E con la fronte le sue genti altere,
E con la lingua a vendicarlo desta:
Vedi tosto inchinar giù le visiere,
828 Lentare i freni, e por le lancie in resta;
E quasi in un sol punto alcune schiere
Da quella parte muoversi, e da questa.
Sparisce il campo, e la minuta polve,
832 Con densi globi, al ciel s’innalza e volve.
CV.
D’elmi e scudi percossi, e d’aste infrante
Ne’ primi scontri un gran romor s’aggira.
Là giacere un cavallo, e girne errante
836 Un altro là senza rettor si mira:
Quì giace un guerrier morto, e quì spirante
Altri singhiozza e geme, altri sospira.
Fera è la pugna, e quanto più si mesce
840 E stringe insieme, più s’inaspra e cresce.
CVI.
Salta Argante nel mezzo agile e sciolto,
E toglie ad un guerrier ferrata mazza:
E, rompendo lo stuol calcato e folto,
844 La rota intorno, e si fa larga piazza.
E sol cerca Raimondo, e in lui sol volto
Ha il ferro, e l’ira impetuosa e pazza:
E quasi avido lupo, ei par che brame
848 Nelle viscere sue pascer la fame.
CVII.
Ma duro ad impedir viengli il sentiero
E fero intoppo, acciocchè ‘l corso ei tardi.
Si trova incontra Ormanno, e con Ruggiero
852 Di Balnavilla, un Guido, e due Gherardi.
Non cessa, non s’allenta, anzi è più fero,
Quanto ristretto è più da que’ gagliardi;
Siccome, a forza, da rinchiuso loco
856 Se n’esce e muove alte ruine il foco.
CVIII.
Uccide Ormanno, piaga Guido, atterra
Ruggiero infra gli estinti egro e languente.
Ma contra lui crescon le turbe, e ‘l serra
860 D’uomini e d’arme cerchio aspro e pungente.
Mentre, in virtù di lui, pari la guerra
Si mantenea fra l’una e l’altra gente;
Il buon Duce Buglion chiama il fratello,
864 Ed a lui dice: or muovi il tuo drappello.
CIX.
E là dove battaglia è più mortale,
Vattene ad investir nel lato manco.
Quegli si mosse, e fu lo scontro tale
868 Ond’egli urtò degli avversarj il fianco,
Che parve il popol d’Asia imbelle e frale;
Nè potè sostener l’impeto Franco
Che gli ordini disperde, e co’ destrieri
872 L’insegne insieme abbatte, e i cavalieri.
CX.
Dall’impeto medesmo in fuga è volto
Il destro corno: e non v’è alcun che faccia,
Fuor che Argante, difesa; a freno sciolto
876 Così il timor precipiti gli caccia.
Egli sol ferma il passo, e mostra il volto:
Nè chi con mani cento, e cento braccia
Cinquanta scudi insieme ed altrettante
880 Spade movesse, or più faria d’Argante.
CXI.
Ei gli stocchi e le mazze, egli dell’aste
E de’ corsieri l’impeto sostenta:
E solo par che incontra tutti baste:
884 Ed ora a questo, ed ora a quel s’avventa.
Peste ha le membra, e rotte l’arme e guaste,
E sudor versa e sangue, e par nol senta.
Ma così l’urta il popol denso e ‘l preme,
888 Ch’alfin lo svolge, e seco il porta insieme.
CXII.
Volge il tergo alla forza ed al furore
Di quel diluvio che ‘l rapisce, e ‘l tira.
Ma non già d’uom che fugga ha i passi, e ‘l core;
892 S’all’opre della mano il cor si mira.
Serbano ancora gli occhj il lor terrore,
E le minacce della solita ira:
E cerca ritener con ogni prova
896 La fuggitiva turba, e nulla giova.
CXIII.
Non può far quel magnanimo ch’almeno
Sia lor fuga più tarda, o più raccolta:
Chè non ha la paura arte, nè freno,
900 Nè pregar quì, nè comandar s’ascolta.
Il pio Buglion, che i suoi pensieri appieno
Vede Fortuna a favorir rivolta,
Segue della vittoria il lieto corso,
904 E invia novello ai vincitor soccorso.
CXIV.
E se non che non era il dì che scritto
Dio negli eterni suoi decreti avea;
Quest’era forse il dì che ‘l campo invitto,
908 Delle sante fatiche al fin giungea.
Ma la schiera infernal che in quel conflitto
La tirannide sua cader vedea;
Sendole ciò permesso, in un momento
912 L’aria in nube ristrinse, e mosse il vento.
CXV.
Dagli occhj de’ mortali un negro velo
Rapisce il giorno e ‘l Sole: e par ch’avvampi
Negro, via più ch’orror d’inferno, il Cielo;
916 Così fiammeggia infra baleni e lampi.
Fremono i tuoni, e pioggia accolta in gelo
Si versa, e i paschi abbatte, e inonda i campi:
Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli
920 Non pur le querce, ma le rocche, e i colli.
CXVI.
L’acqua in un tempo, il vento, e la tempesta
Negli occhj ai Franchi impetuosa fere:
E l’improvvisa violenza arresta,
924 Con un terror quasi fatal, le schiere.
La minor parte d’esse accolta resta
(Che veder non le puote) alle bandiere.
Ma Clorinda, che quindi alquanto è lunge,
928 Prende opportuno il tempo, e ‘l destrier punge.
CXVII.
Ella gridava ai suoi: per noi combatte,
Compagni, il Cielo, e la giustizia aita.
Dall’ira sua le facce nostre intatte
932 Sono, e non è la destra indi impedita:
E nella fronte solo irato ei batte
Della nemica gente impaurita,
E la scuote dell’arme, e della luce
936 La priva: andianne pur, chè ‘l Fato è duce.
CXVIII.
Così spinge le genti, e ricevendo
Sol nelle spalle l’impeto d’Inferno,
Urta i Francesi con assalto orrendo,
940 E i vani colpi lor si prende a scherno.
Ed in quel tempo Argante anco, volgendo,
Fa de’ già vincitori aspro governo;
E quei, lasciando il campo a tutto corso,
944 Volgono al ferro e alle procelle il dorso.
CXIX.
Percuotono le spalle ai fuggitivi
L’ire mortali, e le mortali spade,
E ‘l sangue corre, e fa, commisto ai rivi
948 Della gran pioggia, rosseggiar le strade.
Quì, tra ‘l volgo de’ morti e de’ mal vivi,
E Pirro, e ‘l buon Ridolfo estinto cade;
E toglie a questo il fier Circasso l’alma,
952 E Clorinda di quello ha nobil palma.
CXX.
Così fuggiano i Franchi, e di lor caccia
Non rimaneano i Siri anco, o i Demoni.
Sol contra l’arme, e contra ogni minaccia
956 Di gragnuole, di turbini, e di tuoni
Volgea Goffredo la sicura faccia,
Rampognando aspramente i suoi Baroni;
E fermo anzi la porta il gran cavallo,
960 Le genti sparse raccogliea nel vallo.
CXXI.
E ben due volte il corridor sospinse
Contra il feroce Argante, e lui ripresse;
Ed altrettante il nudo ferro spinse
964 Dove le turbe ostíli eran più spesse;
Alfin con gli altri insieme ei si ristrinse
Dentro ai ripari, e la vittoria cesse.
Tornano allora i Saracini: e stanchi
968 Restan nel vallo, e sbigottiti i Franchi.
CXXII.
Nè quivi ancor dell’orride procelle
Ponno appieno schivar la forza, e l’ira;
Ma sono estinte or queste faci, or quelle,
972 E per tutto entra l’acqua: il vento spira,
Squarcia le tele, e spezza i pali, e svelle
Le tende intere, e lunge indi le gira;
La pioggia ai gridi, ai venti, ai tuon s’accorda
976 D’orribile armonia che ‘l mondo assorda.
Canto ottavo
ARGOMENTO.
Narra a Goffredo del signor de’ Dani
Il valor prima un messo, e poi la morte.
Credendo quei d’Italia a’ segni vani,
Stimano estinto il lor Rinaldo forte.
Dunque al furor ch’Aletto spira, insani
Di soverchia ira e d’odio, apron le porte:
E minaccian Goffredo: ei con la voce
Sola in lor frena l’impeto feroce.
CANTO OTTAVO.
Già cheti erano i tuoni e le tempeste,
E cessato il soffiar d’Austro e di Coro:
E l’alba uscia della magion celeste
4 Colla fronte di rose, e co’ piè d’oro.
Ma quei che le procelle avean già deste,
Non rimaneansi ancor dall’arti loro;
Anzi l’un d’essi, ch’Astagorre è detto,
8 Così parlava alla compagna Aletto:
II.
Mira, Aletto, venirne (ed impedito
Esser non può da noi) quel cavaliero,
Che dalle fere mani è vivo uscito
12 Del sovran difensor del nostro impero.
Questi, narrando del suo Duce ardito
E de’ compagni ai Franchi il caso fero,
Paleserà gran cose: onde è periglio
16 Che si richiami di Bertoldo il figlio.
III.
Sai quanto ciò rilevi, e se conviene
Ai gran principj oppor forza ed inganno.
Scendi tra i Franchi dunque, e ciò ch’a bene
20 Colui dirà, tutto rivolgi in danno:
Spargi le fiamme e ‘l tosco entro le vene
Del Latin, dell’Elvezio, e del Britanno:
Movi l’ire e i tumulti, e fà tal’opra,
24 Che tutto vada il campo alfin sossopra.
IV.
L’opra è degna di te: tu nobil vanto
Ten desti già dinanzi al signor nostro.
Così le parla: e basta ben sol tanto,
28 Perchè prenda l’impresa il fero mostro.
Giunto è sul vallo de’ Cristiani intanto
Quel cavaliero, il cui venir fu mostro:
E disse lor: deh sia chi m’introduca
32 Per mercede, o guerrieri, al sommo Duca.
V.
Molti scorta gli furo al Capitano,
Vaghi d’udir del peregrin novelle.
Egli inchinollo, e l’onorata mano
36 Volea baciar che fa tremar Babelle.
Signor, poi dice, che con l’Oceano
Termini la tua fama, e con le stelle,
Venirne a te vorrei più lieto messo....
40 Qui sospirava, e soggiungeva appresso:
VI.
Sveno, del Re de’ Dani unico figlio,
Gloria e sostegno alla cadente etade,
Esser tra quei bramò, che ‘l tuo consiglio
44 Seguendo, han cinto per Gesù le spade:
Nè timor di fatica, o di periglio,
Nè vaghezza del regno, nè pietade
Del vecchio genitor, sì degno affetto
48 Intepidir nel generoso petto.
VII.
Lo spingeva un desio d’apprender l’arte
Della milizia faticosa e dura
Da te sì nobil mastro: e sentia in parte
52 Sdegno e vergogna di sua fama oscura;
Già di Rinaldo il nome in ogni parte
Con gloria udendo in verdi anni matura:
Ma più ch’altra cagione, il mosse il zelo
56 Non del terren, ma dell’onor del Cielo.
VIII.
Precipitò dunque gl’indugi, e tolse
Stuol di scelti compagni audace e fero:
E dritto inver la Tracia il cammin volse
60 Alla Città che sede è dell’impero:
Quì il Greco Augusto in sua magion l’accolse:
Quì poi giunse in tuo nome un messaggiero:
Questi appien gli narrò come già presa
64 Fosse Antiochia, e come poi difesa.
IX.
Difesa incontra al Perso, il qual con tanti
Uomini armati ad assediarvi mosse,
Che sembrava che d’arme, e d’abitanti
68 Voto il gran regno suo rimaso fosse.
Di te gli disse, e poi narrò d’alquanti
Sinch’a Rinaldo giunse, e quì fermosse:
Contò l’ardita fuga, e ciò che poi
72 Fatto di glorioso avea tra voi.
X.
Soggiunse alfin come già il popol Franco
Veniva a dar l’assalto a queste porte:
E invitò lui ch’egli volesse almanco
76 Dell’ultima vittoria esser consorte.
Questo parlare, al giovenetto fianco
Del fero Sveno, è stimolo sì forte,
Ch’ognora un lustro pargli infra’ Pagani
80 Rotare il ferro, e insanguinar le mani.
XI.
Par che la sua viltà rimproverarsi
Senta nell’altrui gloria, e se ne rode:
E chi’l consiglia, e chi’l prega a fermarsi,
84 O che non esaudisce, o che non ode.
Rischio non teme, fuorchè ‘l non trovarsi
De’ tuoi gran rischj a parte e di tua lode:
Questo gli sembra sol periglio grave;88Degli altri o nulla intende, o nulla pave.
XII.
Egli medesmo sua fortuna affretta;
Fortuna che noi tragge, e lui conduce:
Peroch’appena al suo partire aspetta
92 I primi rai della novella luce.
È per miglior la via più breve eletta;
Tale ei la stima, ch’è Signore, e Duce:
Nè i passi più difficili o i paesi
96 Schivar si cerca de’ nemici offesi.
XIII.
Or difetto di cibo, or cammin duro
Trovammo, or violenza, ed or aguati;
Ma tutti fur vinti i disagj, e furo
100 Or uccisi i nemici, ed or fugati.
Fatto avean ne’ periglj ogni uom sicuro
Le vittorie, e insolenti i fortunati:
Quando un dì ci accampammo ove i confini
104 Non lunge erano omai de’ Palestini.
XIV.
Quivi, da’ precursori, a noi vien detto
Ch’alto strepito d’arme avean sentito:
E viste insegne e indizj, onde han sospetto
108 Che sia vicino esercito infinito.
Non pensier, non color, non cangia aspetto,
Non muta voce il Signor nostro ardito;
Benchè molti vi sian ch’al fero avviso
112 Tingan di bianca pallidezza il viso.
XV.
Ma dice: oh quale omai vicina abbiamo
Corona o di martirio, o di vittoria:
L’una spero io ben più; ma non men bramo
116 L’altra, ove è maggior merto, e pari gloria.
Questo campo, o fratelli, ove or noi siamo,
Fia tempio sacro ad immortal memoria:
In cui l’età futura addíti e mostri
120 Le nostre sepolture, o i trofei nostri.
XVI.
Così parla; e le guardie indi dispone,
E gli ufficj comparte, e la fatica.
Vuol ch’armato ognun giaccia, e non depone
124 Ei medesmo gli arnesi, o la lorica.
/> Era la notte ancor nella stagione
Ch’è più del sonno e del silenzio amica;
Allor che d’urli barbareschi udissi
128 Romor che giunse al cielo ed agli abissi.
XVII.
Si grida all’arme, all’arme; e Sveno, involto
Nell’arme, innanzi a tutti oltre si spinge:
E magnanimamente i lumi e ‘l volto
132 Di color, d’ardimento, infiamma e tinge.
Ecco siamo assaliti, e un cerchio folto
Da tutti i lati ne circonda e stringe:
E intorno un bosco abbiam d’aste e di spade,
136 E sovra noi di strali un nembo cade.
XVIII.
Nella pugna inegual (perocchè venti
Gli assalitori sono incontra ad uno)
Molti d’essi piagati, e molti spenti
140 Son da cieche ferite all’aer bruno.
Ma il numero degli egri e de’ cadenti
Fra l’ombre oscure non discerne alcuno.
Copre la notte i nostri danni, e l’opre
144 Della nostra virtute insieme copre.
XIX.
Pur sì fra gli altri Sveno alza la fronte,
Ch’agevol è che ognun vedere il possa:
E nel bujo sue prove anco son conte
148 A chi vi mira, e l’incredibil possa.
Di sangue un rio, d’uomini uccisi un monte
D’ogn’intorno gli fanno argine, e fossa:
E dovunque ne va sembra che porte
152 Lo spavento negli occhj, e in man la morte.
XX.
Così pugnato fu, finchè l’albóre
Rosseggiando nel Ciel già n’apparia.
Ma poi che scosso fu il notturno orrore
156 Che l’orror delle morti in se copria,
La desiata luce a noi terrore
Con vista accrebbe dolorosa e ria;
Chè pien d’estinti il campo, e quasi tutta
160 Nostra gente vedemmo omai distrutta.
XXI.
Duomila fummo, e non siam cento; or quando
Tanto sangue egli mira e tante morti,
Non so se ‘l cor feroce al miserando
164 Spettacolo si turbi, e si sconforti;
Ma già no ‘l mostra; anzi la voce alzando,
Seguiam, ne grida, que’ compagni forti
Ch’al Ciel, lunge dai laghi Averni e Stigj,
168 N’han segnati col sangue alti vestigj.
XXII.
Disse; e lieto, cred′io, della vicina
Morte, così nel cor come al sembiante,
Incontro alla barbarica ruina
172 Portonne il petto intrepido e costante.
Tempra non sosterrebbe, ancor che fina
Fosse, e d’acciajo nò, ma di diamante,
I feri colpi ond′egli il campo allaga:176E fatto è il corpo suo solo una piaga.
XXIII.
La vita nò, ma la virtù sostenta
Quel cadavero indomito e feroce.
Ripercuote percosso, e non s’allenta;180Ma quanto offeso è più, tanto più noce:
Jerusalem Delivered Page 125