Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 125

by Torquato Tasso

E con la fronte le sue genti altere,

  E con la lingua a vendicarlo desta:

  Vedi tosto inchinar giù le visiere,

  828 Lentare i freni, e por le lancie in resta;

  E quasi in un sol punto alcune schiere

  Da quella parte muoversi, e da questa.

  Sparisce il campo, e la minuta polve,

  832 Con densi globi, al ciel s’innalza e volve.

  CV.

  D’elmi e scudi percossi, e d’aste infrante

  Ne’ primi scontri un gran romor s’aggira.

  Là giacere un cavallo, e girne errante

  836 Un altro là senza rettor si mira:

  Quì giace un guerrier morto, e quì spirante

  Altri singhiozza e geme, altri sospira.

  Fera è la pugna, e quanto più si mesce

  840 E stringe insieme, più s’inaspra e cresce.

  CVI.

  Salta Argante nel mezzo agile e sciolto,

  E toglie ad un guerrier ferrata mazza:

  E, rompendo lo stuol calcato e folto,

  844 La rota intorno, e si fa larga piazza.

  E sol cerca Raimondo, e in lui sol volto

  Ha il ferro, e l’ira impetuosa e pazza:

  E quasi avido lupo, ei par che brame

  848 Nelle viscere sue pascer la fame.

  CVII.

  Ma duro ad impedir viengli il sentiero

  E fero intoppo, acciocchè ‘l corso ei tardi.

  Si trova incontra Ormanno, e con Ruggiero

  852 Di Balnavilla, un Guido, e due Gherardi.

  Non cessa, non s’allenta, anzi è più fero,

  Quanto ristretto è più da que’ gagliardi;

  Siccome, a forza, da rinchiuso loco

  856 Se n’esce e muove alte ruine il foco.

  CVIII.

  Uccide Ormanno, piaga Guido, atterra

  Ruggiero infra gli estinti egro e languente.

  Ma contra lui crescon le turbe, e ‘l serra

  860 D’uomini e d’arme cerchio aspro e pungente.

  Mentre, in virtù di lui, pari la guerra

  Si mantenea fra l’una e l’altra gente;

  Il buon Duce Buglion chiama il fratello,

  864 Ed a lui dice: or muovi il tuo drappello.

  CIX.

  E là dove battaglia è più mortale,

  Vattene ad investir nel lato manco.

  Quegli si mosse, e fu lo scontro tale

  868 Ond’egli urtò degli avversarj il fianco,

  Che parve il popol d’Asia imbelle e frale;

  Nè potè sostener l’impeto Franco

  Che gli ordini disperde, e co’ destrieri

  872 L’insegne insieme abbatte, e i cavalieri.

  CX.

  Dall’impeto medesmo in fuga è volto

  Il destro corno: e non v’è alcun che faccia,

  Fuor che Argante, difesa; a freno sciolto

  876 Così il timor precipiti gli caccia.

  Egli sol ferma il passo, e mostra il volto:

  Nè chi con mani cento, e cento braccia

  Cinquanta scudi insieme ed altrettante

  880 Spade movesse, or più faria d’Argante.

  CXI.

  Ei gli stocchi e le mazze, egli dell’aste

  E de’ corsieri l’impeto sostenta:

  E solo par che incontra tutti baste:

  884 Ed ora a questo, ed ora a quel s’avventa.

  Peste ha le membra, e rotte l’arme e guaste,

  E sudor versa e sangue, e par nol senta.

  Ma così l’urta il popol denso e ‘l preme,

  888 Ch’alfin lo svolge, e seco il porta insieme.

  CXII.

  Volge il tergo alla forza ed al furore

  Di quel diluvio che ‘l rapisce, e ‘l tira.

  Ma non già d’uom che fugga ha i passi, e ‘l core;

  892 S’all’opre della mano il cor si mira.

  Serbano ancora gli occhj il lor terrore,

  E le minacce della solita ira:

  E cerca ritener con ogni prova

  896 La fuggitiva turba, e nulla giova.

  CXIII.

  Non può far quel magnanimo ch’almeno

  Sia lor fuga più tarda, o più raccolta:

  Chè non ha la paura arte, nè freno,

  900 Nè pregar quì, nè comandar s’ascolta.

  Il pio Buglion, che i suoi pensieri appieno

  Vede Fortuna a favorir rivolta,

  Segue della vittoria il lieto corso,

  904 E invia novello ai vincitor soccorso.

  CXIV.

  E se non che non era il dì che scritto

  Dio negli eterni suoi decreti avea;

  Quest’era forse il dì che ‘l campo invitto,

  908 Delle sante fatiche al fin giungea.

  Ma la schiera infernal che in quel conflitto

  La tirannide sua cader vedea;

  Sendole ciò permesso, in un momento

  912 L’aria in nube ristrinse, e mosse il vento.

  CXV.

  Dagli occhj de’ mortali un negro velo

  Rapisce il giorno e ‘l Sole: e par ch’avvampi

  Negro, via più ch’orror d’inferno, il Cielo;

  916 Così fiammeggia infra baleni e lampi.

  Fremono i tuoni, e pioggia accolta in gelo

  Si versa, e i paschi abbatte, e inonda i campi:

  Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli

  920 Non pur le querce, ma le rocche, e i colli.

  CXVI.

  L’acqua in un tempo, il vento, e la tempesta

  Negli occhj ai Franchi impetuosa fere:

  E l’improvvisa violenza arresta,

  924 Con un terror quasi fatal, le schiere.

  La minor parte d’esse accolta resta

  (Che veder non le puote) alle bandiere.

  Ma Clorinda, che quindi alquanto è lunge,

  928 Prende opportuno il tempo, e ‘l destrier punge.

  CXVII.

  Ella gridava ai suoi: per noi combatte,

  Compagni, il Cielo, e la giustizia aita.

  Dall’ira sua le facce nostre intatte

  932 Sono, e non è la destra indi impedita:

  E nella fronte solo irato ei batte

  Della nemica gente impaurita,

  E la scuote dell’arme, e della luce

  936 La priva: andianne pur, chè ‘l Fato è duce.

  CXVIII.

  Così spinge le genti, e ricevendo

  Sol nelle spalle l’impeto d’Inferno,

  Urta i Francesi con assalto orrendo,

  940 E i vani colpi lor si prende a scherno.

  Ed in quel tempo Argante anco, volgendo,

  Fa de’ già vincitori aspro governo;

  E quei, lasciando il campo a tutto corso,

  944 Volgono al ferro e alle procelle il dorso.

  CXIX.

  Percuotono le spalle ai fuggitivi

  L’ire mortali, e le mortali spade,

  E ‘l sangue corre, e fa, commisto ai rivi

  948 Della gran pioggia, rosseggiar le strade.

  Quì, tra ‘l volgo de’ morti e de’ mal vivi,

  E Pirro, e ‘l buon Ridolfo estinto cade;

  E toglie a questo il fier Circasso l’alma,

  952 E Clorinda di quello ha nobil palma.

  CXX.

  Così fuggiano i Franchi, e di lor caccia

  Non rimaneano i Siri anco, o i Demoni.

  Sol contra l’arme, e contra ogni minaccia

  956 Di gragnuole, di turbini, e di tuoni

  Volgea Goffredo la sicura faccia,

  Rampognando aspramente i suoi Baroni;

  E fermo anzi la porta il gran cavallo,

  960 Le genti sparse raccogliea nel vallo.

  CXXI.

  E ben due volte il corridor sospinse

  Contra il feroce Argante, e lui ripresse;

  Ed altrettante il nudo ferro spinse

  964 Dove le turbe ostíli eran più spesse;

  Alfin con gli altri insieme ei si ristrinse


  Dentro ai ripari, e la vittoria cesse.

  Tornano allora i Saracini: e stanchi

  968 Restan nel vallo, e sbigottiti i Franchi.

  CXXII.

  Nè quivi ancor dell’orride procelle

  Ponno appieno schivar la forza, e l’ira;

  Ma sono estinte or queste faci, or quelle,

  972 E per tutto entra l’acqua: il vento spira,

  Squarcia le tele, e spezza i pali, e svelle

  Le tende intere, e lunge indi le gira;

  La pioggia ai gridi, ai venti, ai tuon s’accorda

  976 D’orribile armonia che ‘l mondo assorda.

  Canto ottavo

  ARGOMENTO.

  Narra a Goffredo del signor de’ Dani

  Il valor prima un messo, e poi la morte.

  Credendo quei d’Italia a’ segni vani,

  Stimano estinto il lor Rinaldo forte.

  Dunque al furor ch’Aletto spira, insani

  Di soverchia ira e d’odio, apron le porte:

  E minaccian Goffredo: ei con la voce

  Sola in lor frena l’impeto feroce.

  CANTO OTTAVO.

  Già cheti erano i tuoni e le tempeste,

  E cessato il soffiar d’Austro e di Coro:

  E l’alba uscia della magion celeste

  4 Colla fronte di rose, e co’ piè d’oro.

  Ma quei che le procelle avean già deste,

  Non rimaneansi ancor dall’arti loro;

  Anzi l’un d’essi, ch’Astagorre è detto,

  8 Così parlava alla compagna Aletto:

  II.

  Mira, Aletto, venirne (ed impedito

  Esser non può da noi) quel cavaliero,

  Che dalle fere mani è vivo uscito

  12 Del sovran difensor del nostro impero.

  Questi, narrando del suo Duce ardito

  E de’ compagni ai Franchi il caso fero,

  Paleserà gran cose: onde è periglio

  16 Che si richiami di Bertoldo il figlio.

  III.

  Sai quanto ciò rilevi, e se conviene

  Ai gran principj oppor forza ed inganno.

  Scendi tra i Franchi dunque, e ciò ch’a bene

  20 Colui dirà, tutto rivolgi in danno:

  Spargi le fiamme e ‘l tosco entro le vene

  Del Latin, dell’Elvezio, e del Britanno:

  Movi l’ire e i tumulti, e fà tal’opra,

  24 Che tutto vada il campo alfin sossopra.

  IV.

  L’opra è degna di te: tu nobil vanto

  Ten desti già dinanzi al signor nostro.

  Così le parla: e basta ben sol tanto,

  28 Perchè prenda l’impresa il fero mostro.

  Giunto è sul vallo de’ Cristiani intanto

  Quel cavaliero, il cui venir fu mostro:

  E disse lor: deh sia chi m’introduca

  32 Per mercede, o guerrieri, al sommo Duca.

  V.

  Molti scorta gli furo al Capitano,

  Vaghi d’udir del peregrin novelle.

  Egli inchinollo, e l’onorata mano

  36 Volea baciar che fa tremar Babelle.

  Signor, poi dice, che con l’Oceano

  Termini la tua fama, e con le stelle,

  Venirne a te vorrei più lieto messo....

  40 Qui sospirava, e soggiungeva appresso:

  VI.

  Sveno, del Re de’ Dani unico figlio,

  Gloria e sostegno alla cadente etade,

  Esser tra quei bramò, che ‘l tuo consiglio

  44 Seguendo, han cinto per Gesù le spade:

  Nè timor di fatica, o di periglio,

  Nè vaghezza del regno, nè pietade

  Del vecchio genitor, sì degno affetto

  48 Intepidir nel generoso petto.

  VII.

  Lo spingeva un desio d’apprender l’arte

  Della milizia faticosa e dura

  Da te sì nobil mastro: e sentia in parte

  52 Sdegno e vergogna di sua fama oscura;

  Già di Rinaldo il nome in ogni parte

  Con gloria udendo in verdi anni matura:

  Ma più ch’altra cagione, il mosse il zelo

  56 Non del terren, ma dell’onor del Cielo.

  VIII.

  Precipitò dunque gl’indugi, e tolse

  Stuol di scelti compagni audace e fero:

  E dritto inver la Tracia il cammin volse

  60 Alla Città che sede è dell’impero:

  Quì il Greco Augusto in sua magion l’accolse:

  Quì poi giunse in tuo nome un messaggiero:

  Questi appien gli narrò come già presa

  64 Fosse Antiochia, e come poi difesa.

  IX.

  Difesa incontra al Perso, il qual con tanti

  Uomini armati ad assediarvi mosse,

  Che sembrava che d’arme, e d’abitanti

  68 Voto il gran regno suo rimaso fosse.

  Di te gli disse, e poi narrò d’alquanti

  Sinch’a Rinaldo giunse, e quì fermosse:

  Contò l’ardita fuga, e ciò che poi

  72 Fatto di glorioso avea tra voi.

  X.

  Soggiunse alfin come già il popol Franco

  Veniva a dar l’assalto a queste porte:

  E invitò lui ch’egli volesse almanco

  76 Dell’ultima vittoria esser consorte.

  Questo parlare, al giovenetto fianco

  Del fero Sveno, è stimolo sì forte,

  Ch’ognora un lustro pargli infra’ Pagani

  80 Rotare il ferro, e insanguinar le mani.

  XI.

  Par che la sua viltà rimproverarsi

  Senta nell’altrui gloria, e se ne rode:

  E chi’l consiglia, e chi’l prega a fermarsi,

  84 O che non esaudisce, o che non ode.

  Rischio non teme, fuorchè ‘l non trovarsi

  De’ tuoi gran rischj a parte e di tua lode:

  Questo gli sembra sol periglio grave;88Degli altri o nulla intende, o nulla pave.

  XII.

  Egli medesmo sua fortuna affretta;

  Fortuna che noi tragge, e lui conduce:

  Peroch’appena al suo partire aspetta

  92 I primi rai della novella luce.

  È per miglior la via più breve eletta;

  Tale ei la stima, ch’è Signore, e Duce:

  Nè i passi più difficili o i paesi

  96 Schivar si cerca de’ nemici offesi.

  XIII.

  Or difetto di cibo, or cammin duro

  Trovammo, or violenza, ed or aguati;

  Ma tutti fur vinti i disagj, e furo

  100 Or uccisi i nemici, ed or fugati.

  Fatto avean ne’ periglj ogni uom sicuro

  Le vittorie, e insolenti i fortunati:

  Quando un dì ci accampammo ove i confini

  104 Non lunge erano omai de’ Palestini.

  XIV.

  Quivi, da’ precursori, a noi vien detto

  Ch’alto strepito d’arme avean sentito:

  E viste insegne e indizj, onde han sospetto

  108 Che sia vicino esercito infinito.

  Non pensier, non color, non cangia aspetto,

  Non muta voce il Signor nostro ardito;

  Benchè molti vi sian ch’al fero avviso

  112 Tingan di bianca pallidezza il viso.

  XV.

  Ma dice: oh quale omai vicina abbiamo

  Corona o di martirio, o di vittoria:

  L’una spero io ben più; ma non men bramo

  116 L’altra, ove è maggior merto, e pari gloria.

  Questo campo, o fratelli, ove or noi siamo,

  Fia tempio sacro ad immortal memoria:

  In cui l’età futura addíti e mostri

  120 Le nostre sepolture, o i trofei nostri.

  XVI.

  Così parla; e le guardie indi dispone,

  E gli ufficj comparte, e la fatica.

  Vuol ch’armato ognun giaccia, e non depone

  124 Ei medesmo gli arnesi, o la lorica.

/>   Era la notte ancor nella stagione

  Ch’è più del sonno e del silenzio amica;

  Allor che d’urli barbareschi udissi

  128 Romor che giunse al cielo ed agli abissi.

  XVII.

  Si grida all’arme, all’arme; e Sveno, involto

  Nell’arme, innanzi a tutti oltre si spinge:

  E magnanimamente i lumi e ‘l volto

  132 Di color, d’ardimento, infiamma e tinge.

  Ecco siamo assaliti, e un cerchio folto

  Da tutti i lati ne circonda e stringe:

  E intorno un bosco abbiam d’aste e di spade,

  136 E sovra noi di strali un nembo cade.

  XVIII.

  Nella pugna inegual (perocchè venti

  Gli assalitori sono incontra ad uno)

  Molti d’essi piagati, e molti spenti

  140 Son da cieche ferite all’aer bruno.

  Ma il numero degli egri e de’ cadenti

  Fra l’ombre oscure non discerne alcuno.

  Copre la notte i nostri danni, e l’opre

  144 Della nostra virtute insieme copre.

  XIX.

  Pur sì fra gli altri Sveno alza la fronte,

  Ch’agevol è che ognun vedere il possa:

  E nel bujo sue prove anco son conte

  148 A chi vi mira, e l’incredibil possa.

  Di sangue un rio, d’uomini uccisi un monte

  D’ogn’intorno gli fanno argine, e fossa:

  E dovunque ne va sembra che porte

  152 Lo spavento negli occhj, e in man la morte.

  XX.

  Così pugnato fu, finchè l’albóre

  Rosseggiando nel Ciel già n’apparia.

  Ma poi che scosso fu il notturno orrore

  156 Che l’orror delle morti in se copria,

  La desiata luce a noi terrore

  Con vista accrebbe dolorosa e ria;

  Chè pien d’estinti il campo, e quasi tutta

  160 Nostra gente vedemmo omai distrutta.

  XXI.

  Duomila fummo, e non siam cento; or quando

  Tanto sangue egli mira e tante morti,

  Non so se ‘l cor feroce al miserando

  164 Spettacolo si turbi, e si sconforti;

  Ma già no ‘l mostra; anzi la voce alzando,

  Seguiam, ne grida, que’ compagni forti

  Ch’al Ciel, lunge dai laghi Averni e Stigj,

  168 N’han segnati col sangue alti vestigj.

  XXII.

  Disse; e lieto, cred′io, della vicina

  Morte, così nel cor come al sembiante,

  Incontro alla barbarica ruina

  172 Portonne il petto intrepido e costante.

  Tempra non sosterrebbe, ancor che fina

  Fosse, e d’acciajo nò, ma di diamante,

  I feri colpi ond′egli il campo allaga:176E fatto è il corpo suo solo una piaga.

  XXIII.

  La vita nò, ma la virtù sostenta

  Quel cadavero indomito e feroce.

  Ripercuote percosso, e non s’allenta;180Ma quanto offeso è più, tanto più noce:

 

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