Jerusalem Delivered
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Con saldissimi laccj in un volere,
S’eran carchi, e provvisti in varj liti
636 Di ciò ch’è d’uopo alle terrestri schiere:
Le quai trovando liberi e sforniti
I passi de’ nemici alle frontiere;
In corso velocissimo sen vanno
640 Là ‘ve Cristo soffrì mortale affanno.
LXXXI.
Ma precorsa è la fama apportatrice
De’ veraci romori, e de’ bugiardi:
Ch’unito è il campo vincitor felice:
644 Che già s’è mosso, e che non è chi ‘l tardi:
Quante e quai sian le squadre ella ridice:
Narra il nome, e ‘l valor de’ più gagliardi:
Narra i lor vanti, e con terribil faccia
648 Gli usurpatori di Sion minaccia.
LXXXII.
E l’aspettar del male è mal peggiore,
Forse, che non parrebbe il mal presente;
Pende ad ogn’aura incerta di romore
652 Ogni orecchia sospesa, ed ogni mente:
E un confuso bisbiglio, entro e di fuore,
Trascorre i campi, e la città dolente.
Ma il vecchio Re ne’ già vicin periglj
656 Volge nel dubbio cor feri consiglj.
LXXXIII.
Aladin detto è il Re, che di quel regno
Novo signor, vive in continua cura.
Uom già crudel; ma ‘l suo feroce ingegno
660 Pur mitigato avea l’età matura.
Egli, che de’ Latini udì il disegno
C’han d’assalir di sua città le mura,
Giunge al vecchio timor novi sospetti;
664 E de’ nemici pave, e de’ soggetti.
LXXXIV.
Perocchè dentro a una città commisto
Popolo alberga, di contraria fede,
La debil parte e la minore in Cristo,
668 La grande e forte in Macometto crede:
Ma quando il Re fe’ di Sion l’acquisto,
E vi cercò di stabilir la sede,
Scemò i publici pesi a’ suoi Pagani;
672 Ma più gravonne i miseri Cristiani.
LXXXV.
Questo pensier, la ferità nativa
Che dagli anni sopita, e fredda langue,
Irritando inasprisce, e la ravviva
676 Sì, ch’assetata è più che mai di sangue.
Tal fero torna alla stagione estiva
Quel che parve nel giel piacevol angue:
Così leon domestico riprende
680 L’innato suo furor, s’altri l’offende.
LXXXVI.
Veggio (dicea) della letizia nova
Veraci segni in questa turba infida.
Il danno universal solo a lei giova:
684 Sol nel pianto comun par ch’ella rida.
E forse insidie e tradimenti or cova,
Rivolgendo fra sè come m’uccida:
O come al mio nemico, e suo consorte
688 Popolo, occultamente apra le porte.
LXXXVII.
Ma nol farà; prevenirò questi empj
Disegni loro, e sfogherommi appieno.
Gli ucciderò, faronne acerbi scempj:
692 Svenerò i figlj alle lor madri in seno:
Arderò loro alberghi, e insieme i tempj.
Questi i debiti roghi ai morti fieno,
E su quel lor sepolcro, in mezzo ai voti,
696 Vittime pria farò de’ Sacerdoti.
LXXXVIII.
Così l’iniquo fra suo cor ragiona;
Pur non segue pensier sì mal concetto.
Ma s’a quegli innocenti egli perdona,
700 È di viltà, non di pietade effetto.
Chè s’un timor a incrudelir lo sprona,
Il ritien più potente altro sospetto:
Troncar le vie d’accordo, e de’ nemici
704 Troppo teme irritar l’arme vittrici.
LXXXIX.
Tempra dunque il fellon la rabbia insana:
Anzi altrove pur cerca ove la sfoghi;
I rustici edifizj abbatte e spiana,
708 E dà in preda alle fiamme i culti luoghi;
Parte alcuna non lascia integra o sana,
Ove il Franco si pasca, ove s’alloghi.
Turba le fonti e i rivi, e le pure onde
712 Di veneni mortiferi confonde.
XC.
Spietatamente è cauto: e non obblia
Di rinforzar Gerusalem frattanto.
Da tre lati fortissima era pria:
716 Sol verso Borea è men sicura alquanto.
Ma da’ primi sospetti ei le munia
D’alti ripari il suo men forte canto;
E v’accogliea gran quantitade, in fretta,
720 Di gente mercenaria e di soggetta.
Canto secondo
ARGOMENTO.
Novo incanto fa Ismen, che vano uscito,
Vuole Aladin che muoja ogni Cristiano.
La pudíca Sofronia e Olindo ardito,
Perchè cessi il furor del Re Pagano,
Voglion morir. Clorinda, il caso udito,
Non lascia lor più de’ ministri in mano.
Argante, poi che quel ch’Alete dice
Non cura il Franco, a lui guerra aspra indice.
CANTO SECONDO.
Mentre il Tiranno s’apparecchia all’armi,
Soletto Ismeno un dì gli s’appresenta:
Ismen, che trar di sotto ai chiusi marmi
4 Può corpo estinto, e far che spiri e senta:
Ismen, che al suon de’ mormoranti carmi
Fin nella reggia sua Pluto spaventa,
E i suoi Demon negli empj uficj impiega
8 Pur come servi, e gli discioglie, e lega.
II.
Questi or Macone adora, e fu Cristiano,
Ma i primi riti anco lasciar non puote;
Anzi sovente in uso empio e profano
12 Confonde le due leggi a sè mal note.
Ed or dalle spelonche, ove, lontano
Dal volgo, esercitar suol l’arti ignote,
Vien nel pubblico rischio al suo Signore;
16 A Re malvagio consiglier peggiore.
III.
Signor, dicea, senza tardar sen viene
Il vincitor esercito temuto;
Ma facciam noi ciò che a noi far conviene;
20 Darà il Ciel, darà il mondo ai forti ajuto.
Ben tu di Re, di duce hai tutte piene
Le parti, e lunge hai visto e provveduto.
S’empie in tal guisa ogn’altro i propri uficj,
24 Tomba fia questa terra a’ tuoi nemici.
IV.
Io quanto a me ne vengo, e del periglio,
E dell’opre compagno ad aitarte.
Ciò che può dar di vecchia età consiglio,
28 Tutto prometto, e ciò che magica arte.
Gli Angeli che dal Cielo ebbero esiglio
Costringerò delle fatiche a parte.
Ma dond’io voglia incominciar gl’incanti,
32 E con quai modi, or narrerotti avanti.
V.
Nel tempio de’ Cristiani occulto giace
Un sotterraneo altare; e quivi è il volto
Di colei, che sua diva, e madre face,
36 Quel volgo, del suo Dio nato e sepolto.
Dinanzi al simulacro accesa face
Continua splende: egli è in un velo avvolto;
Pendono intorno, in lungo ordine, i voti
40 Che vi portaro i creduli devoti.
VI.
Or questa effigie lor, di là rapita,
Voglio che tu di propria man trasporte,
E la riponga entro la tua Meschita:
44 Io poscia incanto adoprerò sì forte,
Ch’ognor, mentre ella quì fia custodita,
Sarà fatal custodia a queste porte;
Tra mura inespugnabili il tuo impero
48 Sicuro fia, per novo alto mistero.
VII.
Sì disse, e
‘l persuase: e impaziente
Il Re sen corse alla magion di Dio,
E sforzò i Sacerdoti, e irreverente
52 Il casto simulacro indi rapío;
E portollo a quel tempio, ove sovente
S’irrita il Ciel col folle culto e rio.
Nel profan loco, e su la sacra imago
56 Susurrò poi le sue bestemmie il Mago.
VIII.
Ma come apparse in ciel l’alba novella,
Quel, cui l’immondo tempio in guardia è dato,
Non rivide l’immagine, dov’ella
60 Fu posta, e invan cerconne in altro lato.
Tosto n’avvisa il Re, ch’alla novella
Di lui si mostra fieramente irato:
Ed immagina ben ch’alcun fedele
64 Abbia fatto quel furto, e che se ‘l cele.
IX.
O fu di man fedele opra furtiva,
O pur il Ciel quì sua potenza adopra:
Che di colei ch’è sua Regina e diva,
68 Sdegna che loco vil l’immagin copra:
Ch’incerta fama è ancor, se ciò s’ascriva
Ad arte umana, od a mirabil’opra.
Ben è pietà, che la pietade e ‘l zelo
72 Uman cedendo, autor sen creda il Cielo.
X.
Il Re ne fa con importuna inchiesta
Ricercar ogni chiesa, ogni magione:
Ed a chi gli nasconde, o manifesta
76 Il furto o il reo, gran pene, e premj impone.
E’l Mago di spiarne anco non resta
Con tutte l’arti il ver; ma non s’appone:
Chè ‘l Cielo (opra sua fosse, o fosse altrui)
80 Celolla, ad onta degl’incanti, a lui.
XI.
Ma poichè ‘l Re crudel vide occultarse
Quel che peccato de’ fedeli ei pensa;
Tutto in lor d’odio infellonissi, ed arse
84 D’ira, e di rabbia immoderata immensa.
Ogni rispetto obblia; vuol vendicarse,
(Segua che puote) e sfogar l’alma accensa:
Morrà, dicea, non andrà l’ira a voto,
88 Nella strage comune il ladro ignoto.
XII.
Purchè ‘l reo non si salvi, il giusto pera
E l’innocente. Ma qual giusto io dico?
È colpevol ciascun, nè in loro schiera
92 Uom fu giammai del nostro nome amico.
S’anima v’è nel novo error sincera,
Basti a novella pena un fallo antico.
Su, su, fedeli miei, su via prendete
96 Le fiamme, e ‘l ferro, ardete, ed uccidete.
XIII.
Così parla alle turbe, e se n’intese
La fama tra’ fedeli immantinente,
Ch’attoniti restar, sì gli sorprese
100 Il timor della morte omai presente.
E non è chi la fuga o le difese,
Lo scusare o ‘l pregare ardisca, o tente;
Ma le timide genti e irresolute,
104 Donde meno speraro ebber salute.
XIV.
Vergine era fra lor di già matura
Verginità, d’alti pensieri e regj:
D’alta beltà, ma sua beltà non cura,
108 O tanto sol quant’onestà sen fregi.
È il suo pregio maggior, che tra le mura
D’angusta casa asconde i suoi gran pregj:
E de’ vagheggiatori ella s’invola
112 Alle lodi, agli sguardi, inculta e sola.
XV.
Pur guardia esser non può che’n tutto celi
Beltà degna ch’appaja, e che s’ammiri:
Nè tu il consenti, Amor; ma la riveli
116 D’un giovenetto ai cupidi desiri.
Amor, ch’or cieco, or Argo, ora ne veli
Di benda gli occhj, ora ce gli apri e giri;
Tu per mille custodie entro ai più casti
120 Verginei alberghi il guardo altrui portasti.
XVI.
Colei Sofronia, Olindo egli s’appella,
D’una cittade entrambi, e d’una fede.
Ei che modesto è sì, com’essa è bella,
124 Brama assai, poco spera, e nulla chiede;
Nè sa scoprirsi, o non ardisce: ed ella
O lo sprezza, o nol vede, o non s’avvede.
Così finora il misero ha servito
128 O non visto, o mal noto, o mal gradito.
XVII.
S’ode l’annunzio intanto, e che s’appresta
Miserabile strage al popol loro.
A lei che generosa è quanto onesta,
132 Viene in pensier come salvar costoro.
Move fortezza il gran pensier; l’arresta
Poi la vergogna, e ‘l virginal decoro.
Vince fortezza, anzi s’accorda, e face
136 Sè vergognosa, e la vergogna audace.
XVIII.
La vergine tra ‘l volgo uscì soletta,
Non coprì sue bellezze, e non l’espose;
Raccolse gli occhj, andò nel vel ristretta,
140 Con ischive maniere, e generose.
Non sai ben dir, s’adorna, o se negletta,
Se caso, od arte il bel volto compose;
Di Natura, d’Amor, de’ Cieli amici
144 Le negligenze sue sono artificj.
XIX.
Mirata da ciascun passa, e non mira
L’altera donna, e innanzi al Re sen viene;
Nè perchè irato il veggia, il piè ritira,
148 Ma il fero aspetto intrepida sostiene.
Vengo, Signor (gli disse) e ‘ntanto l’ira
Prego sospenda, e ‘l tuo popolo affrene:
Vengo a scoprirti, e vengo a darti preso
152 Quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso.
XX.
All’onesta baldanza, all’improvviso
Folgorar di bellezze altere e sante,
Quasi confuso il Re, quasi conquiso,
156 Frenò lo sdegno, e placò il fier sembiante.
S’egli era d’alma, o se costei di viso
Severa manco, ei diveniane amante;
Ma ritrosa beltà ritroso core
160 Non prende: e sono i vezzi esca d’Amore.
XXI.
Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto,
S’amor non fu, che mosse il cor villano.
Narra (ei le dice) il tutto: ecco io commetto,
164 Che non s’offenda il popol tuo Cristiano.
Ed ella: il reo si trova al tuo cospetto:
Opra è il furto, Signor, di questa mano:
Io l’immagine tolsi: io son colei,
168 Che tu ricerchi, e me punir tu dei.
XXII.
Così al pubblico fato il capo altero
Offerse, e ‘l volle in se sola raccorre.
Magnanima menzogna! or quando è il vero
172 Sì bello, che si possa a te preporre?
Riman sospeso, e non sì tosto il fero
Tiranno all’ira, come suol, trascorre.
Poi la richiede: Io vuo’ che tu mi scopra
176 Chi diè consiglio, e chi fu insieme all’opra.
XXIII.
Non volli far della mia gloria altrui
Nè pur minima parte, ella gli dice;
Sol di me stessa io consapevol fui,
180 Sol consigliera, e sola esecutrice.
Dunque in te sola, ripigliò colui,
Caderà l’ira mia vendicatrice.
Disse ella: è giusto; esser a me conviene,
184 Se fui sola all’onor, sola alle pene.
XXIV.
Quì comincia il Tiranno a risdegnarsi;
Poi le dimanda: Ov’hai l’imago ascosa?
Non la nascosi, a lui risponde, io l’arsi;
188 E l’arderla stimai laudabil cosa.
Così almen non potrà più violarsi
Per man de’ miscredenti ingiuriosa.
Signore, o chiedi il furto, o ‘l ladro chiedi;
192 Quel non
vedrai in eterno, e questo il vedi.
XXV.
Benchè nè furto è il mio, nè ladra io sono;
Giusto è ritor ciò ch’a gran torto è tolto.
Or questo udendo, in minaccevol suono
196 Freme il Tiranno; e ‘l fren dell’ira è sciolto.
Non speri più di ritrovar perdono
Cor pudíco, alta mente, o nobil volto:
E indarno Amor, contra lo sdegno crudo,
200 Di sua vaga bellezza a lei fa scudo.
XXVI.
Presa è la bella donna, e incrudelito
Il Re la danna entro un incendio a morte.
Già ‘l velo, e ‘l casto manto è a lei rapito;
204 Stringon le molli braccia aspre ritorte.
Ella si tace; e in lei non sbigottito,
Ma pur commosso alquanto è il petto forte;
E smarrisce il bel volto in un colore,
208 Che non è pallidezza, ma candore.
XXVII.
Divulgossi il gran caso, e quivi tratto
Già ‘l popol s’era: Olindo anco v’accorse;
Dubbia era la persona, e certo il fatto,
212 Venia, che fosse la sua donna in forse.
Come la bella prigionera in atto
Non pur di rea, ma di dannata ei scorse;
Come i ministri al duro uficio intenti
216 Vide, precipitoso urtò le genti.
XXVIII.
Al Re gridò: non è, non è già rea
Costei del furto, e per follia sen vanta.
Non pensò, non ardì, nè far potea
220 Donna sola e inesperta opra cotanta.
Come ingannò i custodi? e della Dea
Con qual’arte involò l’immagin santa?
Se ‘l fece, il narri. Io l’ho, Signor, furata.
224 Ahi tanto amò la non amante amata!
XXIX.
Soggiunse poscia: io là, donde riceve
L’alta vostra Meschita e l’aura e ‘l die;
Di notte ascesi, e trapassai per breve
228 Foro, tentando inaccessibil vie.
A me l’onor, la morte a me si deve;
Non usurpi costei le pene mie.
Mie son quelle catene, e per me questa
232 Fiamma s’accende, e ‘l rogo a me s’appresta.
XXX.
Alza Sofronia il viso, e umanamente
Con occhj di pietade in lui rimira.
A chè ne vieni, o misero innocente?
236 Qual consiglio o furor, ti guida o tira?
Non son’io dunque senza te possente
A sostener ciò che d’un uom può l’ira?
Ho petto anch’io ch’ad una morte crede
240 Di bastar solo, e compagnia non chiede.
XXXI.
Parla così all’amante, e nol dispone
Sì ch’egli si disdica, e pensier mute.
O spettacolo grande, ove a tenzone
244 Sono amore e magnanima virtute!
Ove la morte al vincitor si pone
In premio; e ‘l mal del vinto è la salute!