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Jerusalem Delivered

Page 122

by Torquato Tasso


  Ciò ch’al bisogno necessario crede.

  Erminia intanto la pomposa vesta

  724 Si spoglia, che le scende insino al piede:

  E in ischietto vestir leggiadra resta

  E snella sì, ch’ogni credenza eccede:

  Nè, trattane colei ch’alla partita

  728 Scelta s’avea compagna, altra l’aita.

  XCII.

  Col durissimo acciar preme ed offende

  Il delicato collo, e l’aurea chioma:

  E la tenera man lo scudo prende,

  732 Pur troppo grave, e insopportabil soma.

  Così tutta di ferro intorno splende,

  E in atto militar se stessa doma.

  Gode Amor, ch’è presente e tra se ride,

  736 Come allor già ch’avvolse in gonna Alcide.

  XCIII.

  O con quanta fatica ella sostiene

  L’inegual peso, e muove lenti i passi!

  Ed alla fida compagnia s’attiene,

  740 Che per appoggio andar dinanzi fassi.

  Ma rinforzan gli spirti amore, e spene,

  E ministran vigore ai membri lassi:

  Sicchè giungono al loco ove le aspetta

  744 Lo scudiero, e in arcion sagliono in fretta.

  XCIV.

  Travestiti ne vanno, e la più ascosa

  E più riposta via prendono ad arte.

  Pur s’avvengono in molti, e l’aria ombrosa

  748 Veggion lucer di ferro in ogni parte:

  Ma impedir lor viaggio alcun non osa,

  E cedendo il sentier ne va in disparte;

  Chè quel candido ammanto, e la temuta

  752 Insegna anco nell’ombra è conosciuta.

  XCV.

  Erminia benchè quivi alquanto sceme

  Del dubbio suo, non va però sicura;

  Chè d’essere scoperta alla fin teme,

  756 E del suo troppo ardir sente or paura.

  Ma pur giunta alla porta il timor preme,

  Ed inganna colui che n’ha la cura.

  Io son Clorinda, disse, apri la porta;

  760 Chè ‘l Re m’invia dove l’andare importa.

  XCVI.

  La voce femminil, sembiante a quella

  Della Guerriera, agevola l’inganno.

  (Chi crederia veder armata in sella

  764 Una dell’altre ch’arme oprar non sanno?)

  Sicchè ‘l portier tosto ubbidisce, ed ella

  N’esce veloce, e i due che seco vanno.

  E per lor sicurezza entro le valli

  768 Calando, prendon lunghi obliqui calli.

  XCVII.

  Ma poi ch’Erminia in solitaria ed ima

  Parte si vede, alquanto il corso allenta;

  Chè i primi rischj aver passati estima,

  772 Nè d’esser ritenuta omai paventa.

  Or pensa a quello a chè pensato in prima

  Non bene aveva, ed or le s’appresenta

  Difficil più, ch’a lei non fu mostrata

  776 Dal frettoloso suo desir, l’entrata.

  XCVIII.

  Vede or che sotto il militar sembiante

  Ir tra fieri nemici è gran follia:

  Nè d’altra parte palesarsi, innante

  780 Ch’al suo signor giungesse, altrui vorria.

  A lui secreta ed improvvisa amante

  Con sicura onestà giunger desia.

  Onde si ferma, e da miglior pensiero

  784 Fatta più cauta, parla al suo scudiero:

  XCIX.

  Essere, o mio fedele, a te conviene

  Mio precursor; ma sii pronto e sagace.

  Vattene al campo, e fa’ ch’alcun ti mene

  788 E t’introduca ove Tancredi giace:

  A cui dirai, che donna a lui ne viene

  Che gli apporta salute, e chiede pace:

  Pace, posciach’Amor guerra mi move,

  792 Ond’ei salute, io refrigerio trove.

  C.

  E ch’essa ha in lui sì certa e viva fede,

  Che ‘n suo poter non teme onta nè scorno.

  Dì sol questo a lui solo; e s’altro ei chiede,

  796 Dì non saperlo, e affretta il tuo ritorno.

  Io (chè questa mi par sicura sede)

  In questo mezzo quì farò soggiorno.

  Così disse la donna: e quel leale

  800 Gía veloce così, come avesse ale.

  CI.

  E seppe in guisa oprar, ch’amicamente

  Entro ai chiusi ripari ei fu raccolto:

  E poi condotto al cavalier giacente

  804 Che l’ambasciata udì con lieto volto.

  E già lasciando ei lui, che nella mente

  Mille dubbj pensier avea rivolto,

  Ne riportava a lei dolce risposta;

  808 Ch’entrar potrà, quando più lice, ascosta.

  CII.

  Ma ella intanto impaziente, a cui

  Troppo ogni indugio par nojoso e greve,

  Numera fra se stessa i passi altrui,

  812 E pensa: or giunge, or entra, or tornar deve.

  E già le sembra, e se ne duol, colui

  Men del solito assai spedito e leve.

  Spingesi alfine innanzi, e ‘n parte ascende

  816 Onde comincia a discoprir le tende.

  CIII.

  Era la notte, e ‘l suo stellato velo

  Chiaro spiegava e senza nube alcuna:

  E già spargea rai luminosi, e gelo

  820 Di vive perle la sorgente Luna.

  L’innamorata Donna iva col Cielo

  Le sue fiamme sfogando ad una ad una:

  E secretarj del suo amore antico

  824 Fea i muti campi, e quel silenzio amico.

  CIV.

  Poi, rimirando il campo, ella dicea:

  O belle agli occhj miei tende Latine,

  Aura spira da voi che mi ricrea

  828 E mi conforta, pur che m’avvicine.

  Così a mia vita combattuta e rea

  Qualche onesto riposo il Ciel destine;

  Come in voi solo il cerco: e solo parmi

  832 Che trovar pace io possa in mezzo all’armi.

  CV.

  Raccogliete me dunque, e in voi si trove

  Quella pietà che mi promise Amore;

  E ch’io già vidi prigioniera altrove

  836 Nel mansueto mio dolce signore:

  Nè già desio di racquistar mi move,

  Col favor vostro, il mio regale onore.

  Quando ciò non avvenga, assai felice

  840 Io mi terrò, se in voi servir mi lice.

  CVI.

  Così parla costei, che non prevede

  Qual dolente fortuna a lei s’appreste.

  Ella era in parte, ove per dritto fiede

  844 L’armi sue terse il bel raggio celeste:

  Sicchè da lunge il lampo lor si vede

  Col bel candor che le circonda e veste:

  E la gran Tigre nell’argento impressa

  848 Fiammeggia sì, ch’ognun direbbe: è dessa.

  CVII.

  Come volle sua sorte, assai vicini

  Molti guerrier disposti avean gli aguati:

  E n’eran duci duo fratei Latini

  852 Alcandro, e Poliferno: e fur mandati

  Per impedir che dentro, ai Saracini,

  Gregge non siano e non sian buoi menati:

  E se ‘l servo passò, fu perchè torse

  856 Più lunge il passo, e rapido trascorse.

  CVIII.

  Al giovin Poliferno, a cui fu il padre

  Sugli occhj suoi già da Clorinda ucciso,

  Viste le spoglie candide e leggiadre,

  860 Fu di veder l’alta Guerriera avviso,

  E contra le irritò le occulte squadre:

  Nè frenando del cor moto improviso

  (Com’era in suo furor subito e folle)

  864 Gridò: sei morta, e l’asta invan lanciolle.

  CIX.

  Siccome cerva, ch’assetata, il passo

  Mova a cercar d’acque lu
centi e vive,

  Ove un bel fonte distillar da un sasso,

  868 O vide un fiume tra frondose rive;

  Se incontra i cani allor che ‘l corpo lasso

  Ristorar crede all’onde, all’ombre estive;

  Volge indietro fuggendo, e la paura

  872 La stanchezza obliar face, e l’arsura.

  CX.

  Così costei che dell’amor la sete,

  Onde l’infermo core è sempre ardente,

  Spegner nelle accoglienze oneste e liete

  876 Credeva, e riposar la stanca mente;

  Or che contra le vien chi gliel diviete,

  E ‘l suon del ferro e le minacce sente;

  Sè stessa e ‘l suo desir primo abbandona,

  880 E ‘l veloce destrier timida sprona.

  CXI.

  Fugge Erminia infelice, e ‘l suo destriero

  Con prontissimo piede il suol calpesta.

  Fugge ancor l’altra donna, e lor quel fero

  884 Con molti armati di seguir non resta.

  Ecco che dalle tende il buon scudiero

  Con la tarda novella arriva in questa:

  E l’altrui fuga ancor dubbio accompagna:

  888 E gli sparge il timor per la campagna.

  CXII.

  Ma il più saggio fratello, il quale anch’esso

  La non vera Clorinda avea veduto,

  Non la volle seguir, ch’era men presso;

  892 Ma nell’insidie sue s’è ritenuto:

  E mandò con l’avviso al campo un messo,

  Che non armento, od animal lanuto,

  Nè preda altra simíl; ma ch’è seguita

  896 Dal suo german Clorinda impaurita.

  CXIII.

  E ch’ei non crede già, nè ‘l vuol ragione,

  Ch’ella ch’è duce, e non è sol guerriera,

  Elegga all’uscir suo tale stagione

  900 Per opportunità che sia leggiera.

  Ma giudichi, e comandi il pio Buglione;

  Egli farà ciò che da lui s’impera.

  Giunge al campo tal nova, e se n’intende

  904 Il primo suon nelle Latine tende.

  CXIV.

  Tancredi, cui dinanzi il cor sospese

  Quell’avviso primiero, udendo or questo,

  Pensa: deh forse a me venia cortese,

  908 E in periglio è per me; nè pensa al resto.

  E parte prende sol del grave arnese;

  Monta a cavallo, e tacito esce e presto:

  E seguendo gl’indizj e l’orme nuove,

  912 Rapidamente a tutto corso il muove.

  Canto settimo

  ARGOMENTO.

  Fugge Erminia, e un pastor l’accoglie; intanto

  Tancredi, invan di lei cercando, il piede

  Pon ne’ laccj d’Armida: il fero vanto

  D’Argante riprovar Raimondo ha fede:

  Però difeso da custode santo

  Seco entra in campo: Belzebù che vede

  Ch’al Pagan male il folle ardir riesce,

  Per lui salvar guerra e procelle mesce.

  CANTO SETTIMO.

  Intanto Erminia infra l’ombrose piante

  D’antica selva dal cavallo è scorta:

  Nè più governa il fren la man tremante;

  4 E mezza quasi par tra viva e morta.

  Per tante strade si raggira e tante

  Il corridor che in sua balía la porta;

  Ch’alfin dagli occhj altrui pur si dilegua,

  8 Ed è soverchio omai ch’altri la segua.

  II.

  Qual dopo lunga e faticosa caccia

  Tornansi mesti ed anelanti i cani

  Che la fera perduta abbian di traccia,

  12 Nascosa in selva dagli aperti piani;

  Tal pieni d’ira e di vergogna in faccia

  Riedono stanchi i cavalier Cristiani.

  Ella pur fugge, e timida e smarrita

  16 Non si volge a mirar s’anco è seguita.

  III.

  Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno

  Errò senza consiglio e senza guida,

  Non udendo o vedendo altro d’intorno

  20 Che le lagrime sue, che le sue strida.

  Ma nell’ora che ‘l Sol dal carro adorno

  Scioglie i corsieri, e in grembo al mar s’annida,

  Giunse del bel Giordano alle chiare acque,

  24 E scese in riva al fiume, e quì si giacque.

  IV.

  Cibo non prende già, chè de’ suoi mali

  Solo si pasce, e sol di pianto ha sete:

  Ma ‘l sonno, che de’ miseri mortali

  28 È col suo dolce oblio posa e quiete,

  Sopì co’ sensi i suoi dolori, e l’ali

  Dispiegò sovra lei placide e chete:

  Nè però cessa Amor, con varie forme,

  32 La sua pace turbar mentre ella dorme.

  V.

  Non si destò finchè garrir gli augelli

  Non sentì lieti e salutar gli albóri,

  E mormorare il fiume e gli arboscelli,

  36 E con l’onda scherzar l’aura e co’ fiori:

  Apre i languidi lumi, e guarda quelli

  Alberghi solitarj de’ pastori:

  E parle voce udir, tra l’acqua e i rami,

  40 Ch’ai sospiri ed al pianto la richiami.

  VI.

  Ma son, mentre ella piange, i suoi lamenti

  Rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene,

  Che sembra ed è di pastorali accenti

  44 Misto, e di boscarecce inculte avene.

  Risorge, e là s’indrizza a passi lenti,

  E vede un uom canuto all’ombre amene

  Tesser fiscelle alla sua greggia a canto,

  48 Ed ascoltar di tre fanciulli il canto.

  VII.

  Vedendo quivi comparir repente

  Le insolite arme, sbigottir costoro;

  Ma gli saluta Erminia, e dolcemente

  52 Gli affida, e gli occhj scopre e i bei crin d’oro.

  Seguite, dice, avventurosa gente

  Al Ciel diletta, il bel vostro lavoro;

  Chè non portano già guerra quest’armi

  56 All’opre vostre, ai vostri dolci carmi.

  Ma gli saluta Erminia, e dolcemente

  Gli affida, e gli occhj scopre, e i bei crin d’oro.

  VIII.

  Soggiunse poscia: o padre, or che d’intorno

  D’alto incendio di guerra arde il paese,

  Come quì state in placido soggiorno

  60 Senza temer le militari offese?

  Figlio, ei rispose, d’ogni oltraggio e scorno

  La mia famiglia e la mia greggia illese

  Sempre quì fur; nè strepito di Marte

  64 Ancor turbò questa remota parte.

  IX.

  O sia grazia del Ciel che l’umiltade

  D’innocente pastor salvi, e sublime;

  O che, siccome il folgore non cade

  68 In basso pian ma sulle eccelse cime;

  Così il furor di peregrine spade

  Sol de’ gran Re le altere teste opprime;

  Nè gli avidi soldati a preda alletta

  72 La nostra povertà vile e negletta.

  X.

  Altrui vile e negletta, a me sì cara,

  Chè non bramo tesor nè regal verga;

  Nè cura o voglia ambiziosa o avara

  76 Mai nel tranquillo del mio petto alberga.

  Spengo la sete mia nell’acqua chiara,

  Che non tem’io che di venen s’asperga:

  E questa greggia e l’orticel dispensa

  80 Cibi non compri alla mia parca mensa.

  XI.

  Chè poco è il desiderio, e poco è il nostro

  Bisogno, onde la vita si conservi.

  Son figlj miei questi ch’addíto e mostro

  84 Custodi della mandra, e non ho servi.

  Così men vivo in solitario chiostro,

  Saltar veggendo i capri snelli e i cervi,

  Ed i pesci g
uizzar di questo fiume,

  88 E spiegar gli augelletti al ciel le piume.

  XII.

  Tempo già fu, quando più l’uom vaneggia

  Nell’età prima, ch’ebbi altro desio,

  E disdegnai di pasturar la greggia,

  92 E fuggii dal paese a me natío:

  E vissi in Menfi un tempo, e nella reggia

  Fra i ministri del Re fui posto anch’io:

  E benchè fossi guardian degli orti,

  96 Vidi, e conobbi pur le inique corti.

  XIII.

  E lusingato da speranza ardita,

  Soffrii lunga stagion ciò che più spiace.

  Ma poi ch’insieme con l’età fiorita

  100 Mancò la speme, e la baldanza audace;

  Piansi i riposi di quest’umil vita,

  E sospirai la mia perduta pace:

  E dissi: o corte, addio. Così agli amici

  104 Boschi tornando, ho tratto i dì felici.

  XIV.

  Mentre ei così ragiona, Erminia pende

  Dalla soave bocca intenta e cheta:

  E quel saggio parlar, ch’al cor le scende,

  108 De’ sensi in parte le procelle acqueta.

  Dopo molto pensar, consiglio prende

  In quella solitudine secreta

  Infino a tanto almen farne soggiorno,

  112 Ch’agevoli fortuna il suo ritorno.

  XV.

  Onde al buon vecchio dice: o fortunato,

  Ch’un tempo conoscesti il male a prova,

  Se non t’invidj il Ciel sì dolce stato,

  116 Delle miserie mie pietà ti mova:

  E me teco raccogli in questo grato

  Albergo; ch’abitar teco mi giova.

  Forse fia che ‘l mio cor, infra quest’ombre,

  120 Del suo peso mortal parte disgombre.

  XVI.

  Chè se di gemme e d’or, che ‘l volgo adora

  Siccome idoli suoi, tu fossi vago;

  Potresti ben, tante n’ho meco ancora,

  124 Renderne il tuo desio contento e pago.

  Quinci versando da’ begli occhj fuora

  Umor di doglia cristallino e vago,

  Parte narrò di sue fortune: e intanto

  128 Il pietoso pastor pianse al suo pianto.

  XVII.

  Poi dolce la consola, e sì l’accoglie,

  Come tutt’arda di paterno zelo;

  E la conduce ov’è l’antica moglie

  132 Che di conforme cor gli ha data il Cielo.

  La fanciulla regal di rozze spoglie

  S’ammanta, e cinge al crin ruvido velo;

  Ma nel moto degli occhj e delle membra

  136 Non già di boschi abitatrice sembra.

  XVIII.

  Non copre abito vil la nobil luce

  E quanto è in lei d’altero e di gentile:

  E fuor la regia maestà traluce

  140 Per gli atti ancor dell’esercizio umíle.

  Guida la greggia ai paschi, e la riduce

  Con la povera verga al chiuso ovile;

  E dall’irsute mamme il latte preme,

 

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