinghiale, pensò all'inizio, poi si rese conto che era una sciocchezza: non esistono cinghiali cosi grandi. Ave­va le dimensioni di un toro, di una tigre, di un'automobile.

  La Bestia lo fissò, indugiò per un centinaio di anni, mentre lui sollevava la lancia.

  Quindi caricò.

  Scagliò la lancia, ma era già troppo tardi, e senti che la Bestia gli aveva tagliato il fianco con le zanne affilate come rasoi, senti che la sua vita si stava spegnendo nel fango: e si accorse di essere caduto a faccia in giù nell'acqua, che si era tinta di rosso acceso e creava densi mulinelli di sangue che lo soffocavano...

  Tentò di gridare, tentò di svegliarsi, ma riusciva soltanto a re­spirare fango e sangue e acqua, e a provare un grande dolore...

  «Brutto sogno?» chiese la ragazza.

  Richard si mise a sedere sul sofà, respirando a fatica. Le tende erano ancora tirate, ma sapeva che era mattina. Cercò a tentoni il telecomando, che chissà come gli si era incuneato tra le reni, e spense il televisore.

  «Si» rispose. «Più o meno.»

  Strofinò via le tracce di sonno che gli incrostavano gli occhi e fece l'inventario di se stesso, notando con piacere di essersi tolto le scarpe e la giacca prima di addormentarsi. Lo sparato della ca­micia era coperto di sangue secco e sporcizia.

  La ragazza senza casa non diceva nulla. Aveva un aspetto disastroso: pallida e minuta, sotto al sudiciume e al sangue ormai asciut­to e di colore marrone. Era vestita con una quantità di abiti uno sopra l'altro: vestiti curiosi, velluti impolverati, pizzi inzaccherati, buchi attraverso i quali si potevano intravvedere ulteriori strati e stili.

  Richard pensò che sembrava uscire da un'incursione di mezza­notte nella sezione riservata alla Storia della moda nel Victoria and Albert Museum, e avesse ancora indosso tutto ciò che aveva arraf­fato.

  Richard non sopportava le persone che affermano cose ovvie, quelle che ti vengono a riferire situazioni di cui non potresti non accorgerti da solo neppure volendo: «Piove» oppure, «Ti si è appena rotto il fondo del sacchetto della spesa e tutto il tuo cibo è finito nella pozzanghera» o anche, «Ooh! Scommetto che fa male!»

  «Sei sveglia, allora» disse Richard, odiandosi.

  «Che baronia è questa?» domandò la ragazza. «Che feudo?»

  «Hmm. Come, scusa?»

  Si guardò intorno con aria sospettosa. «Dove sono?»

  «Appartamento quattro, Newton Mansions, Little Comden Street...»

  Si fermò. Lei aveva aperto le tende e stava osservando la vista alquanto ordinaria che si godeva dalla finestra di Richard. Osser­vava a occhi spalancati le auto e gli autobus, e il piccolo insieme disordinato di negozi - un giornalaio, un panettiere, una farmacia e una rivendita di alcolici - sotto di loro.

  «Sono a Londra Sopra» disse.

  «Si, sei a Londra» ribadì Richard. Sopra a cosa? si chiese. «Pens
o che probabilmente ieri sera eri in stato di shock o qualcosa di simile. Il taglio sul braccio era molto brutto.» Attese che dicesse una parola, che spiegasse. Lei gli lanciò un'occhiata, poi abbassò di nuovo lo sguardo verso gli autobus e i negozi. Richard continuò: «Io, be', ti ho trovata sul marciapiede. C'era un sacco di sangue.»

  «Non preoccuparti» gli disse con aria seria. «La maggior parte del sangue apparteneva a qualcun altro.»

  Lasciò ricadere la tenda.

  Quindi si esaminò il taglio sul braccio.

  «Bisogna farci qualcosa» disse. «Vuoi darmi una mano?»

  Richard cominciava a sentirsi in acque un po' troppo profonde per le sue possibilità. «In realtà non me ne intendo molto di pronto soccorso» disse.

  «D'accordo,» fece lei «se sei davvero tanto schizzinoso, vuol dire che ti limiterai a tenere le bende e ad annodare le estremità che non riesco a raggiungere. Ce le hai le bende, vero?»

  Richard annui. «Oh si» disse. «Nella scatola del pronto soccor­so. Sotto il lavandino.»

  Dopo di che andò in camera a cambiarsi, e si chiese se sarebbe mai stato possibile rimediare al disastro che aveva sulla camicia (la sua camicia migliore, quella che gli aveva comprato, oddio, Jessica, chissà come sarà nervosa).

  L'acqua sanguinolenta gli rammentava qualcosa, una specie di sogno che gli era capitato di fare, forse, ma che non riusciva a ri­cordare nemmeno fosse stata in gioco la sua stessa vita.

  Tolse il tappo e lasciò defluire il liquido dal lavandino, che riempi nuovamente di acqua pulita a cui aggiunse un torbido schiz­zo di Dettol: l'odore pungente del disinfettante gli parve oltremo­do sensato e salutare: un rimedio per la stranezza della situazione e per la sua ospite. Lei si chinò, per farsi sciacquare il braccio e la spalla con l'acqua tiepida.

  Richard non era mai stato schifiltoso come pensava di essere. O meglio, era incredibilmente sensibile quando si trattava di san­gue sullo schermo: un film di zombie ben fatto o anche una storia realistica relativa a medici e chirurghi lo lasciavano raggomitolato in un angolo, in iperventilazione, con le mani sugli occhi, a bron­tolare cose come «Ditemi quando è finito.» Ma se doveva confrontarsi con sangue vero, con vero dolore, si metteva d'impegno e provava a fare qualcosa per migliorare la situazione.

  Ripulirono la ferita - che era meno profonda di quanto Richard ricordasse dalla sera precedente - e la bendarono, e la ragazza fece del proprio meglio per non tirarsi indietro durante l'operazione. Richard si ritrovò a chiedersi quanti anni potesse avere, e quale fosse il suo aspetto sotto a tutto quel sudiciume, e perché vivesse in strada e...

  «Come ti chiami?» gli chiese.

  «Richard. Richard Mayhew. Dick.»

  Fece cenno di si con il capo, come stesse imparandolo a memo­ria. «Richardrichardmayhewdick» ripeté.

  Il campanello suonò.

  Richard guardò la confusione nel bagno e la ragazza, e si doman­dò cosa ne avrebbe pensato un osservatore esterno dotato di buon senso. Come, per esempio... «Oh, Signore» disse, immaginando il peggio. «Scommetto che è Jess. Mi ucciderà.» Limitare i danni. Limitare i danni. «Senti» disse alla ragazza. «Tu aspetta qui.»

  Si chiuse la porta del bagno alle spalle e si diresse verso il cor­ridoio.

  Apri la porta d'ingresso e si produsse in un grandioso e sentito sospiro di sollievo. Non era Jessica. Si trattava di - cosa? Mormo­ni? Testimoni di Geova? La polizia? Non era in grado di dirlo. Comunque, erano in due.

  Indossavano completi neri un po' unti, un po' lisi, e persino Richard, che si annoverava tra quanti soffrono di dislessia sarto­riale, percepiva che c'era qualcosa di strano nel taglio di quegli abiti. Erano il tipo di completo che avrebbe potuto creare un sarto di duecento anni fa, a cui gli abiti moderni fossero stati soltanto descritti, senza averli visti realmente. Le linee erano sbagliate, e altrettanto dicasi per gli accessori.

  Una volpe e un lupo, pensò involontariamente Richard. Poi si chiese perché mai l'avesse pensato.

  Il primo uomo, la volpe, era più basso di Richard. Aveva ca­pelli lisci e untuosi e colorito pallido; quando Richard apri la porta fece un ampio sorriso, con appena una frazione di secondo di ritar­do. «Un buon mattino a lei, buon signore,» disse «in questa bella e piacevole giornata.»

  «Si, certo, buongiorno» rispose Richard.

  «Stiamo conducendo un'indagine personale e di natura assai delicata come dire, porta a porta. Le dispiace se entriamo?»

  «Be', non è proprio il momento migliore» fece Richard. Poi chiese, «Siete della polizia?»

  Il secondo visitatore, un uomo alto, il lupo, che se ne stava qual­che passo dietro al suo amico, tenendo stretta al petto una pila di fotocopie, fino a quel momento non aveva detto nulla, limitandosi ad attendere, imponente e impassibile. Ora scoppiò a ridere, una sola volta, con tono profondo e volgare. C'era qualcosa di insano in quella risata.

  «Purtroppo» disse l'uomo più basso «non abbiamo questo pri­vilegio. Una carriera nella legge e nella giustizia, per quanto in­dubbiamente allettante, non era scritta nelle carte che la Signora Fortuna ha distribuito a mio fratello e a me. No, siamo soltanto privati cittadini. Permettete che faccia le presentazioni. Io sono mister Croup, e questo gentiluomo è mio fratello, mister Vandemar.»

  Non sembravano fratelli. Non sembravano niente che Richard avesse già visto.

  «Suo fratello?» chiese Richard. «Non dovreste avere lo stesso cognome?»

  «Sono colpito. Che cervello, mister Vandemar. Definendolo perspicace e sottile non gli si rende giustizia. Alcuni di noi sono cosi acuti» e si chinò verso Richard, mettendosi sulla punta dei piedi per arrivargli al viso, «che potrebbero addirittura tagliarsi da soli.»

  Richard arretrò di un passo.

  «Possiamo entrare?» chiese mister Croup.

  «Cosa volete?»

  Mister Croup sospirò in quello che ovviamente immaginava fosse un tono alquanto malinconico. «Stiamo cercando nostra so­rella» spiegò. «Una bambina ribelle, testarda e volitiva, che ha quasi spezzato il cuore della nostra povera mamma vedova.»

  «È scappata» chiari mister Vandemar, mellifluo. Ficcò in mano a Richard una fotocopia. «È un pochino... strana» aggiunse, facen­do roteare un dito vicino alla tempia, a indicare che la ragazza era completamente matta.

  Richard abbassò lo sguardo sul foglio.

  Diceva:

  AVETE VISTO QUESTA RAGAZZA?

  Sotto alla scritta c'era una fotografia fotocopiata in bianco e nero di una ragazza che a Richard parve una versione dai capelli lunghi, più curata e pulita, della giovane che aveva lasciato nel bagno.

  Ancora più sotto, un'altra scritta:

  RISPONDE AL NOME DI PORZIA. MORDE E SCALCIA.

  SCAPPATA DA CASA. DITECI SE L'AVETE VISTA. LA RIVOGLIAMO INDIETRO.

  PREVISTA RICOMPENSA.

  E sotto al tutto, un numero di telefono.

  Richard guardò di nuovo la fotografia. Era senza dubbio la ra­gazza nel suo bagno.

  «No» disse. «Purtroppo non l'ho vista. Mi dispiace.»

  Mister Vandemar, tuttavia, non lo ascoltava. Aveva alzato la testa e stava annusando l'aria, come chi sentisse l'odore di qualco­sa di strano o sgradevole. Richard allungò la mano per restituirgli la fotocopia, ma l'omaccione si limitò a spingerlo via e a entrare nell'appartamento, un lupo in cerca di preda.

  Richard lo rincorse.

  «Dove crede di andare? Si fermi. Esca subito di qui. Guardi che non può entrare...» perché mister Vandemar aveva proseguito drit­to verso il bagno.

  Richard si augurò che la ragazza - Porzia? - avesse avuto la presenza di spirito di chiudere la porta a chiave. Invece no, si spa­lancò alla prima spinta di mister Vandemar, che entrò seguito da un Richard che si sentiva come un cane di piccola taglia che abba­ia inutilmente ai tacchi del postino.

  La stanza da bagno non era molto grande. Conteneva una va­sca, un water, un lavandino, numerose bottiglie di shampoo, una saponetta e un asciugamano. Quando Richard ne era uscito, un paio di minuti prima, conteneva anche una ragazza piuttosto spor­ca e insanguinata, un lavandi
no molto insanguinato e un kit di pronto soccorso aperto. Ora brillava di un ordine perfetto.

  Non c'erano angoli in cui la ragazza avrebbe potuto nascondersi.

  Mister Vandemar usci dal bagno, spinse la porta della camera da letto e vi entrò, guardandosi intorno.

  «Non so cosa pensiate di fare» disse Richard. «Ma se voi due non uscite immediatamente da casa mia, telefono alla polizia.»

  A quel punto mister Vandemar, che era intento a esaminare il salotto, si voltò verso Richard, che all'improvviso si rese conto di avere una gran paura, come un cagnolino che avesse scoperto che quello che pensava fosse un normale postino era in realtà un enor­me alieno mangiatore di cani proveniente da uno di quei film per cui Jessica non aveva mai tempo.

  Richard si trovò a chiedersi se mister Vandemar fosse il tipo di persona a cui si implora, «Non farmi del male!» e se, in caso affer­mativo, la preghiera sarebbe servita a qualcosa.

  Quindi il volpino mister Croup disse, «Be', si, mister Vande­mar, cosa le è preso? Immagino che la preoccupazione per la no­stra cara, dolce sorellina gli abbia fatto perdere la testa. Ora, do­mandi scusa a questo signore, mister Vandemar.»

  Mister Vandemar annui e si fermò un attimo a pensare. «Cre­devo di aver bisogno di usare il bagno» disse. «Non era cosi. Mi dispiace.»

  Mister Croup cominciò a imboccare il corridoio.

  «Bene. Mi auguro vorrete perdonare al mio errante fratello la mancanza di finezza nei rapporti sociali. L'ansia per la nostra po­vera madre vedova e per nostra sorella, che anche ora, proprio mentre parliamo, vaga per le strade di Londra senza alcuno vicino che le voglia bene e si prenda cura di lei, gli ha quasi sconvolto la mente, glielo garantisco. Ma a parte questo, è un ottimo compagno da avere al proprio fianco. Non è vero, omone?»

  Avevano già superato la soglia e si trovavano sulle scale. Mister Vandemar non disse nulla, ma non sembrava sconvolto dal dolore.

  Croup si voltò verso Richard, producendosi in un altro sorriso volpino. «Ci faccia sapere se la vede» disse.

  «Addio» rispose Richard. Poi chiuse la porta a chiave e, per la prima volta da quando abitava li, tirò anche il catenaccio.

 

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