Nessun Dove

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Nessun Dove Page 10

by Neil Gaiman


  La donna lo guardò con aria di compatimento, e Richard si rese conto che nessuno gli teneva la mano.

  «Anestesia?»

  Dall'oscurità sulla cima del ponte giunse un rumore sommesso, come un fruscio o un sospiro. Una manciata di perline di quarzo scese ticchettando dalla curvatura del ponte, nella loro direzione.

  Richard ne prese una. Veniva dalla collana della ragazza-ratto.

  «Sarà meglio... Dobbiamo tornare indietro. È...»

  La donna sollevò la torcia, illuminando il ponte. Richard pote­va vederlo tutto, ed era deserto.

  «Dov'è?»

  «Andata» rispose la donna con tono piatto. «Se l'è presa il buio.»

  «Dobbiamo fare qualcosa» disse Richard.

  «Del tipo?»

  Lui apri la bocca. La richiuse. Maneggiò il piccolo blocco di quarzo e osservò gli altri, a terra. «Non lo so.»

  «È andata» ripeté la donna. «Il ponte si prende un pedaggio. Sii felice che non abbia preso anche te. Ora, se stai andando al merca­to, è per di qua, da questa parte. Vieni?»

  Richard rimase là al buio per alcuni istanti scanditi dai violenti battiti del suo cuore pesante, poi infilò nella tasca dei jeans la per­lina di quarzo e segui la donna, che lo precedeva di qualche passo.

  Nel seguirla gli venne in mente che ancora non conosceva il suo nome.

  CINQUE

  La gente scivolava e fluiva nell'oscurità circostante impugnan­do lampade, torce e candele. A Richard pareva uscita da un docu­mentario sui branchi di pesci, che luccicano e si muovono repentini nell'oceano... Acque profonde, abitate da esseri che hanno per­so l'uso degli occhi. Acque davvero troppo profonde...

  Richard segui la donna vestita di pelle che aveva salito qualche gradino. Gradini dì pietra bordati di metallo. Si trovavano in una stazione della metropolitana.

  Si unirono a un gruppo di persone in coda in attesa di scivolare attraverso una grata, aperta all'incirca per una trentina di centimetri per scoprire la porta che conduceva fuori, sul marciapiede.

  Immediatamente davanti a loro c'era una coppia di ragazzi, molto giovani, che portavano entrambi un legaccio stretto intorno al polso. L'altro capo dei legacci era tenuto da un uomo pallido e calvo che puzzava di formaldeide. Appena dietro di loro, invece, c'era un uomo con la barba grigia e un micino bianco e nero sulla spalla. Il gattino si stava lavando tutto assorto, poi diede una leccatina all'orecchio dell'uomo, quindi gli si acciambellò sulla spal­la e si mise a dormire.

  La coda procedeva lentamente quando, una a una, le sagome che si trovavano in cima scivolavano nello spazio tra la grata e il muro e avanzavano nella notte.

  «Perché vai al mercato, Richard Mayhew?» chiese con tono pacato la donna vestita di pelle.

  «Spero di incontrare degli amici. Be', una amica, a dire il vero. In realtà non conosco molte persone di questo mondo. In qualche modo stavo iniziando a conoscere Anestesia, ma...» la voce gli venne meno. Fece la domanda. «È morta?»

  La donna si strinse nelle spalle. «Si. O come se. Spero che la tua visita al mercato dia un senso alla sua perdita.»

  Richard rabbrividì. «Lo spero anch'io» disse.

  Stavano arrivando alla fine della coda.

  «Tu cosa fai?» le chiese.

  Lei sorrise. «Vendo servizi fisici personali.»

  «Oh» fece lui. Poi, «Che tipo di servizi fisici personali?»

  «Affitto il mio corpo.»

  «Ah.»

  E uscirono nella notte.

  Richard si voltò a dare un'occhiata. Il cartello sulla stazione del metrò diceva: Knightsbridge. Non sapeva se ridere o piangere. Sembrava fossero le prime ore del mattino. Richard abbassò lo sguardo sul suo orologio e vedere che i numeri digitali erano scom­parsi lasciando uno spazio vuoto non lo sorprese affatto. Forse si erano esaurite le pile. Forse il tempo a Londra Sotto era solo un lontano parente del tipo di tempo a cui era abituato. Si slacciò l'orologio e lo lasciò cadere nel più vicino cestino per la spazzatura.

  Lo strano assortimento di persone stava sciamando per attraver­sare la strada, oltrepassando le doppie porte di fronte a loro.

  «Lì?» chiese, spaventato.

  La donna annui. «Lì.»

  L'edificio era molto grande e pieno di luci. Vistosi blasoni sul muro affermavano che erano in vendita articoli di ogni genere ap­provati da vari membri della famiglia reale. Richard, che nei fine settimana aveva trascorso parecchie ore con i piedi doloranti, ar­rancando al seguito di Jessica attraverso i negozi più illustri di Londra, l'avrebbe riconosciuto anche senza l'enorme insegna che ne proclamava l'identità:

  «Harrods?»

  Hunter annui. «Solo per questa sera» disse. «Il prossimo mer­cato potrà essere ovunque.»

  «Si, ma insomma...» disse Richard «Harrods!»

  Entrarono attraverso la porta laterale. La stanza era al buio. Superarono il bureau de change e il reparto pacchi regalo. Attraversarono un'altra sala buia dove si vendevano occhiali da sole e statuine. Poi entrarono nella Sala Egizia. Luci e colori colpirono Richard come un pugno in pieno petto. La sua compagna si voltò verso di lui: stava sbadigliando, come una gatta, il dorso della mano a nascondere il vivido rosa della bocca.

  «Bene. Sei arrivato. Sano e, più o meno, salvo. Io ho degli im­pegni di lavoro, perciò addio.» Un rapido cenno del capo, ed era scomparsa tra la gente.

  Richard rimase li, solo in mezzo alla calca, abbeverandosene.

  Era follia pura. Di quello non c'era alcun dubbio.

  Il rumore era molto forte. La gente discuteva, contrattava, gri­dava e cantava. Erano venditori ambulanti che mostravano la pro­pria mercanzia, decantandone la superiorità. Si udiva della musica - una dozzina di generi musicali diversi, suonati in una dozzina di maniere diverse su altrettanti strumenti diversi, la maggior parte improvvisati, improbabili,, improponibili.

  Richard sentiva odore di cibo. Di cibi di ogni tipo.

  Le bancarelle erano state sistemate in tutto il negozio. Accanto, quando non sopra, a banconi dove durante il giorno erano stati venduti profumi, orologi, ambra o foulard di seta, i venditori notturni avevano installato i loro banchetti improvvisati.

  Tutti compravano. Tutti vendevano.

  Si aggirava per le immense stanze del grande magazzino come in trance, incapace persino di fare una stima approssimativa del numero di persone presenti al mercato: un migliaio? Duemila? Cinquemila?

  Una bancarella era stipata fino all'inverosimile di bottiglie, bot­tiglie piene e vuote, bottiglie di ogni forma e dimensione; un'altra offriva lampade e candele; passò davanti a un chiosco dove si ven­devano luccicanti gioielli in oro e argento, e a uno in cui la gioiel­leria pareva creata utilizzando pezzi di vecchie radio; c'erano ban­chi con ogni sorta di libri; altri che vendevano vestiti - rattoppati e nuovi, e strani; tatuatori; un dentista; un vecchio curvo che vende­va cappelli; qualcosa che somigliava molto a un albergo diurno; persino un fabbro...

  Le bancarelle erano intervallate da venditori di cibarie. Alcuni cuocevano la propria merce sul fuoco vivo: pietanze al curry, pa­tate, caldarroste, funghi, pane.

  Richard si ritrovò a chiedersi come mai il fumo dei fornelli non facesse scattare il sistema antincendio. Poi si ritrovò a chiedersi come mai nessuno saccheggiasse il negozio: perché montare ban­carelle proprie? Perché non prendere direttamente la roba del gran­de magazzino?

  Nella gente che lo circondava c'era qualcosa di profondamente tribale, decise Richard. Cercò di individuare i diversi gruppi: c'era­no quelli che parevano scappati da una recita in costume; quelli che gli ricordavano gli hippy; gli albini con abiti grigi e occhiali scuri; quelli raffinati e pericolosi, in completo elegante e guanti neri; le donne gigantesche e praticamente identiche che si aggira­vano in gruppetti di due o tre e incontrandosi facevano un cenno d'intesa; quelli dai capelli arruffati che dall'aspetto sembravano proprio vivere nelle fogne e che puzzavano in maniera terribile; e centinaia di altri...

  Si chiese come la Londra normale - la sua Londra - sarebbe apparsa a un alieno. E il pensiero lo rese spavaldo.

>   Continuando a camminare, cominciò a chiedere in giro:

  «Mi scusi, sto cercando un uomo di nome de Carabas e una ra­gazza che si chiama Porta. Sa dove posso trovarli?»

  La gente scuoteva il capo, distoglieva lo sguardo e si allontana­va, scusandosi.

  Richard fece un passo indietro e pestò il piede a qualcuno.

  Qualcuno che superava di parecchio i due metri ed era ricoper­to di ciuffetti di pelo rossiccio. Qualcuno i cui denti erano stati li­mati fino a diventare aculei appuntiti. Qualcuno che sollevò Richard con una mano grande quanto la testa di un montone e ne portò il viso cosi vicino alla bocca del suddetto qualcuno da farlo quasi vomitare.

  «Sono davvero spiacente» disse Richard. «Io - io sto cercando una ragazza di nome Porta. Sa dove...»

  Ma qualcuno lo lasciò ricadere sul pavimento e se ne andò.

  Una zaffata di odori di cucina si diffuse in tutto il piano, e Ri­chard, che era riuscito a dimenticare la fame (fin da quando aveva declinato l'offerta di una prelibata fetta di gatto arrosto, non sape­va più quante ore prima), si ritrovò con l'acquolina in bocca e i processi mentali avviati verso un lento e inesorabile blocco.

  La donna dai capelli color ferro che gestiva il banchetto di cibo li accanto non gli arrivava alla cintola. Quando Richard provò a rivolgerle la parola, scosse il capo e si appoggiò un dito sulle labbra. Non poteva parlare, o non parlava, o non voleva. Richard si mise a mimare un negoziato per dei panini con formaggio e insa­lata e per quello che alla vista e all'olfatto sembrava un bicchiere di limonata fatta in casa.

  Il cibo gli costò una biro e un pacchetto di fiammiferi che non ricordava di possedere.

  La donnina doveva essere convinta di avere fatto decisamente un buon affare, perché quando gli diede quello che aveva chiesto aggiunse anche un paio di biscotti alle noci.

  Ora Richard era in piedi in mezzo alla folla, ad ascoltare la musica - qualcuno, per un motivo che a lui sfuggiva completamen­te, stava cantando il testo di Greensleeves, una famosa canzone di epoca elisabettiana, sulle note di Yakkety-Yak - , a osservare il biz­zarro bazaar che gli si svolgeva intorno e a mangiare i panini.

  Mentre finiva l'ultimo boccone, si rese conto di non avere fatto per niente caso al sapore di quanto aveva appena ingurgitato, quin­di decise di rallentare il ritmo e di masticare i biscotti con calma. Sorseggiò la limonata, facendola durare il più possibile.

  «Le serve un uccello, signore?» domandò una voce briosa, molto vicina. «Ho corvi neri e corvi imperiali, cornacchie e storni. Uc­celli belli, saggi. Gustosi e saggi. Fantastici.»

  Richard rispose «No, grazie» e si voltò.

  L'insegna dipinta a mano che si trovava sopra il banco diceva

  «OLD BAILEY: UCCELLI E INFORMAZIONI»

  Tutto intorno c'erano altri cartelli più piccoli: «LO VUOI, LO SO!» e «NON TROVERAI STORNI PIÙ CARNOSI!!!!» e anche «QUAN­DO È TEMPO DI CORVO, È TEMPO DI OLD BAILEY!!» Richard si scoprì a ripensare all'uomo-sandwich che aveva visto appena arrivato a Londra, che se ne stava all'uscita della stazione della metropoli­tana di Leicester Square con un cartello davanti e uno sulla schie­na per esortare il mondo a una Minore Lussuria Con Meno Proteine, Uova, Carne, Fagioli, Formaggio e Vita Sedentaria. Uccelli saltellavano e sbatacchiavano le ali all'interno di gabbiette che pa­revano ricavate intrecciando antenne televisive.

  «Informazioni, allora?» continuò Old Bailey, ravvivando la par­lantina da venditore. «Mappe dei tetti? Storia? Notizie segrete e misteriose? Se non lo so io, probabilmente è meglio dimenticarse­ne. Ecco cosa dico sempre.»

  Il vecchio indossava ancora il cappotto piumato, ed era avvolto in corde e funi. Guardò Richard di sottecchi, poi inforcò gli oc­chiali che teneva legati al collo con uno spago e lo osservò attentamente attraverso le lenti.

  «Aspetta un attimo. Io ti conosco. Tu stavi col Marchese de Carabas. Sul tetto. Ricordi? Eh? Sono Old Bailey. Ti ricordi di me?» Allungò la mano e strinse quella di Richard, agitandola furiosamente su e giù.

  «In realtà» disse Richard «sto proprio cercando il Marchese. E la giovane signora di nome Porta. Penso che probabilmente siano insieme.»

  Il vecchio si mise a saltellare, cosa che provocò il distacco di alcune penne dal cappotto e un coro di rauca disapprovazione da parte dei numerosi uccelli che lo circondavano.

  «Informazioni! Informazioni!» annunciò alla stanza affollata. «Visto? Gliel'avevo detto. Diversificare, avevo detto. Diversifica­re! Non puoi passare la vita a vendere corvi per stufato - comun­que sanno sempre di ciabatte bollite. E sono cosi stupidi. Duri come il muro. Hai mai mangiato corvo?» Richard scosse il capo. Quella era una cosa di cui poteva essere certo, in ogni caso.

  «Cosa mi dai?» chiese Old Bailey.

  «Prego?» fece Richard, saltando goffamente da un banco all'al­tro.

  «Se ti do l'informazione, che me ne viene?»

  «Non ho soldi» rispose Richard. «E ho appena dato via la mia penna.»

  Cominciò a vuotarsi le tasche.

  «Ecco!» disse Old Bailey. «Quello!»

  «Il mio fazzoletto?» domandò Richard. Si trattava di un fazzo­letto non esattamente immacolato, regalo di zia Maude per il suo ultimo compleanno.

  Old Bailey lo afferrò e se lo agitò festante sopra la testa.

  «Non temere, ragazzo!» canticchiò trionfante. «La tua ricerca è alla fine! Vai laggiù, oltre quella porta. Non puoi non vederli. Stan­no facendo l'audizione.»

  Un corvo gracchiò malignamente.

  «Fatti i becchi tuoi» gli disse Old Bailey. Mentre a Richard dis­se: «Grazie della bandierina!»

  E prese a saltellare intorno alla bancarella, felice e contento, agitando il fazzoletto avanti e indietro.

  L'audizione? pensò Richard. Poi sorrise. Non aveva importan­za. La sua ricerca, come aveva detto il vecchio e pazzo uomo dei tetti, era alla fine.

  Si diresse verso il Reparto Alimentari.

  Lo stile, per le guardie del corpo, era tutto. A nessuna mancava una specialità di qualche tipo, e non vedevano l'ora di mostrarla al mondo.

  In quel momento Ruislip era intento all'ingaggio contro il Da­merino Senza Nome.

  Il Damerino Senza Nome somigliava un po' a un libertino dei primi anni del diciottesimo secolo, uno che non riuscendo a trova­re dei veri abiti da libertino avesse dovuto arrangiarsi con quanto recuperato a una fiera di beneficenza. Aveva il viso incipriato di bianco e le labbra dipinte.

  Ruislip, l'avversario di Damerino, era la rappresentazione del tipo di sogno che si potrebbe fare mentre ci si addormenta guar­dando un incontro di sumo alla televisione, con un disco di Bob Marley in sottofondo: un gigantesco Rasta che pareva in modo im­pressionante un bebé obeso e enorme.

  Stavano faccia a faccia, nel mezzo di un cerchio formato da spettatori e altre guardie del corpo.

  Nessuno dei due uomini muoveva un muscolo.

  Il Damerino superava Ruislip di una testa buona. D'altra parte, Ruislip pesava almeno quanto quattro damerini messi assieme, an­che se ognuno avesse portato una grossa valigia di pelle straripan­te di lardo.

  Si fissavano, senza mai interrompere il contatto visivo.

  Il Marchese de Carabas toccò la spalla di Porta e le fece un cen­no. Stava per accadere qualcosa.

  Due uomini, che si limitavano a guardarsi...

  Poi la testa del Damerino oscillò all'indietro, come fosse stato colpito al volto. Un piccolo livido rosso-violaceo gli comparve sulla guancia. Increspò le labbra e sbatté le ciglia.

  «Oh!» disse, quindi distese al massimo le labbra imbellettate, nell'agghiacciante parodia di un sorriso. Gesticolò.

  Ruislip barcollò e si portò le mani allo stomaco.

  Il Damerino Senza Nome sorrise in modo smaccatamente com­piaciuto, agitò le dita e mandò baci agli spettatori.

  Ruislip lo fissava con rabbia, mentre ripeteva l'assalto mentale.

  Le labbra del Damerino cominciarono a grondare sangue. L'oc­chio sinistro iniziò a gonfiarsi. Barcollò. Il pubblico rumoreggiava soddisfatto.

  «Non è terribile come
sembra» bisbigliò il Marchese a Porta.

  Il Damerino Senza Nome vacillò, all'improvviso. Cadde in gi­nocchio come se qualcuno lo stesse spingendo giù, e fini lungo e disteso sul pavimento. Poi sobbalzò, come se qualcuno l'avesse appena preso a calci, con forza, nello stomaco.

  Ruislip appariva trionfante. Gli spettatori applaudirono, educa­tamente. Il Damerino si contorceva, poi sputò sangue sulla segatu­ra che copriva il pavimento del reparto Pesce e Carne di Harrods.

  «Il prossimo» disse il Marchese.

  Il Damerino venne trascinato in un angolo da alcuni amici e prese a dare violentemente di stomaco.

  Anche il successivo aspirante guardia del corpo era più magro di Ruislip (all'incirca come due damerini e mezzo, che portassero però un'unica valigia piena di lardo in due). Era ricoperto di tatuaggi e vestito con abiti che sembravano realizzati unendo vecchi coprisedili per auto e tappetini di gomma. Aveva la testa rasata e scherniva il mondo con i denti marci.

  «Sono Varney» disse, si raschiò la gola e sputò sulla segatura un ammasso verdognolo. Si diresse sul ring.

  «Signori, quando siete pronti» disse il Marchese.

  Ruislip pestò ritmicamente i piedi nudi sul pavimento, uno-due, uno-due, e cominciò a fissare duro Varney. Sulla fronte di Varney si apri un piccolo cratere da cui usciva un rivolo di sangue che gli gocciolava nell'occhio. Varney ignorò la cosa, e parve invece con­centrarsi sul braccio destro.

  Lo sollevò lentamente, come si opponesse a una foltissima pres­sione. Poi scaraventò il pugno contro il pomo d'Adamo di Ruislip. Che precipitò al suolo con il rumore di una mezza tonnellata di fegato fresco lasciato cadere in una vasca da bagno.

  Varney ridacchiò.

  Con estrema lentezza, Ruislip si rimise in piedi.

  Varney si pulì il sangue dalla fronte e mostrò al mondo la sua bocca in rovina con un ghigno terrificante. «Vieni» disse. «Grasso segaiolo. Colpiscimi ancora.»

  «Quello promette bene» bofonchiò il Marchese.

  Porta rabbrividì. «Non ha un aspetto molto gradevole.»

  «Gradevole in una guardia del corpo» predicò il Marchese «è utile quanto la capacità di rigurgitare un'aragosta intera. Ha un aspetto pericoloso.»

 

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