Nessun Dove

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Nessun Dove Page 7

by Neil Gaiman


  Mister Croup e mister Vandemar stavano ammazzando il tempo.

  Mister Vandemar aveva trovato da qualche parte un centopiedi - una creatura rosso-arancio lunga quasi venti centimetri, con perico­lose punte velenose su entrambe le estremità - e se lo faceva correre sulle mani, osservandolo mentre gli girava tra le dita, scompariva su per una manica per riapparire un minuto dopo in uscita dall'altra.

  Mister Croup stava giocando con delle lamette da barba. In un angolo ne aveva trovata una scatola intera, lamette vecchie di al­meno cinquant'anni avvolte nella pergamina, e si era messo di impegno a pensare a come utilizzarle.

  «Se posso avere la sua attenzione, mister Vandemar,» disse in­fine «punti i suoi occhiettini luccicanti su questo.»

  Affinché smettesse di dimenarsi, mister Vandemar prese con delicatezza la testa del centopiedi tra un pollice enorme e un indi­ce massiccio, quindi guardò mister Croup.

  Mister Croup appoggiò la mano sinistra contro il muro, le dita allargate. Nella mano destra teneva cinque lamette, prese attenta­mente la mira e le scagliò verso il muro.

  Ogni lametta si conficcò con precisione nella parete, tra le sue dita. Sembrava il numero di un bravissimo lanciatore di coltelli in miniatura.

  Mister Croup tolse la mano dal muro, lasciandoci infisse le la­mette, a evidenziare la posizione in cui erano state le dita, quindi si voltò verso il suo socio in cerca di approvazione.

  Mister Vandemar non era per nulla impressionato.

  «Be'? Cosa c'era di tanto intelligente?» chiese. «Non ha colpi­to nemmeno un dito.»

  Mister Croup sospirò. «Non l'ho fatto?» ribadì. «Perbacco, che mi si squarci la gola, ha ragione. Come ho potuto essere cosi sven­tato?» Estrasse le lamette dal muro, una a una, e le lasciò cadere sul tavolo di legno. «Perché non mi fa vedere lei come si dovrebbe fare?»

  Mister Vandemar annui. Ripose il suo centopiedi nel vasetto di marmellata vuoto.

  Poi appoggiò la mano sinistra contro la parete.

  Alzò il braccio destro: in mano teneva il coltello, pericoloso, tagliente e perfettamente bilanciato. Socchiuse gli occhi e lanciò.

  L'arma attraversò l'aria come un coltello da lancio particolar­mente grande e affilato che vola attraversando l'aria a una velocità davvero notevole. Con un rumore sordo la lama si conficcò nel muro, avendo prima colpito e trapassato il dorso della mano di mister Vandemar.

  Suonò un campanello.

  Mister Vandemar alzò lo sguardo, soddisfatto, con un coltello che gli attraversava la mano. «Così» disse.

  In un angolo della stanza c'era un telefono. Si trattava di un vecchissimo modello in legno e bachelite, inutilizzato in ospedale già dagli anni Venti. Mister Croup sollevò il ricevitore, che era collegato a un filo molto lungo e ricoperto di stoffa, e parlò nel­l'imboccatura che era attaccata alla base. «Croup e Vandemar» dis­se suadente. «Antica Ditta. Annientamento ostacoli, eliminazione seccature, estirpazione arti fastidiosi e odontoiatria tutelare.»

  La persona all'altro capo del filo disse qualcosa. Mister Croup si fece piccolo per la paura.

  Mister Vandemar diede uno strattone alla mano sinistra, che era inchiodata al muro dal coltello.

  «Oh. Si, signore. Certo, signore. E posso dirvi quanto la vostra confabulazione telefonica illumini e rallegri la nostra altrimenti tediosa e squallida giornata?» Un'altra pausa. «Naturalmente, smet­terò di adulare e di strisciare. Con vero piacere. Un onore, e - cosa sappiamo? Sappiamo che...» Un'interruzione; si mise le dita nel naso con aria riflessiva, paziente. «No, non sappiamo dove si tro­va in questo preciso momento. Ma non è necessario. Stasera sarà al mercato e...» Serrò le labbra, poi aggiunse, «Non abbiamo in­tenzione di violare l'armistizio del mercato. Più che altro di aspettare che lasci il mercato per squartarla...» Rimase un attimo in si­lenzio, in ascolto, annuendo di quando in quando.

  Con la mano libera, Mister Vandemar tentò di estrarre il coltel­lo dal muro, ma si era conficcato con troppa energia.

  «Si può fare, certo» disse mister Croup nell'imboccatura. «Vo­glio dire, sarà fatto. Naturalmente. Si. Lo capisco. E, signore, for­se potremmo discutere del...?»

  Ma colui che aveva chiamato aveva già interrotto la comunica­zione. Mister Croup fissò per un attimo il ricevitore, quindi lo riap­pese al suo gancio.

  «Pensi di essere cosi dannatamente intelligente» bisbigliò. Poi si accorse dell'impiccio in cui si trovava mister Vandemar e disse, «Fermo!» Si chinò, estrasse il coltello dal muro e dal dorso della mano di mister Vandemar, e lo appoggiò sul tavolo.

  Mister Vandemar agitò la mano sinistra e piegò le dita, poi tolse i frammenti di intonaco ammuffito dalla lama del coltello. «Chi era?»

  «Il nostro datore di lavoro» rispose mister Croup. «Sembra che l'altro non funzioni. Non è abbastanza grande. Dovrà proprio es­sere la femmina Porta.»

  «Perciò non abbiamo più il permesso di ucciderla?»

  «Questo, mister Vandemar è il succo della questione, proprio cosi. Ora, sembra che la piccola signorina Porta abbia annunciato che assumerà una guardia del corpo. Al mercato. Questa sera.»

  «E allora?» Mister Vandemar si sputò sul dorso della mano, nel punto dove era entrato il coltello, e sul palmo della mano, nel pun­to dove il coltello era uscito.

  Mister Croup sollevò dal pavimento il suo cappotto, pesante, nero e lucido per l'età. Lo indossò.

  «E allora, mister Vandemar, perché non assumere anche noi una guardia del corpo?»

  Mister Vandemar fece scivolare il coltello al proprio posto, nel­la custodia dentro la manica. Indossò il cappotto anche lui, infilò con foga le mani in tasca e fu piacevolmente stupito di trovarci quasi mezzo topo. Bene. Era affamato.

  Quindi si mise a meditare sull'ultima affermazione di mister Croup con l'intensità di un patologo legale che disseziona il suo unico grande amore, e, accorgendosi della falla nella logica del suo socio, mister Vandemar disse, «Non abbiamo bisogno di una guardia del corpo, mister Croup. Noi facciamo male alla gente. Non sono gli altri a far del male a noi.»

  Mister Croup spense le luci.

  «Oh, mister Vandemar» disse, gustando il suono delle parole, come gustava il suono di tutte le parole, «se ci tagliamo, non san­guiniamo forse anche noi?»

  Mister Vandemar ci pensò sopra un istante, al buio. Poi, con precisione inoppugnabile, disse, «No.»

  «Una spia dal Mondo di Sopra» disse Lord-Parla-coi-Ratti. «Sai, dovrei farti un bel taglio dalla gola allo stomaco e predire il futuro con le tue budella.»

  «Senti» disse Richard con la schiena contro il muro e lo stiletto di vetro premuto contro il pomo d'Adamo. «Penso che tu stia fa­cendo un grosso errore. Mi chiamo Richard Mayhew. Posso dimostrare la mia identità. Ho la tessera della biblioteca. Le carte di cre­dito. Tante cose» aggiunse disperato.

  Con la fredda lucidità che si impossessa di chi ha di fronte a sé uno squilibrato che sta per tagliargli la gola con un pezzo di vetro rotto, Richard si accorse che sul lato opposto della sala la gente si stava gettando al suolo, in un inchino estremamente profondo, e rimaneva a terra.

  Una figurina nera si stava dirigendo verso di loro.

  «Sono certo che se ci pensiamo un attimo ci renderemo conto di essere stati tutti molto sciocchi» disse Richard. Non aveva idea di cosa significassero quelle parole, se non che gli erano semplicemente uscite di bocca e che finché parlava non era morto. «Ora, perché non metti via quel coso e - scusa, quella è la mia borsa» quest'ultima frase era rivolta a una ragazza magra e sporca sui di­ciassette/diciotto anni che si era impossessata della borsa di Ri­chard e ne stava svuotando con forza il contenuto sul selciato.

  La gente nella sala continuava a inchinarsi e a rimanere china, mentre la piccola figura si avvicinava.

  La figura raggiunse il gruppo di persone che circondava Ri­chard. Nessuno di loro la notò. Stavano tutti guardando Richard.

  Si trattava di un ratto. Alzò lo sguardo verso di lui e per un at­timo Richard ebbe la bizzarra impressione che gli avesse strizzato l'occhio.

  Quindi
si mise a squittire ad alta voce.

  L'uomo con lo stiletto di vetro si gettò in ginocchio, e lo stesso fecero le persone riunite li intorno. E cosi, dopo un momento di esitazione, fece anche il senzatetto, l'uomo che avevano chiamato Iliaster.

  Richard fu l'unico a rimanere in piedi. La ragazza magra lo tirò per il gomito, e pure lui si mise in ginocchio.

  Lord Parla-coi-Ratti si inchinò cosi profondamente che i suoi lunghi capelli spazzavano il pavimento, e squitti in risposta al rat­to, increspando il naso, mostrando i denti, squittendo e soffiando, in tutto e per tutto come un ratto formato gigante.

  «Ehi, qualcuno sa dirmi...» bofonchiò Richard.

  «Zitto!» disse la ragazza.

  Con aria un po' sprezzante, il ratto sali sulla mano sudicia di Lord Parla-coi-Ratti, e con grande rispetto l'uomo lo sollevò fino al viso di Richard. Ondeggiava languidamente la coda.

  «Questo è Padron Codalunga, del clan Grigio» disse Lord Par­la-coi-Ratti. «Dice che hai un aspetto decisamente familiare. Vuo­le sapere se vi siete mai incontrati prima.»

  Richard osservò il ratto. Il ratto osservò Richard. «Suppongo sia possibile» ammise.

  «Dice che si stava liberando da un'obbligazione verso il Mar­chese de Carabas.»

  Richard lo guardò più da vicino. «È quel ratto? Si, ci siamo già incontrati. In verità gli ho lanciato contro il telecomando.»

  Alcune delle persone li intorno parvero scioccate. La ragazzina magra addirittura squitti. Richard quasi non se ne accorse; final­mente c'era qualcosa di familiare in quella pazzia.

  «Ciao, Rattino» disse. «È bello rivederti. Sai dov'è Porta?»

  «Rattino!» esclamò la ragazza tra uno squittio e un soffocato grido di raccapriccio. Attaccata agli abiti cenciosi aveva una pic­cola spilla rossa macchiata d'acqua su cui stava scritto Ho 11 anni a caratteri gialli.

  Lord Parla-coi-Ratti agitò minacciosamente lo stiletto di vetro verso Richard. «Non puoi rivolgerti a Padron Codalunga se non attraverso me» disse.

  Il ratto squitti un ordine. L'espressione sul viso dell'uomo si oscurò.

  «Lui?» disse, guardando Richard con disprezzo. «Senta, non ho neppure un'anima disponibile. E se semplicemente gli tagliassi la gola e lo spedissi giù al Popolo delle Fogne...»

  Il ratto squitti un'altra volta, risoluto, poi spiccò un balzo dalla spalla dell'uomo fino a terra e svanì in uno dei numerosi fori che trivellavano i muri.

  Lord Parla-coi-Ratti si alzò.

  Un centinaio di occhi erano fissi su di lui. Si voltò verso la sala e guardò tutti gli altri, accucciati accanto ai fuochi untuosi.

  «Non so cosa stiate guardando, tutti» strillò. «Chi gira gli spie­di, eh? Volete che la roba da mangiare si bruci? Non c'è niente da vedere. Continuate. Andate-andate via.»

  Richard si rimise in piedi, un po' nervoso.

  Lord Parla-coi-Ratti si rivolse a Iliaster. «Deve essere accom­pagnato al mercato. Ordini di Padron Codalunga.»

  Iliaster scosse il capo e sputò per terra. «Be', io non ce lo por­to» disse. «Vale più di tutta la mia vita, quel viaggio. Voi parla-coi-ratti siete sempre stati buoni con me, ma là non ci posso anda­re. Lo sapete.»

  Lord Parla-coi-Ratti annui. Ripose lo stiletto.

  Quindi fece a Richard un sorriso sdentato. «Non sai quanto sei stato fortunato, poco fa» disse.

  «Si, lo so» rispose Richard. «Eccome se lo so.»

  «No,» disse l'uomo «non lo sai. Eccome se non lo sai.» E scos­se il capo, ripetendo 'Rattino!' tra sé.

  Lord Parla-coi-Ratti prese sottobraccio Iliaster, e i due si allon­tanarono quanto bastava per non farsi udire. Poi cominciarono a discutere, lanciando nel frattempo occhiatacce a Richard.

  La ragazzina magra stava ingurgitando una delle banane di Ri­chard in quello che egli ritenne l'utilizzo gastronomicamente meno erotico possibile del frutto in questione.

  «Sai, quella doveva essere la mia colazione» disse Richard.

  Assunse un'espressione colpevole.

  «Io mi chiamo Richard, e tu?»

  La ragazza che, a un esame più approfondito, sembrava essersi mangiata quasi tutta la frutta che Richard aveva portato con sé, alzò gli occhi con aria imbarazzata. Poi fece un mezzo sorrisino e disse qualcosa che dal suono pareva molto simile ad Anestesia.

  «Avevo fame» disse lei. «Be', anch'io» commentò lui.

  La ragazza diede un'occhiata ai piccoli fuochi intorno alla stan­za. Poi si rivolse di nuovo a Richard. «Ti piace il gatto?» chiese.

  «Si» rispose Richard. «Mi piacciono molto i gatti.» Anestesia parve sollevata. «Petto o coscia?» domandò.

  La ragazza di nome Porta attraversò a piedi la corte, seguita dal Marchese de Carabas.

  C'erano centinaia di altre piccole corti come questa a Londra, di vicoli e cortiletti per le scuderie, minuscole tracce del tempo che fu, immutate da trecento anni. Anche la puzza di urina era la stes­sa che riportavano le cronache di Samuel Pepys.

  Mancava ancora un'ora all'alba, ma il cielo iniziava a rischia­rare, per diventare di un intenso colore plumbeo.

  La porta era malamente ricoperta di assi e di sudici manifesti di gruppi musicali dimenticati e locali notturni chiusi da tempo.

  Si fermarono davanti alla porta e il Marchese la fissò, tutta assi, chiodi e manifesti com'era, e parve assolutamente indifferente.

  «Perciò l'entrata è questa?» chiese.

  Lei annui. «Una delle entrate.»

  Lui incrociò le braccia. «Be'? Di' apriti sesamo o quello che devi dire.»

  «Non voglio farlo» rispose. «Non sono sicura che stiamo facen­do la cosa giusta.»

  «Molto bene» distese le braccia e le fece un inchino. «Ci ve­diamo, allora.»

  Cominciò a incamminarsi per la strada da cui erano venuti. Por­ta gli afferrò il braccio. «Mi abbandoni cosi?» chiese. «Come se niente fosse?»

  Lui fece un largo sorriso, per nulla divertito. «Certo. Sono un uomo molto impegnato. Ho cose da fare. Persone da vedere.»

  «Senti, aspetta.» Gli lasciò la manica, mordendosi il labbro in­feriore. «L'ultima volta che sono stata qui...» la voce si spense.

  «L'ultima volta che sei stata qui hai trovato i tuoi familiari morti. Bene, ecco fatto. Non dovrai spiegarlo di nuovo. Se non entriamo, il nostro rapporto di lavoro è da considerarsi concluso.»

  Alzò lo sguardo verso di lui, il viso pallido nella luce che pre­cede l'alba. «Ed è tutto?»

  «Potrei augurarti buona fortuna per la tua futura carriera, ma temo di dover dubitare del fatto che vivrai abbastanza a lungo da averne una.»

  «Sei proprio senza ritegno, vero?»

  Lui non rispose.

  La ragazza ritornò alla porta. «D'accordo» disse. «Vieni, entria­mo.»

  Porta appoggiò la mano sinistra sulla porta inchiodata e con la destra strinse la manona scura del Marchese. Delle minuscole dita si intrecciarono ad altre più grandi. Chiuse gli occhi.

  ... Qualcosa sussurrava e tremava e mutava...

  ... E la porta crollò nell'oscurità...

  Il ricordo era recente, pochi giorni soltanto. Porta si aggirava nella Casa Senza Porte gridando «Sono a casa!» e «C'è nessu­no?» Era scivolata con circospezione dall'anticamera in sala da pranzo, in biblioteca, in salotto: nessuna risposta. Non c'era nes­suno da nessuna parte. Si trasferì in un 'altra stanza.

  La piscina era una struttura vittoriana al coperto, costruita in marmo e ghisa. Suo padre l'aveva trovata da giovane, abbando­nata e sul punto di essere demolita, e l'aveva inserita nell'impian­to della Casa Senza Porte.

  Porta non aveva idea di dove si trovassero le varie stanze della casa, flsicamente. Era stato suo nonno a costruirla, prendendo una camera qui e una là in tutta Londra, stanze separate e prive di porte.

  Camminava lungo il bordo della vecchia piscina, contenta di essere a casa. Poi guardò verso il basso.

  C'era qualcuno che galleggiava sull'acqua e lasciava dietro di sé due nuvolette gemelle di sangue, una dalla gola, l'altra dall'in­guine. Era suo fratello, Arco. Aveva gli
occhi spalancati e ciechi.

  Si rese conto di avere aperto la bocca. Poteva sentirsi urlare.

  «Che male» disse il Marchese. Si massaggiò energicamente la fronte e girò la testa come cercando di alleviare un improvviso at­tacco di torcicollo.

  «È per i ricordi» spiegò Porta. «Sono impressi nei muri.»

  Lui sollevò un sopracciglio. «Avresti dovuto avvertirmi.»

  «Si» rispose. «Giusto.»

  Si trovavano in un'ampia sala bianca. I muri erano tutti coperti di quadri. Ogni quadro rappresentava una stanza diversa.

  «Décor interessante» riconobbe il Marchese.

  «È il salone d'ingresso. Da qui si può entrare in ogni stanza della Casa. Sono tutte collegate.»

  «Dove sono situate le altre camere?»

  Porta scosse il capo. «Non lo so. A chilometri da qui, probabil­mente. Sono sparse in tutto il Mondo di Sotto.»

  Il Marchese era riuscito a coprire l'intera stanza con una serie di lunghi passi impazienti. «Davvero notevole. Una casa associativa, in cui ogni stanza è collocata da un'altra parte. Davvero imma­ginativa. Tuo nonno era un uomo dalle grandi visioni, Porta.»

  «Non l'ho mai conosciuto.» Deglutì, poi riprese, parlando a se stessa quanto a lui, «Avremmo dovuto essere al sicuro qui. Non avrebbe dovuto esserci per nessuno la possibilità di farci del male. Solo la mia famiglia poteva andare in giro per la casa.»

  «Speriamo che il diario di tuo padre ci fornisca qualche indi­zio» commentò il Marchese. «Da dove cominciamo a cercare?»

  Si strinse nelle spalle.

  «Sei sicura che tenesse un diario?»

  Annui. «Era solito andare nel suo studio e isolare i collegamen­ti finché aveva finito di dettare.»

  «Allora cominceremo dallo studio.»

  «Ma ci ho guardato. L'ho fatto. Ci ho guardato. Quando stavo ricomponendo il corpo...» E cominciò a piangere, con singhiozzi bassi e rabbiosi, che parevano emergere a fatica dal profondo del cuore.

  «Su. Su» disse il Marchese de Carabas, in maniera un po' gof­fa, dandole una pacca sulle spalle. Poi, per buona misura, aggiun­se, «Su.»

 

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