Poscia ch’Ugon morì, de’ Giglj d’oro
Seguì l’usata insegna il fier drappello
Sotto Clotareo capitano egregio,
296 A cui, se nulla manca, è il nome regio.
XXXVIII.
Mille son di gravissima armatura:
Sono altrettanti i cavalier seguenti,
Di disciplina ai primi, e di natura,
300 E d’arme e di sembianza indifferenti;
Normandi tutti, e gli ha Roberto in cura,
Ch’è principe natío di quelle genti.
Poi duo pastor di popoli spiegaro
304 Le squadre lor, Guglielmo, ed Ademaro.
XXXIX.
L’uno e l’altro di lor, che ne’ divini
Uficj già trattò pio ministero,
Sotto l’elmo premendo i lunghi crini,
308 Esercita dell’arme or l’uso fero:
Dalla Città d’Orange, e dai confini
Quattrocento guerrier scelse il primiero.
Ma guida quei di Poggio in guerra l’altro,
312 Numero egual, nè men nell’arme scaltro.
XL.
Baldovin poscia in mostra addur si vede
Co’ Bolognesi suoi quei del germano:
Che le sue genti il pio fratel gli cede
316 Or ch’ei de’ Capitani è Capitano.
Il conte de’ Carnuti indi succede,
Potente di consiglio, e pro’ di mano.
Van con lui quattrocento: e triplicati
320 Conduce Baldovino in sella armati.
XLI.
Occupa Guelfo il campo a lor vicino,
Uom che all’alta fortuna agguaglia il merto.
Conta costui per genitor Latino
324 Degli avi Estensi un lungo ordine e certo.
Ma German di cognome e di domíno,
Nella gran casa de’ Guelfoni è inserto.
Regge Carintia, e presso l’Istro e ‘l Reno
328 Ciò che i prischi Suevi e i Reti avieno.
XLII.
A questo, che retaggio era materno,
Acquisti ei giunse gloriosi e grandi.
Quindi gente traea che prende a scherno
332 D’andar contra la morte, ov’ei comandi:
Usa a temprar ne’ caldi alberghi il verno,
E celebrar con lieti inviti i prandi.
Fur cinquemila alla partenza; e appena
336 (De’ Persi avanzo) il terzo or quì ne mena.
XLIII.
Seguia la gente poi candida e bionda,
Che tra i Franchi, e i Germani, e ‘l mar si giace,
Ove la Mosa, ed ove il Reno inonda,
340 Terra di biade e d’animai ferace:
E gl’Insulani lor, che d’alta sponda
Riparo fansi all’Ocean vorace:
L’Ocean, che non pur le merci e i legni,
344 Ma intere inghiotte le cittadi, e i regni.
XLIV.
Gli uni e gli altri son mille: e tutti vanno
Sotto un altro Roberto insieme a stuolo.
Maggior alquanto è lo squadron Britanno:
348 Guglielmo il regge al Re minor figliuolo.
Sono gl’Inglesi sagittarj, ed hanno
Gente con lor, ch’è più vicina al polo.
Questi dall’alte selve irsuti manda
352 La divisa dal mondo ultima Irlanda.
XLV.
Vien poi Tancredi; e non è alcun fra tanti
(Tranne Rinaldo) o feritor maggiore,
O più bel di maniere e di sembianti,
356 O più eccelso ed intrepido di core.
S’alcun’ombra di colpa i suoi gran vanti
Rende men chiari, è sol follia d’amore:
Nato fra l’arme, amor di breve vista,
360 Che si nutre d’affanni, e forza acquista.
XLVI.
È fama che quel dì che glorioso
Fe’ la rotta de’ Persi il popol Franco:
Poichè Tancredi alfin vittorioso
364 I fuggitivi di seguir fu stanco;
Cercò di refrigerio, e di riposo
All’arse labbia, al travagliato fianco:
E trasse, ove invitollo al rezzo estivo,
368 Cinto di verdi seggj, un fonte vivo.
XLVII.
Quivi a lui d’improvviso una donzella,
Tutta, fuor che la fronte, armata apparse.
Era Pagana, e là venuta anch’ella
372 Per l’istessa cagion di ristorarse.
Egli mirolla, ed ammirò la bella
Sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse.
Oh maraviglia! Amor ch’appena è nato,
376 Già grande vola, e già trionfa armato.
XLVIII.
Ella d’elmo coprissi, e se non era
Ch’altri quivi arrivar, ben l’assaliva.
Partì dal vinto suo la donna altera,
380 Ch’è per necessità sol fuggitiva;
Ma l’immagine sua bella e guerriera
Tale ei serbò nel cor, qual’essa è viva.
E sempre ha nel pensiero e l’atto e ‘l loco,
384 In che la vide, esca continua al foco.
XLIX.
E ben nel volto suo la gente accorta
Legger potria: questi arde, e fuor di spene;
Così vien sospiroso, e così porta
388 Basse le ciglia, e di mestizia piene.
Gli ottocento a cavallo, a cui fa scorta,
Lasciar le piagge di campagna amene;
Pompa maggior della Natura, e i colli
392 Che vagheggia il Tirren fertili e molli.
L.
Venian dietro ducento in Grecia nati,
Che son quasi di ferro in tutto scarchi:
Pendon spade ritorte all’un de’ lati:
396 Suonano al tergo lor faretre ed archi:
Asciutti hanno i cavalli al corso usati,
Alla fatica invitti, al cibo parchi:
Nell’assalir son pronti, e nel ritrarsi;
400 E combatton fuggendo erranti e sparsi.
LI.
Tazio regge la schiera; e sol fu questi
Che, Greco, accompagnò l’arme Latine.
Oh vergogna, o misfatto! or non avesti
404 Tu Grecia quelle guerre a te vicine?
E pur quasi a spettacolo sedesti,
Lenta aspettando de’ grand’atti il fine.
Or se tu sei vil serva, è il tuo servaggio
408 (Non ti lagnar) giustizia, e non oltraggio.
LII.
Squadra d’ordine estrema ecco vien poi,
Ma d’onor prima, e di valore e d’arte.
Son quì gli avventurieri invitti eroi,
412 Terror dell’Asia, e folgori di Marte.
Taccia Argo i Mini, e taccia Artù que’ suoi
Erranti, che di sogni empion le carte:
Ch’ogni antica memoria appo costoro
416 Perde: or qual duce fia degno di loro?
LIII.
Dudon di Consa è il duce; e perchè duro
Fu il giudicar di sangue e di virtute,
Gli altri sopporsi a lui concordi furo,
420 Ch’avea più cose fatte, e più vedute.
Ei di virilità grave e maturo
Mostra in fresco vigor chiome canute.
Mostra, quasi d’onor vestigj degni,
424 Di non brutte ferite impressi segni.
LIV.
Eustazio è poi fra’ primi: e i proprj pregj
Illustre il fanno, e più il fratel Buglione.
Gernando v’è, nato di Re Norvegi,
428 Che scettri vanta, e titoli, e corone.
Ruggier di Balnavilla infra gli egregj,
La vecchia fama, ed Engerlan ripone.
E celebrati son fra’ più gagliardi
432 Un Gentonio, un Rambaldo e duo Gherardi.
LV.
Son fra lodati Ubaldo anco, e Rosmondo,
Del gran Ducato di Lincastro erede.
Non fia ch’Obizo il
Tosco aggravi al fondo
436 Chi fa delle memorie avare prede:
Nè i tre fratei Lombardi al chiaro mondo
Involi, Achille, Sforza, e Palamede:
O ‘l forte Otton, che conquistò lo scudo,
440 In cui dall’angue esce il fanciullo ignudo.
LVI.
Nè Guasco, nè Ridolfo addietro lasso:
Nè l’un nè l’altro Guido, ambo famosi.
Non Eberardo, e non Gernier trapasso
444 Sotto silenzio ingratamente ascosi.
Ove voi me, di numerar già lasso,
Gildippe, ed Odoardo amanti e sposi
Rapite? o nella guerra anco consorti,
448 Non sarete disgiunti, ancor che morti.
LVII.
Nelle scuole d’Amor che non s’apprende?
Ivi si fe’ costei guerriera ardita.
Va sempre affissa al caro fianco, e pende
452 Da un fato solo l’una e l’altra vita.
Colpo ch’ad un sol noccia unqua non scende,
Ma indiviso è il dolor d’ogni ferita.
E spesso è l’un ferito, e l’altro langue:
456 E versa l’alma quel, se questa il sangue.
LVIII.
Ma il fanciullo Rinaldo e sovra questi,
E sovra quanti in mostra eran condutti,
Dolcemente feroce alzar vedresti
460 La regal fronte, e in lui mirar sol tutti.
L’età precorse, e la speranza: e presti
Pareano i fior, quando n’usciro i frutti.
Se ‘l miri fulminar nell’arme avvolto,
464 Marte lo stimi: Amor, se scopre il volto.
LIX.
Lui nella riva d’Adige produsse
A Bertoldo Sofia, Sofia la bella
A Bertoldo il possente: e pria che fusse
468 Tolto quasi il bambin dalla mammella,
Matilda il volle, e nutricollo, e instrusse
Nell’arti regie; e sempre ei fu con ella,
Sin ch’invaghì la giovinetta mente
472 La tromba che s’udia dall’Oriente.
LX.
Allor (nè pur tre lustri avea finiti)
Fuggì soletto, e corse strade ignote:
Varcò l’Egeo, passò di Grecia i liti,
476 Giunse nel campo in region remote.
Nobilissima fuga, e che l’imiti
Ben degna alcun magnanimo nipote.
Tre anni son ch’è in guerra: e intempestiva
480 Molle piuma del mento appena usciva.
LXI.
Passati i cavalieri, in mostra viene
La gente a piedi, ed è Raimondo avanti.
Reggea Tolosa, e scelse infra Pirene,
484 E fra Garona, e l’Ocean suoi fanti.
Son quattromila, e ben armati, e bene
Instrutti, usi al disagio, e tolleranti.
Buona è la gente, e non può da più dotta,
488 O da più forte guida esser condotta.
LXII.
Ma cinquemila Stefano d’Ambuosa
E di Blesse, e di Turs in guerra adduce.
Non è gente robusta o faticosa,
492 Sebben tutta di ferro ella riluce.
La terra molle e lieta e dilettosa,
Simili a se gli abitator produce.
Impeto fan nelle battaglie prime;
496 Ma di leggier poi langue, e si reprime.
LXIII.
Alcasto il terzo vien, qual presso a Tebe
Già Capaneo, con minaccioso volto.
Sei mila Elvezj, audace e fiera plebe,
500 Dagli Alpini castelli avea raccolto:
Che ‘l ferro uso a far solchi, e franger glebe,
In nove forme, e in più degne opre ha volto,
E con la man, che guardò rozzi armenti,
504 Par che i Regi sfidar nulla paventi.
LXIV.
Vedi appresso spiegar l’alto vessillo
Col diadema di Piero, e con le chiavi.
Quì settemila aduna il buon Cammillo
508 Pedoni, d’arme rilucenti e gravi:
Lieto, ch’a tanta impresa il ciel sortillo,
Ove rinnovi il prisco onor degli avi:
O mostri almen ch’alla virtù Latina,
512 O nulla manca, o sol la disciplina.
LXV.
Ma già tutte le squadre eran con bella
Mostra passate, e l’ultima fu questa:
Quando Goffredo i maggior duci appella,
516 E la sua mente a lor fa manifesta.
Come appaja diman l’alba novella
Vuo’ che l’oste s’invii leggiera e presta:
Sicch’ella giunga alla città sacrata,
520 Quanto è possibil più, meno aspettata.
LXVI.
Preparatevi dunque ed al viaggio
Ed alla pugna, e alla vittoria ancora.
Questo ardito parlar d’uom così saggio
524 Sollecita ciascuno, e l’avvalora.
Tutti d’andar son pronti al novo raggio,
E impazienti in aspettar l’aurora.
Ma ‘l provvido Buglion senza ogni tema
528 Non è però, benchè nel cor la prema.
LXVII.
Perch’egli avea certe novelle intese,
Che s’è d’Egitto il Re già posto in via
In verso Gaza, bello e forte arnese
532 Da fronteggiare i regni di Soria.
Nè creder può, che l’uomo, a fere imprese
Avvezzo sempre, or lento in ozio stia;
Ma d’averlo, aspettando, aspro nemico,
536 Parla al fedel suo messaggiero Enrico:
LXVIII.
Sovra una lieve saettía, tragitto
Vuo’ che tu faccia nella Greca terra.
Ivi giunger dovea (così m’ha scritto
540 Chi mai per uso in avvisar non erra)
Un giovine regal, d’animo invitto,
Ch’a farsi vien nostro compagno in guerra:
Prence è de’ Dani, e mena un grande stuolo
544 Sin dai paesi sottoposti al polo.
LXIX.
Ma perchè ‘l Greco Imperator fallace
Seco forse userà le solite arti,
Per far ch’o torni indietro, o ‘l corso audace
548 Torca in altre da noi lontane parti;
Tu, nunzio mio, tu, consiglier verace,
In mio nome il disponi a ciò che parti
Nostro e suo bene: e dì che tosto vegna;
552 Chè di lui fora ogni tardanza indegna.
LXX.
Non venir seco tu; ma resta appresso
Al Re de’ Greci a procurar l’ajuto;
Che già più d’una volta a noi promesso,
556 È per ragion di patto anco dovuto.
Così parla, e l’informa; e poichè ‘l messo
Le lettre ha di credenza, e di saluto;
Toglie, affrettando il suo partir, congedo:
560 E tregua fa co’ suoi pensier Goffredo.
LXXI.
Il dì seguente, allor ch’aperte sono
Del lucido Oriente al Sol le porte,
Di trombe udissi, e di tamburi un suono,
564 Ond’al cammino ogni guerrier s’esorte.
Non è sì grato ai caldi giorni il tuono,
Che speranza di pioggia al mondo apporte,
Come fu caro alle feroci genti
568 L’altero suon de’ bellici instrumenti.
LXXII.
Tosto ciascun, da gran desio compunto,
Veste le membra delle usate spoglie:
E tosto appar di tutte l’arme in punto:
572 Tosto sotto i suoi Duci ogn’uom s’accoglie.
E l’ordinato esercito congiunto
Tutte le sue bandiere al vento scioglie;
E nel vessillo imperiale e grande
576 La trionfante Croce al ciel si spande.
LXXIII.
Intanto il Sol, che de’ celesti campi
Va più sempre avanzando, e
in alto ascende,
L’armi percote, e ne trae fiamme e lampi
580 Tremuli e chiari, onde le viste offende.
L’aria par di faville intorno avvampi,
E quasi d’alto incendio in forma splende;
E co’ feri nitriti il suono accorda
584 Del ferro scosso, e le campagne assorda.
LXXIV.
Il Capitan, che da’ nemici agguati
Le schiere sue d’assicurar desia,
Molti a cavallo leggiermente armati
588 A scoprir il paese intorno invia.
E innanzi i guastatori avea mandati,
Da cui si debba agevolar la via,
E i voti luoghi empire, e spianar gli erti:
592 E da cui siano i chiusi passi aperti.
LXXV.
Non è gente Pagana insieme accolta,
Non muro cinto di profonda fossa,
Non gran torrente, o monte alpestre, o folta
596 Selva, che ‘l lor viaggio arrestar possa.
Così degli altri fiumi il Re talvolta,
Quando superbo oltra misura ingrossa,
Sovra le sponde ruinoso scorre:
600 Nè cosa è mai che gli s’ardisca opporre.
LXXVI.
Sol di Tripoli il Re, che ‘n ben guardate
Mura, genti, tesori, ed arme serra,
Forse le schiere Franche avria tardate;
604 Ma non osò di provocarle in guerra.
Lor con messi, e con doni anco placate
Ricettò volontario entro la terra:
E ricevè condizion di pace,
608 Siccome imporle al pio Goffredo piace.
LXXVII.
Quì del Monte Seir, ch’alto e sovrano
Dall’Oriente alla Cittade è presso,
Gran turba scese di fedeli al piano,
612 D’ogni età mescolata, e d’ogni sesso.
Portò suoi doni al vincitor Cristiano:
Godea in mirarlo, e in ragionar con esso:
Stupia dell’armi peregrine: e guida
616 Ebbe da lor Goffredo amica e fida.
Gran turba scese di Fedeli al piano,
D’ogni età mescolata, e d’ogni sesso.
LXXVIII.
Conduce ei sempre alle marittime onde
Vicino il campo per diritte strade;
Sapendo ben che le propinque sponde
620 L’amica armata costeggiando rade:
La qual può far che tutto il campo abbonde
De’ necessarj arnesi; e che le biade
Ogn’isola de’ Greci a lui sol mieta:
624 E Scio pietrosa gli vendemmi, e Creta.
LXXIX.
Geme il vicino mar sotto l’incarco
Dell’alte navi, e de’ più levi pini:
Sicchè non s’apre omai sicuro varco
628 Nel mar Mediterraneo ai Saracini.
Ch’oltre a quei c’ha Giorgio armati, e Marco
Ne’ Viniziani, e Liguri confini;
Altri Inghilterra, e Francia, ed altri Olanda,
632 E la fertil Sicilia altri ne manda.
LXXX.
E questi che son tutti insieme uniti
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