Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 111

by Torquato Tasso


  Con saldissimi laccj in un volere,

  S’eran carchi, e provvisti in varj liti

  636 Di ciò ch’è d’uopo alle terrestri schiere:

  Le quai trovando liberi e sforniti

  I passi de’ nemici alle frontiere;

  In corso velocissimo sen vanno

  640 Là ‘ve Cristo soffrì mortale affanno.

  LXXXI.

  Ma precorsa è la fama apportatrice

  De’ veraci romori, e de’ bugiardi:

  Ch’unito è il campo vincitor felice:

  644 Che già s’è mosso, e che non è chi ‘l tardi:

  Quante e quai sian le squadre ella ridice:

  Narra il nome, e ‘l valor de’ più gagliardi:

  Narra i lor vanti, e con terribil faccia

  648 Gli usurpatori di Sion minaccia.

  LXXXII.

  E l’aspettar del male è mal peggiore,

  Forse, che non parrebbe il mal presente;

  Pende ad ogn’aura incerta di romore

  652 Ogni orecchia sospesa, ed ogni mente:

  E un confuso bisbiglio, entro e di fuore,

  Trascorre i campi, e la città dolente.

  Ma il vecchio Re ne’ già vicin periglj

  656 Volge nel dubbio cor feri consiglj.

  LXXXIII.

  Aladin detto è il Re, che di quel regno

  Novo signor, vive in continua cura.

  Uom già crudel; ma ‘l suo feroce ingegno

  660 Pur mitigato avea l’età matura.

  Egli, che de’ Latini udì il disegno

  C’han d’assalir di sua città le mura,

  Giunge al vecchio timor novi sospetti;

  664 E de’ nemici pave, e de’ soggetti.

  LXXXIV.

  Perocchè dentro a una città commisto

  Popolo alberga, di contraria fede,

  La debil parte e la minore in Cristo,

  668 La grande e forte in Macometto crede:

  Ma quando il Re fe’ di Sion l’acquisto,

  E vi cercò di stabilir la sede,

  Scemò i publici pesi a’ suoi Pagani;

  672 Ma più gravonne i miseri Cristiani.

  LXXXV.

  Questo pensier, la ferità nativa

  Che dagli anni sopita, e fredda langue,

  Irritando inasprisce, e la ravviva

  676 Sì, ch’assetata è più che mai di sangue.

  Tal fero torna alla stagione estiva

  Quel che parve nel giel piacevol angue:

  Così leon domestico riprende

  680 L’innato suo furor, s’altri l’offende.

  LXXXVI.

  Veggio (dicea) della letizia nova

  Veraci segni in questa turba infida.

  Il danno universal solo a lei giova:

  684 Sol nel pianto comun par ch’ella rida.

  E forse insidie e tradimenti or cova,

  Rivolgendo fra sè come m’uccida:

  O come al mio nemico, e suo consorte

  688 Popolo, occultamente apra le porte.

  LXXXVII.

  Ma nol farà; prevenirò questi empj

  Disegni loro, e sfogherommi appieno.

  Gli ucciderò, faronne acerbi scempj:

  692 Svenerò i figlj alle lor madri in seno:

  Arderò loro alberghi, e insieme i tempj.

  Questi i debiti roghi ai morti fieno,

  E su quel lor sepolcro, in mezzo ai voti,

  696 Vittime pria farò de’ Sacerdoti.

  LXXXVIII.

  Così l’iniquo fra suo cor ragiona;

  Pur non segue pensier sì mal concetto.

  Ma s’a quegli innocenti egli perdona,

  700 È di viltà, non di pietade effetto.

  Chè s’un timor a incrudelir lo sprona,

  Il ritien più potente altro sospetto:

  Troncar le vie d’accordo, e de’ nemici

  704 Troppo teme irritar l’arme vittrici.

  LXXXIX.

  Tempra dunque il fellon la rabbia insana:

  Anzi altrove pur cerca ove la sfoghi;

  I rustici edifizj abbatte e spiana,

  708 E dà in preda alle fiamme i culti luoghi;

  Parte alcuna non lascia integra o sana,

  Ove il Franco si pasca, ove s’alloghi.

  Turba le fonti e i rivi, e le pure onde

  712 Di veneni mortiferi confonde.

  XC.

  Spietatamente è cauto: e non obblia

  Di rinforzar Gerusalem frattanto.

  Da tre lati fortissima era pria:

  716 Sol verso Borea è men sicura alquanto.

  Ma da’ primi sospetti ei le munia

  D’alti ripari il suo men forte canto;

  E v’accogliea gran quantitade, in fretta,

  720 Di gente mercenaria e di soggetta.

  Canto secondo

  ARGOMENTO.

  Novo incanto fa Ismen, che vano uscito,

  Vuole Aladin che muoja ogni Cristiano.

  La pudíca Sofronia e Olindo ardito,

  Perchè cessi il furor del Re Pagano,

  Voglion morir. Clorinda, il caso udito,

  Non lascia lor più de’ ministri in mano.

  Argante, poi che quel ch’Alete dice

  Non cura il Franco, a lui guerra aspra indice.

  CANTO SECONDO.

  Mentre il Tiranno s’apparecchia all’armi,

  Soletto Ismeno un dì gli s’appresenta:

  Ismen, che trar di sotto ai chiusi marmi

  4 Può corpo estinto, e far che spiri e senta:

  Ismen, che al suon de’ mormoranti carmi

  Fin nella reggia sua Pluto spaventa,

  E i suoi Demon negli empj uficj impiega

  8 Pur come servi, e gli discioglie, e lega.

  II.

  Questi or Macone adora, e fu Cristiano,

  Ma i primi riti anco lasciar non puote;

  Anzi sovente in uso empio e profano

  12 Confonde le due leggi a sè mal note.

  Ed or dalle spelonche, ove, lontano

  Dal volgo, esercitar suol l’arti ignote,

  Vien nel pubblico rischio al suo Signore;

  16 A Re malvagio consiglier peggiore.

  III.

  Signor, dicea, senza tardar sen viene

  Il vincitor esercito temuto;

  Ma facciam noi ciò che a noi far conviene;

  20 Darà il Ciel, darà il mondo ai forti ajuto.

  Ben tu di Re, di duce hai tutte piene

  Le parti, e lunge hai visto e provveduto.

  S’empie in tal guisa ogn’altro i propri uficj,

  24 Tomba fia questa terra a’ tuoi nemici.

  IV.

  Io quanto a me ne vengo, e del periglio,

  E dell’opre compagno ad aitarte.

  Ciò che può dar di vecchia età consiglio,

  28 Tutto prometto, e ciò che magica arte.

  Gli Angeli che dal Cielo ebbero esiglio

  Costringerò delle fatiche a parte.

  Ma dond’io voglia incominciar gl’incanti,

  32 E con quai modi, or narrerotti avanti.

  V.

  Nel tempio de’ Cristiani occulto giace

  Un sotterraneo altare; e quivi è il volto

  Di colei, che sua diva, e madre face,

  36 Quel volgo, del suo Dio nato e sepolto.

  Dinanzi al simulacro accesa face

  Continua splende: egli è in un velo avvolto;

  Pendono intorno, in lungo ordine, i voti

  40 Che vi portaro i creduli devoti.

  VI.

  Or questa effigie lor, di là rapita,

  Voglio che tu di propria man trasporte,

  E la riponga entro la tua Meschita:

  44 Io poscia incanto adoprerò sì forte,

  Ch’ognor, mentre ella quì fia custodita,

  Sarà fatal custodia a queste porte;

  Tra mura inespugnabili il tuo impero

  48 Sicuro fia, per novo alto mistero.

  VII.

  Sì disse, e
‘l persuase: e impaziente

  Il Re sen corse alla magion di Dio,

  E sforzò i Sacerdoti, e irreverente

  52 Il casto simulacro indi rapío;

  E portollo a quel tempio, ove sovente

  S’irrita il Ciel col folle culto e rio.

  Nel profan loco, e su la sacra imago

  56 Susurrò poi le sue bestemmie il Mago.

  VIII.

  Ma come apparse in ciel l’alba novella,

  Quel, cui l’immondo tempio in guardia è dato,

  Non rivide l’immagine, dov’ella

  60 Fu posta, e invan cerconne in altro lato.

  Tosto n’avvisa il Re, ch’alla novella

  Di lui si mostra fieramente irato:

  Ed immagina ben ch’alcun fedele

  64 Abbia fatto quel furto, e che se ‘l cele.

  IX.

  O fu di man fedele opra furtiva,

  O pur il Ciel quì sua potenza adopra:

  Che di colei ch’è sua Regina e diva,

  68 Sdegna che loco vil l’immagin copra:

  Ch’incerta fama è ancor, se ciò s’ascriva

  Ad arte umana, od a mirabil’opra.

  Ben è pietà, che la pietade e ‘l zelo

  72 Uman cedendo, autor sen creda il Cielo.

  X.

  Il Re ne fa con importuna inchiesta

  Ricercar ogni chiesa, ogni magione:

  Ed a chi gli nasconde, o manifesta

  76 Il furto o il reo, gran pene, e premj impone.

  E’l Mago di spiarne anco non resta

  Con tutte l’arti il ver; ma non s’appone:

  Chè ‘l Cielo (opra sua fosse, o fosse altrui)

  80 Celolla, ad onta degl’incanti, a lui.

  XI.

  Ma poichè ‘l Re crudel vide occultarse

  Quel che peccato de’ fedeli ei pensa;

  Tutto in lor d’odio infellonissi, ed arse

  84 D’ira, e di rabbia immoderata immensa.

  Ogni rispetto obblia; vuol vendicarse,

  (Segua che puote) e sfogar l’alma accensa:

  Morrà, dicea, non andrà l’ira a voto,

  88 Nella strage comune il ladro ignoto.

  XII.

  Purchè ‘l reo non si salvi, il giusto pera

  E l’innocente. Ma qual giusto io dico?

  È colpevol ciascun, nè in loro schiera

  92 Uom fu giammai del nostro nome amico.

  S’anima v’è nel novo error sincera,

  Basti a novella pena un fallo antico.

  Su, su, fedeli miei, su via prendete

  96 Le fiamme, e ‘l ferro, ardete, ed uccidete.

  XIII.

  Così parla alle turbe, e se n’intese

  La fama tra’ fedeli immantinente,

  Ch’attoniti restar, sì gli sorprese

  100 Il timor della morte omai presente.

  E non è chi la fuga o le difese,

  Lo scusare o ‘l pregare ardisca, o tente;

  Ma le timide genti e irresolute,

  104 Donde meno speraro ebber salute.

  XIV.

  Vergine era fra lor di già matura

  Verginità, d’alti pensieri e regj:

  D’alta beltà, ma sua beltà non cura,

  108 O tanto sol quant’onestà sen fregi.

  È il suo pregio maggior, che tra le mura

  D’angusta casa asconde i suoi gran pregj:

  E de’ vagheggiatori ella s’invola

  112 Alle lodi, agli sguardi, inculta e sola.

  XV.

  Pur guardia esser non può che’n tutto celi

  Beltà degna ch’appaja, e che s’ammiri:

  Nè tu il consenti, Amor; ma la riveli

  116 D’un giovenetto ai cupidi desiri.

  Amor, ch’or cieco, or Argo, ora ne veli

  Di benda gli occhj, ora ce gli apri e giri;

  Tu per mille custodie entro ai più casti

  120 Verginei alberghi il guardo altrui portasti.

  XVI.

  Colei Sofronia, Olindo egli s’appella,

  D’una cittade entrambi, e d’una fede.

  Ei che modesto è sì, com’essa è bella,

  124 Brama assai, poco spera, e nulla chiede;

  Nè sa scoprirsi, o non ardisce: ed ella

  O lo sprezza, o nol vede, o non s’avvede.

  Così finora il misero ha servito

  128 O non visto, o mal noto, o mal gradito.

  XVII.

  S’ode l’annunzio intanto, e che s’appresta

  Miserabile strage al popol loro.

  A lei che generosa è quanto onesta,

  132 Viene in pensier come salvar costoro.

  Move fortezza il gran pensier; l’arresta

  Poi la vergogna, e ‘l virginal decoro.

  Vince fortezza, anzi s’accorda, e face

  136 Sè vergognosa, e la vergogna audace.

  XVIII.

  La vergine tra ‘l volgo uscì soletta,

  Non coprì sue bellezze, e non l’espose;

  Raccolse gli occhj, andò nel vel ristretta,

  140 Con ischive maniere, e generose.

  Non sai ben dir, s’adorna, o se negletta,

  Se caso, od arte il bel volto compose;

  Di Natura, d’Amor, de’ Cieli amici

  144 Le negligenze sue sono artificj.

  XIX.

  Mirata da ciascun passa, e non mira

  L’altera donna, e innanzi al Re sen viene;

  Nè perchè irato il veggia, il piè ritira,

  148 Ma il fero aspetto intrepida sostiene.

  Vengo, Signor (gli disse) e ‘ntanto l’ira

  Prego sospenda, e ‘l tuo popolo affrene:

  Vengo a scoprirti, e vengo a darti preso

  152 Quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso.

  XX.

  All’onesta baldanza, all’improvviso

  Folgorar di bellezze altere e sante,

  Quasi confuso il Re, quasi conquiso,

  156 Frenò lo sdegno, e placò il fier sembiante.

  S’egli era d’alma, o se costei di viso

  Severa manco, ei diveniane amante;

  Ma ritrosa beltà ritroso core

  160 Non prende: e sono i vezzi esca d’Amore.

  XXI.

  Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto,

  S’amor non fu, che mosse il cor villano.

  Narra (ei le dice) il tutto: ecco io commetto,

  164 Che non s’offenda il popol tuo Cristiano.

  Ed ella: il reo si trova al tuo cospetto:

  Opra è il furto, Signor, di questa mano:

  Io l’immagine tolsi: io son colei,

  168 Che tu ricerchi, e me punir tu dei.

  XXII.

  Così al pubblico fato il capo altero

  Offerse, e ‘l volle in se sola raccorre.

  Magnanima menzogna! or quando è il vero

  172 Sì bello, che si possa a te preporre?

  Riman sospeso, e non sì tosto il fero

  Tiranno all’ira, come suol, trascorre.

  Poi la richiede: Io vuo’ che tu mi scopra

  176 Chi diè consiglio, e chi fu insieme all’opra.

  XXIII.

  Non volli far della mia gloria altrui

  Nè pur minima parte, ella gli dice;

  Sol di me stessa io consapevol fui,

  180 Sol consigliera, e sola esecutrice.

  Dunque in te sola, ripigliò colui,

  Caderà l’ira mia vendicatrice.

  Disse ella: è giusto; esser a me conviene,

  184 Se fui sola all’onor, sola alle pene.

  XXIV.

  Quì comincia il Tiranno a risdegnarsi;

  Poi le dimanda: Ov’hai l’imago ascosa?

  Non la nascosi, a lui risponde, io l’arsi;

  188 E l’arderla stimai laudabil cosa.

  Così almen non potrà più violarsi

  Per man de’ miscredenti ingiuriosa.

  Signore, o chiedi il furto, o ‘l ladro chiedi;

  192 Quel non
vedrai in eterno, e questo il vedi.

  XXV.

  Benchè nè furto è il mio, nè ladra io sono;

  Giusto è ritor ciò ch’a gran torto è tolto.

  Or questo udendo, in minaccevol suono

  196 Freme il Tiranno; e ‘l fren dell’ira è sciolto.

  Non speri più di ritrovar perdono

  Cor pudíco, alta mente, o nobil volto:

  E indarno Amor, contra lo sdegno crudo,

  200 Di sua vaga bellezza a lei fa scudo.

  XXVI.

  Presa è la bella donna, e incrudelito

  Il Re la danna entro un incendio a morte.

  Già ‘l velo, e ‘l casto manto è a lei rapito;

  204 Stringon le molli braccia aspre ritorte.

  Ella si tace; e in lei non sbigottito,

  Ma pur commosso alquanto è il petto forte;

  E smarrisce il bel volto in un colore,

  208 Che non è pallidezza, ma candore.

  XXVII.

  Divulgossi il gran caso, e quivi tratto

  Già ‘l popol s’era: Olindo anco v’accorse;

  Dubbia era la persona, e certo il fatto,

  212 Venia, che fosse la sua donna in forse.

  Come la bella prigionera in atto

  Non pur di rea, ma di dannata ei scorse;

  Come i ministri al duro uficio intenti

  216 Vide, precipitoso urtò le genti.

  XXVIII.

  Al Re gridò: non è, non è già rea

  Costei del furto, e per follia sen vanta.

  Non pensò, non ardì, nè far potea

  220 Donna sola e inesperta opra cotanta.

  Come ingannò i custodi? e della Dea

  Con qual’arte involò l’immagin santa?

  Se ‘l fece, il narri. Io l’ho, Signor, furata.

  224 Ahi tanto amò la non amante amata!

  XXIX.

  Soggiunse poscia: io là, donde riceve

  L’alta vostra Meschita e l’aura e ‘l die;

  Di notte ascesi, e trapassai per breve

  228 Foro, tentando inaccessibil vie.

  A me l’onor, la morte a me si deve;

  Non usurpi costei le pene mie.

  Mie son quelle catene, e per me questa

  232 Fiamma s’accende, e ‘l rogo a me s’appresta.

  XXX.

  Alza Sofronia il viso, e umanamente

  Con occhj di pietade in lui rimira.

  A chè ne vieni, o misero innocente?

  236 Qual consiglio o furor, ti guida o tira?

  Non son’io dunque senza te possente

  A sostener ciò che d’un uom può l’ira?

  Ho petto anch’io ch’ad una morte crede

  240 Di bastar solo, e compagnia non chiede.

  XXXI.

  Parla così all’amante, e nol dispone

  Sì ch’egli si disdica, e pensier mute.

  O spettacolo grande, ove a tenzone

  244 Sono amore e magnanima virtute!

  Ove la morte al vincitor si pone

  In premio; e ‘l mal del vinto è la salute!

 

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