Parimente maturo avea il consiglio,
E verdi ancor le forze a par di quanti
488 Erano quivi, allor si trasse avanti.
LXII.
E disse a lui rivolto: ah non sia vero
Che in un capo s’arrischi il campo tutto.
Duce sei tu, non semplice guerriero:
492 Pubblico fora, e non privato il lutto.
In te la fe s’appoggia, e ‘l santo impero.
Per te fia il regno di Babel distrutto:
Tu il senno sol, lo scettro solo adopra;
496 Altri ponga l’ardire, e ‘l ferro in opra.
LXIII.
Ed io, bench’a gir curvo mi condanni
La grave età, non fia che ciò ricusi.
Schivino gli altri i marziali affanni;
500 Me non vuò già che la vecchiezza scusi.
Oh foss’io pur sul mio vigor degli anni
Qual sete or voi, che quì temendo chiusi
Vi state, e non vi move ira o vergogna
504 Contra lui che vi sgrida, e vi rampogna:
LXIV.
E quale allora fui, quando al cospetto
Di tutta la Germania, alla gran corte
Del secondo Corrado, apersi il petto
508 Al feroce Leopoldo, e ‘l posi a morte.
E fu d’alto valor più chiaro effetto
Le spoglie riportar d’uom così forte,
Che s’alcuno or fugasse, inerme e solo,
512 Di questa ignobil turba un grande stuolo.
LXV.
Se fosse in me quella virtù, quel sangue,
Di questo altier l’orgoglio avrei già spento.
Ma qualunque io mi sia, non però langue
516 Il core in me, nè vecchio anco pavento.
E s’io pur rimarrò nel campo esangue,
Nè il Pagan di vittoria andrà contento:
Armarmi io vuò; sia questo il dì ch’illustri,
520 Con novo onor, tutti i miei scorsi lustri.
LXVI.
Così parla il gran vecchio; e sproni acuti
Son le parole onde virtù si desta.
Quei che fur prima timorosi e muti,
524 Hanno la lingua or baldanzosa e presta.
Nè sol non v’è che la tenzon rifiuti;
Ma ella omai da molti a gara è chiesta.
Baldovin la domanda, e con Ruggiero
528 Guelfo, i due Guidi, e Stefano, e Gerniero;
LXVII.
E Pirro, quel che fè il lodato inganno,
Dando Antiochia presa a Boemondo;
Ed a prova richiesta anco ne fanno
532 Eberardo, Ridolfo, e ‘l prò Rosmondo:
Un di Scozia, un d’Irlanda, ed un Britanno,
Terre che parte il mar dal nostro mondo:
E ne son parimente anco bramosi
536 Gildippe ed Odoardo amanti e sposi.
LXVIII.
Ma sovra tutti gli altri il fiero vecchio
Se ne dimostra cupido ed ardente.
Armato è già; sol manca all’apparecchio
540 Degli altri arnesi il fino elmo lucente.
A cui dice Goffredo: o vivo specchio
Del valor prisco, in te la nostra gente
Miri, e virtù n’apprenda: in te di Marte
544 Splende l’onor, la disciplina, e l’arte.
LXIX.
Oh pur avessi fra l’etade acerba
Dieci altri di valor al tuo simíle,
Come ardirei vincer Babel superba,
548 E la Croce spiegar da Battro a Tile.
Ma cedi or, prego, e te medesmo serba
A maggior opre, e di virtù seníle:
E lascia che degli altri in picciol vaso
552 Pongansi i nomi, e sia giudice il caso.
LXX.
Anzi giudice Dio, delle cui voglie
Ministra e serva è la Fortuna, e ‘l Fato.
Ma non però dal suo pensier si toglie
556 Raimondo, e vuol’anch’egli esser notato.
Nell’elmo suo Goffredo i brevi accoglie:
E poi che l’ebbe scosso ed agitato,
Nel primo breve che di là traesse,
560 Del Conte di tolosa il nome lesse.
LXXI.
Fu il nome suo con lieto grido accolto:
Nè di biasmar la sorte alcun ardisce.
Ei di fresco vigor la fronte e ‘l volto
564 Riempie: e così allor ringiovenisce,
Qual serpe fier, che in nuove spoglie avvolto,
D’oro fiammeggi, e incontra il Sol si lisce.
Ma più d’ogn’altro il Capitan gli applaude,
568 E gli annunzia vittoria, e gli dà laude.
LXXII.
E la spada togliendosi dal fianco,
E porgendola a lui, così dicea:
Questa è la spada, che in battaglia il Franco
572 Rubello di Sassonia oprar solea;
Ch’io già gli tolsi a forza, e gli tolsi anco
La vita allor di mille colpe rea.
Questa, che meco ogn’or fu vincitrice,
576 Prendi; e sia così teco ora felice.
LXXIII.
Di loro indugio intanto è quell’altero
Impaziente, e li minaccia, e grida:
O gente invitta, o popolo guerriero
580 D’Europa, un uomo solo è che vi sfida.
Venga Tancredi omai che par sì fero,
Se nella sua virtù tanto si fida;
O vuol, giacendo in piume, aspettar forse
584 La notte ch’altre volte a lui soccorse?
LXXIV.
Venga altri, s’egli teme: a stuolo a stuolo
Venite insieme, o cavalieri, o fanti;
Poichè di pugnar meco a solo a solo
588 Non v’è fra mille schiere uom che si vanti.
Vedete là il sepolcro, ove il figliuolo
Di Maria giacque; or chè non gite avanti?
Chè non sciogliete i voti? ecco la strada.
592 A qual serbate uopo maggior la spada?
LXXV.
Con tali scherni il Saracino atroce,
Quasi con dura sferza, altrui percuote;
Ma più ch’altri Raimondo a quella voce
596 S’accende, e l’onte sofferir non puote.
La virtù stimolata è più feroce,
E s’aguzza dell’ira all’aspra cote:
Sicchè tronca gl’indugj, e preme il dorso
600 Del suo Aquilino, a cui diè ‘l nome il corso.
LXXVI.
Sul Tago il destrier nacque, ove talora
L’avida madre del guerriero armento,
Quando l’alma stagion che n’innamora,
604 Nel cor le instiga il natural talento,
Volta l’aperta bocca incontra l’ora,
Raccoglie i semi del fecondo vento:
E de’ tepidi fiati (o maraviglia!)
608 Cupidamente ella concépe, e figlia.
LXXVII.
E ben questo Aquilin nato diresti
Di quale aura del Ciel più lieve spiri;
O se veloce sì, ch’orma non resti,
612 Stendere il corso per l’arena il miri;
O se ‘l vedi addoppiar leggieri e presti,
A destra ed a sinistra, angusti giri.
Sovra tal corridore il Conte assiso
616 Move all’assalto, e volge al Cielo il viso.
LXXVIII.
Signor, tu che drizzasti incontra l’empio
Golía l’arme inesperte in Terebinto:
Sicch’ei ne fu, che d’Israel fea scempio,
620 Al primo sasso d’un garzone estinto;
Tu fà ch’or giaccia (e fia pari l’esempio)
Questo fellon da me percosso, e vinto:
E debil vecchio or la superbia opprima,
624 Come debil fanciul l’oppresse in prima.
LXXIX.
Così pregava il Conte: e le preghiere,
Mosse dalla speranza in Dio sicura,
S’alzar vol
ando alle celesti spere,
628 Come va foco al Ciel per sua natura.
Le accolse il Padre eterno, e fra le schiere
Dell’esercito suo tolse alla cura
Un che ‘l difenda: e sano, e vincitore
632 Dalle man di quell’empio il tragga fuore.
LXXX.
L’Angelo, che fu già custode eletto
Dall’alta provvidenza al buon Raimondo,
Insin dal primo dì che pargoletto
636 Sen venne a farsi peregrin del mondo;
Or che di novo il Re del ciel gli ha detto
Che prenda in se della difesa il pondo,
Nell’alta rocca ascende, ove dell’oste
640 Divina tutte son l’arme riposte.
LXXXI.
Quì l’asta si conserva, onde il serpente
Percosso giacque, e i gran fulminei strali:
E quegli ch’invisibili alla gente
644 Portan l’orride pesti e gli altri mali:
E quì sospeso è in alto il gran tridente,
Primo terror de’ miseri mortali,
Quando egli avvien che i fondamenti scuota
648 Dell’ampia terra, e le città percuota.
LXXXII.
Si vedea fiammeggiar fra gli altri arnesi
Scudo di lucidissimo diamante:
Grande che può coprir genti e paesi,
652 Quanti ve n’ha fra il Caucaso, e l’Atlante:
E sogliono da questo esser difesi
Principi giusti, e città caste e sante.
Questo l’Angelo prende, e vien con esso
656 Occultamente al suo Raimondo appresso.
LXXXIII.
Piene intanto le mura eran già tutte
Di varia turba; e ‘l barbaro Tiranno
Manda Clorinda, e molte genti instrutte,
660 Che, ferme a mezzo il colle, oltre non vanno.
Dall’altro lato in ordine ridutte
Alcune schiere di Cristiani stanno:
E largamente a’ due campioni il campo
664 Voto riman fra l’uno e l’altro Campo.
LXXXIV.
Mirava Argante, e non vedea Tancredi,
Ma d’ignoto campion sembianze nuove.
Fecesi il Conte innanzi; e, quel che chiedi,
668 È, disse a lui, per tua ventura altrove.
Non superbir però chè me quì vedi
Apparecchiato a riprovar tue prove:
Ch’io di lui posso sostener la vice,
672 O venir come terzo a me quì lice.
LXXXV.
Ne sorride il superbo, e gli risponde:
Che fa dunque Tancredi, e dove stassi?
Minaccia il Ciel con l’arme, e poi s’asconde,
676 Fidando sol ne’ suoi fugaci passi.
Ma fugga pur nel centro, o in mezzo l’onde,
Chè non fia loco ove sicuro il lassi.
Menti, replica l’altro, a dir ch’uom tale
680 Fugga da te; ch’assai di te più vale.
LXXXVI.
Freme il Circasso irato, e dice: or prendi
Del campo tu, chè in vece sua t’accetto:
E tosto e’ si parrà come difendi
684 L’alta follia del temerario detto.
Così mossero in giostra, e i colpi orrendi
Parimente drizzaro ambi all’elmetto:
E ‘l buon Raimondo, ove mirò, scontrollo,
688 Nè dar gli fece nell’arcion pur crollo.
LXXXVII.
Dall’altra parte il fero Argante corse
(Fallo insolito a lui) l’arringo invano:
Chè ‘l difensor celeste il colpo torse
692 Dal custodito cavalier Cristiano.
Le labbra, il crudo, per furor si morse,
E ruppe l’asta, bestemmiando, al piano.
Poi tragge il ferro, e va contra Raimondo
696 Impetuoso al paragon secondo.
LXXXVIII.
E ‘l possente corsiero urta per dritto,
Quasi monton ch’al cozzo il capo abbassa.
Schiva Raimondo l’urto, al lato dritto
700 Piegando il corso, e ‘l fere in fronte, e passa.
Torna di novo il cavalier d’Egitto:
Ma quegli pur di novo a destra il lassa;
E pur sull’elmo il coglie, e indarno sempre;
704 Chè l’elmo adamantine avea le tempre.
LXXXIX.
Ma il feroce Pagan, che seco vuole
Più stretta zuffa, a lui s’avventa e serra.
L’altro, ch’al peso di sì vasta mole
708 Teme d’andar col suo destriero a terra,
Quì cede, ed indi assale; e par che vole,
Intorniando con girevol guerra;
E i lievi imperj il rapido cavallo
712 Segue del freno, e non pone orma in fallo.
XC.
Qual Capitan ch’oppugni eccelsa torre
Infra paludi posta o in alto monte,
Mille aditi ritenta, e tutte scorre
716 L’arti e le vie; cotal s’aggira il Conte.
E poi che non può scaglia all’arme torre
Ch’armano il petto, e la superba fronte;
Fere i men forti arnesi, ed alla spada
720 Cerca, tra ferro e ferro, aprir la strada.
XCI.
Ed in due parti o in tre forate, e fatte
L’arme nemiche ha già tepide e rosse:
Ed egli ancor le sue conserva intatte,
724 Nè di cimier, nè d’un sol fregio scosse.
Argante indarno arrabbia, a voto batte,
E spande senza pro l’ire e le posse.
Non si stanca però; ma raddoppiando
728 Va tagli e punte, e si rinforza errando.
XCII.
Alfin tra mille colpi il Saracino
Cala un fendente, e ‘l Conte è così presso,
Che forse il velocissimo Aquilino
732 Non sottraggeasi, e rimaneane oppresso;
Ma l’ajuto invisibile vicino
Non mancò a lui di quel superno messo,
Che stese il braccio, e tolse il ferro crudo
736 Sovra il diamante del celeste scudo.
XCIII.
Frangesi il ferro allor (chè non resiste
Di fucina mortal tempra terrena
Ad armi incorruttibili ed immiste
740 D’eterno fabbro) e cade in su l’arena.
Il Circasso, ch’andarne a terra ha viste
Minutissime parti, il crede appena.
Stupisce poi, scorta la mano inerme,
744 Ch’arme il campion nemico abbia sì ferme.
XCIV.
E ben rotta la spada aver si crede
Su l’altro scudo, onde è colui difeso:
E ‘l buon Raimondo ha la medesma fede,
748 Chè non sa già chi sia dal Ciel disceso.
Ma, perocch’egli disarmata vede
La man nemica, si riman sospeso;
Chè stima ignobil palma, e vili spoglie
752 Quelle ch’altrui, con tal vantaggio, uom toglie.
XCV.
Prendi, volea già dirgli, un’altra spada:
Quando novo pensier nacque nel core:
Ch’alto scorno è de’ suoi, dove egli cada,
756 Chè di pubblica causa è difensore.
Così nè indegna a lui vittoria aggrada,
Nè in dubbio vuol porre il comune onore.
Mentre egli dubbio stassi, Argante lancia
760 Il pomo e l’else alla nemica guancia.
XCVI.
E in quel tempo medesmo il destrier punge,
E per venire a lotta oltra si caccia.
La percossa lanciata all’elmo giunge,
764 Sicchè ne pesta al Tolosan la faccia.
Ma però nulla sbigottisce, e lunge
Ratto si svia dalle robuste braccia;
Ed impiaga la man, ch’a dar di piglio
768 Venia più fera che ferino artiglio.
XCVII.
Poscia gira da questa a quella parte,
E rigirasi a questa, indi da quella:
E sempre, e dove riede, e donde parte
772 Fere il Pagan d’aspra percossa e fella.
Quanto avea di vigor, quanto avea d’arte,
Quanto può sdegno antico, ira novella,
A danno del Circasso or tutto aduna;
776 E seco il Ciel congiura, e la Fortuna.
XCVIII.
Quei di fine arme, e di se stesso armato
Ai gran colpi resiste, e nulla pave:
E par senza governo, in mar turbato,
780 Rotte vele ed antenne, eccelsa nave;
Che pur contesto avendo ogni suo lato
Tenacemente di robusta trave,
Sdruciti i fianchi al tempestoso flutto
784 Non mostra ancor, nè si dispera in tutto.
XCIX.
Argante, il tuo periglio allor tal era,
Quando ajutarti Belzebù dispose.
Questi di cava nube ombra leggiera
788 (Mirabil mostro!) in forma d’uom compose:
E la sembianza di Clorinda altera
Gli finse, e l’arme ricche e luminose:
Diegli il parlare, e, senza mente, il noto
792 Suon della voce e ‘l portamento e ‘l moto.
C.
Il simulacro ad Oradino esperto
Sagittario famoso andonne, e disse:
O famoso Oradin, ch’a segno certo,
796 Come a te piace, le quadrella affisse;
Ah gran danno saria, s’uom di tal merto,
Difensor di Giudea, così morisse:
E di sue spoglie il suo nemico adorno
800 Sicuro ne facesse a’ suoi ritorno.
CI.
Quì fà prova dell’arte, e le saette
Tingi nel sangue del ladron Francese:
Ch’oltra il perpetuo onor, vuò che n’aspette
804 Premio al gran fatto egual dal Re cortese.
Così parlò, nè quegli in dubbio stette,
Tosto che ‘l suon delle promesse intese.
Dalla grave faretra un quadrel prende,
808 E su l’arco l’adatta, e l’arco tende.
CII.
Sibila il teso nervo, e fuori spinto
Vola il pennuto stral per l’aria, e stride:
Ed a percuoter va dove del cinto
812 Si congiungon le fibbie, e le divide;
Passa l’usbergo, e in sangue appena tinto
Quivi si ferma, e sol la pelle incide;
Chè ‘l celeste guerrier soffrir non volse
816 Ch’oltra passasse, e forza al colpo tolse.
CIII.
Dell’usbergo lo stral si tragge il Conte,
Ed ispicciarne fuori il sangue vede:
E con parlar pien di minacce ed onte
820 Rimprovera al Pagan la rotta fede.
Il Capitan, che non torcea la fronte
Dall’amato Raimondo, allor s’avvede
Che violato è il patto: e perchè grave
824 Stima la piaga, ne sospira e pave.
CIV.
Jerusalem Delivered Page 124