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Jerusalem Delivered

Page 124

by Torquato Tasso


  Parimente maturo avea il consiglio,

  E verdi ancor le forze a par di quanti

  488 Erano quivi, allor si trasse avanti.

  LXII.

  E disse a lui rivolto: ah non sia vero

  Che in un capo s’arrischi il campo tutto.

  Duce sei tu, non semplice guerriero:

  492 Pubblico fora, e non privato il lutto.

  In te la fe s’appoggia, e ‘l santo impero.

  Per te fia il regno di Babel distrutto:

  Tu il senno sol, lo scettro solo adopra;

  496 Altri ponga l’ardire, e ‘l ferro in opra.

  LXIII.

  Ed io, bench’a gir curvo mi condanni

  La grave età, non fia che ciò ricusi.

  Schivino gli altri i marziali affanni;

  500 Me non vuò già che la vecchiezza scusi.

  Oh foss’io pur sul mio vigor degli anni

  Qual sete or voi, che quì temendo chiusi

  Vi state, e non vi move ira o vergogna

  504 Contra lui che vi sgrida, e vi rampogna:

  LXIV.

  E quale allora fui, quando al cospetto

  Di tutta la Germania, alla gran corte

  Del secondo Corrado, apersi il petto

  508 Al feroce Leopoldo, e ‘l posi a morte.

  E fu d’alto valor più chiaro effetto

  Le spoglie riportar d’uom così forte,

  Che s’alcuno or fugasse, inerme e solo,

  512 Di questa ignobil turba un grande stuolo.

  LXV.

  Se fosse in me quella virtù, quel sangue,

  Di questo altier l’orgoglio avrei già spento.

  Ma qualunque io mi sia, non però langue

  516 Il core in me, nè vecchio anco pavento.

  E s’io pur rimarrò nel campo esangue,

  Nè il Pagan di vittoria andrà contento:

  Armarmi io vuò; sia questo il dì ch’illustri,

  520 Con novo onor, tutti i miei scorsi lustri.

  LXVI.

  Così parla il gran vecchio; e sproni acuti

  Son le parole onde virtù si desta.

  Quei che fur prima timorosi e muti,

  524 Hanno la lingua or baldanzosa e presta.

  Nè sol non v’è che la tenzon rifiuti;

  Ma ella omai da molti a gara è chiesta.

  Baldovin la domanda, e con Ruggiero

  528 Guelfo, i due Guidi, e Stefano, e Gerniero;

  LXVII.

  E Pirro, quel che fè il lodato inganno,

  Dando Antiochia presa a Boemondo;

  Ed a prova richiesta anco ne fanno

  532 Eberardo, Ridolfo, e ‘l prò Rosmondo:

  Un di Scozia, un d’Irlanda, ed un Britanno,

  Terre che parte il mar dal nostro mondo:

  E ne son parimente anco bramosi

  536 Gildippe ed Odoardo amanti e sposi.

  LXVIII.

  Ma sovra tutti gli altri il fiero vecchio

  Se ne dimostra cupido ed ardente.

  Armato è già; sol manca all’apparecchio

  540 Degli altri arnesi il fino elmo lucente.

  A cui dice Goffredo: o vivo specchio

  Del valor prisco, in te la nostra gente

  Miri, e virtù n’apprenda: in te di Marte

  544 Splende l’onor, la disciplina, e l’arte.

  LXIX.

  Oh pur avessi fra l’etade acerba

  Dieci altri di valor al tuo simíle,

  Come ardirei vincer Babel superba,

  548 E la Croce spiegar da Battro a Tile.

  Ma cedi or, prego, e te medesmo serba

  A maggior opre, e di virtù seníle:

  E lascia che degli altri in picciol vaso

  552 Pongansi i nomi, e sia giudice il caso.

  LXX.

  Anzi giudice Dio, delle cui voglie

  Ministra e serva è la Fortuna, e ‘l Fato.

  Ma non però dal suo pensier si toglie

  556 Raimondo, e vuol’anch’egli esser notato.

  Nell’elmo suo Goffredo i brevi accoglie:

  E poi che l’ebbe scosso ed agitato,

  Nel primo breve che di là traesse,

  560 Del Conte di tolosa il nome lesse.

  LXXI.

  Fu il nome suo con lieto grido accolto:

  Nè di biasmar la sorte alcun ardisce.

  Ei di fresco vigor la fronte e ‘l volto

  564 Riempie: e così allor ringiovenisce,

  Qual serpe fier, che in nuove spoglie avvolto,

  D’oro fiammeggi, e incontra il Sol si lisce.

  Ma più d’ogn’altro il Capitan gli applaude,

  568 E gli annunzia vittoria, e gli dà laude.

  LXXII.

  E la spada togliendosi dal fianco,

  E porgendola a lui, così dicea:

  Questa è la spada, che in battaglia il Franco

  572 Rubello di Sassonia oprar solea;

  Ch’io già gli tolsi a forza, e gli tolsi anco

  La vita allor di mille colpe rea.

  Questa, che meco ogn’or fu vincitrice,

  576 Prendi; e sia così teco ora felice.

  LXXIII.

  Di loro indugio intanto è quell’altero

  Impaziente, e li minaccia, e grida:

  O gente invitta, o popolo guerriero

  580 D’Europa, un uomo solo è che vi sfida.

  Venga Tancredi omai che par sì fero,

  Se nella sua virtù tanto si fida;

  O vuol, giacendo in piume, aspettar forse

  584 La notte ch’altre volte a lui soccorse?

  LXXIV.

  Venga altri, s’egli teme: a stuolo a stuolo

  Venite insieme, o cavalieri, o fanti;

  Poichè di pugnar meco a solo a solo

  588 Non v’è fra mille schiere uom che si vanti.

  Vedete là il sepolcro, ove il figliuolo

  Di Maria giacque; or chè non gite avanti?

  Chè non sciogliete i voti? ecco la strada.

  592 A qual serbate uopo maggior la spada?

  LXXV.

  Con tali scherni il Saracino atroce,

  Quasi con dura sferza, altrui percuote;

  Ma più ch’altri Raimondo a quella voce

  596 S’accende, e l’onte sofferir non puote.

  La virtù stimolata è più feroce,

  E s’aguzza dell’ira all’aspra cote:

  Sicchè tronca gl’indugj, e preme il dorso

  600 Del suo Aquilino, a cui diè ‘l nome il corso.

  LXXVI.

  Sul Tago il destrier nacque, ove talora

  L’avida madre del guerriero armento,

  Quando l’alma stagion che n’innamora,

  604 Nel cor le instiga il natural talento,

  Volta l’aperta bocca incontra l’ora,

  Raccoglie i semi del fecondo vento:

  E de’ tepidi fiati (o maraviglia!)

  608 Cupidamente ella concépe, e figlia.

  LXXVII.

  E ben questo Aquilin nato diresti

  Di quale aura del Ciel più lieve spiri;

  O se veloce sì, ch’orma non resti,

  612 Stendere il corso per l’arena il miri;

  O se ‘l vedi addoppiar leggieri e presti,

  A destra ed a sinistra, angusti giri.

  Sovra tal corridore il Conte assiso

  616 Move all’assalto, e volge al Cielo il viso.

  LXXVIII.

  Signor, tu che drizzasti incontra l’empio

  Golía l’arme inesperte in Terebinto:

  Sicch’ei ne fu, che d’Israel fea scempio,

  620 Al primo sasso d’un garzone estinto;

  Tu fà ch’or giaccia (e fia pari l’esempio)

  Questo fellon da me percosso, e vinto:

  E debil vecchio or la superbia opprima,

  624 Come debil fanciul l’oppresse in prima.

  LXXIX.

  Così pregava il Conte: e le preghiere,

  Mosse dalla speranza in Dio sicura,

  S’alzar vol
ando alle celesti spere,

  628 Come va foco al Ciel per sua natura.

  Le accolse il Padre eterno, e fra le schiere

  Dell’esercito suo tolse alla cura

  Un che ‘l difenda: e sano, e vincitore

  632 Dalle man di quell’empio il tragga fuore.

  LXXX.

  L’Angelo, che fu già custode eletto

  Dall’alta provvidenza al buon Raimondo,

  Insin dal primo dì che pargoletto

  636 Sen venne a farsi peregrin del mondo;

  Or che di novo il Re del ciel gli ha detto

  Che prenda in se della difesa il pondo,

  Nell’alta rocca ascende, ove dell’oste

  640 Divina tutte son l’arme riposte.

  LXXXI.

  Quì l’asta si conserva, onde il serpente

  Percosso giacque, e i gran fulminei strali:

  E quegli ch’invisibili alla gente

  644 Portan l’orride pesti e gli altri mali:

  E quì sospeso è in alto il gran tridente,

  Primo terror de’ miseri mortali,

  Quando egli avvien che i fondamenti scuota

  648 Dell’ampia terra, e le città percuota.

  LXXXII.

  Si vedea fiammeggiar fra gli altri arnesi

  Scudo di lucidissimo diamante:

  Grande che può coprir genti e paesi,

  652 Quanti ve n’ha fra il Caucaso, e l’Atlante:

  E sogliono da questo esser difesi

  Principi giusti, e città caste e sante.

  Questo l’Angelo prende, e vien con esso

  656 Occultamente al suo Raimondo appresso.

  LXXXIII.

  Piene intanto le mura eran già tutte

  Di varia turba; e ‘l barbaro Tiranno

  Manda Clorinda, e molte genti instrutte,

  660 Che, ferme a mezzo il colle, oltre non vanno.

  Dall’altro lato in ordine ridutte

  Alcune schiere di Cristiani stanno:

  E largamente a’ due campioni il campo

  664 Voto riman fra l’uno e l’altro Campo.

  LXXXIV.

  Mirava Argante, e non vedea Tancredi,

  Ma d’ignoto campion sembianze nuove.

  Fecesi il Conte innanzi; e, quel che chiedi,

  668 È, disse a lui, per tua ventura altrove.

  Non superbir però chè me quì vedi

  Apparecchiato a riprovar tue prove:

  Ch’io di lui posso sostener la vice,

  672 O venir come terzo a me quì lice.

  LXXXV.

  Ne sorride il superbo, e gli risponde:

  Che fa dunque Tancredi, e dove stassi?

  Minaccia il Ciel con l’arme, e poi s’asconde,

  676 Fidando sol ne’ suoi fugaci passi.

  Ma fugga pur nel centro, o in mezzo l’onde,

  Chè non fia loco ove sicuro il lassi.

  Menti, replica l’altro, a dir ch’uom tale

  680 Fugga da te; ch’assai di te più vale.

  LXXXVI.

  Freme il Circasso irato, e dice: or prendi

  Del campo tu, chè in vece sua t’accetto:

  E tosto e’ si parrà come difendi

  684 L’alta follia del temerario detto.

  Così mossero in giostra, e i colpi orrendi

  Parimente drizzaro ambi all’elmetto:

  E ‘l buon Raimondo, ove mirò, scontrollo,

  688 Nè dar gli fece nell’arcion pur crollo.

  LXXXVII.

  Dall’altra parte il fero Argante corse

  (Fallo insolito a lui) l’arringo invano:

  Chè ‘l difensor celeste il colpo torse

  692 Dal custodito cavalier Cristiano.

  Le labbra, il crudo, per furor si morse,

  E ruppe l’asta, bestemmiando, al piano.

  Poi tragge il ferro, e va contra Raimondo

  696 Impetuoso al paragon secondo.

  LXXXVIII.

  E ‘l possente corsiero urta per dritto,

  Quasi monton ch’al cozzo il capo abbassa.

  Schiva Raimondo l’urto, al lato dritto

  700 Piegando il corso, e ‘l fere in fronte, e passa.

  Torna di novo il cavalier d’Egitto:

  Ma quegli pur di novo a destra il lassa;

  E pur sull’elmo il coglie, e indarno sempre;

  704 Chè l’elmo adamantine avea le tempre.

  LXXXIX.

  Ma il feroce Pagan, che seco vuole

  Più stretta zuffa, a lui s’avventa e serra.

  L’altro, ch’al peso di sì vasta mole

  708 Teme d’andar col suo destriero a terra,

  Quì cede, ed indi assale; e par che vole,

  Intorniando con girevol guerra;

  E i lievi imperj il rapido cavallo

  712 Segue del freno, e non pone orma in fallo.

  XC.

  Qual Capitan ch’oppugni eccelsa torre

  Infra paludi posta o in alto monte,

  Mille aditi ritenta, e tutte scorre

  716 L’arti e le vie; cotal s’aggira il Conte.

  E poi che non può scaglia all’arme torre

  Ch’armano il petto, e la superba fronte;

  Fere i men forti arnesi, ed alla spada

  720 Cerca, tra ferro e ferro, aprir la strada.

  XCI.

  Ed in due parti o in tre forate, e fatte

  L’arme nemiche ha già tepide e rosse:

  Ed egli ancor le sue conserva intatte,

  724 Nè di cimier, nè d’un sol fregio scosse.

  Argante indarno arrabbia, a voto batte,

  E spande senza pro l’ire e le posse.

  Non si stanca però; ma raddoppiando

  728 Va tagli e punte, e si rinforza errando.

  XCII.

  Alfin tra mille colpi il Saracino

  Cala un fendente, e ‘l Conte è così presso,

  Che forse il velocissimo Aquilino

  732 Non sottraggeasi, e rimaneane oppresso;

  Ma l’ajuto invisibile vicino

  Non mancò a lui di quel superno messo,

  Che stese il braccio, e tolse il ferro crudo

  736 Sovra il diamante del celeste scudo.

  XCIII.

  Frangesi il ferro allor (chè non resiste

  Di fucina mortal tempra terrena

  Ad armi incorruttibili ed immiste

  740 D’eterno fabbro) e cade in su l’arena.

  Il Circasso, ch’andarne a terra ha viste

  Minutissime parti, il crede appena.

  Stupisce poi, scorta la mano inerme,

  744 Ch’arme il campion nemico abbia sì ferme.

  XCIV.

  E ben rotta la spada aver si crede

  Su l’altro scudo, onde è colui difeso:

  E ‘l buon Raimondo ha la medesma fede,

  748 Chè non sa già chi sia dal Ciel disceso.

  Ma, perocch’egli disarmata vede

  La man nemica, si riman sospeso;

  Chè stima ignobil palma, e vili spoglie

  752 Quelle ch’altrui, con tal vantaggio, uom toglie.

  XCV.

  Prendi, volea già dirgli, un’altra spada:

  Quando novo pensier nacque nel core:

  Ch’alto scorno è de’ suoi, dove egli cada,

  756 Chè di pubblica causa è difensore.

  Così nè indegna a lui vittoria aggrada,

  Nè in dubbio vuol porre il comune onore.

  Mentre egli dubbio stassi, Argante lancia

  760 Il pomo e l’else alla nemica guancia.

  XCVI.

  E in quel tempo medesmo il destrier punge,

  E per venire a lotta oltra si caccia.

  La percossa lanciata all’elmo giunge,

  764 Sicchè ne pesta al Tolosan la faccia.

  Ma però nulla sbigottisce, e lunge

  Ratto si svia dalle robuste braccia;

  Ed impiaga la man, ch’a dar di piglio

  768 Venia più fera che ferino artiglio.

  XCVII.


  Poscia gira da questa a quella parte,

  E rigirasi a questa, indi da quella:

  E sempre, e dove riede, e donde parte

  772 Fere il Pagan d’aspra percossa e fella.

  Quanto avea di vigor, quanto avea d’arte,

  Quanto può sdegno antico, ira novella,

  A danno del Circasso or tutto aduna;

  776 E seco il Ciel congiura, e la Fortuna.

  XCVIII.

  Quei di fine arme, e di se stesso armato

  Ai gran colpi resiste, e nulla pave:

  E par senza governo, in mar turbato,

  780 Rotte vele ed antenne, eccelsa nave;

  Che pur contesto avendo ogni suo lato

  Tenacemente di robusta trave,

  Sdruciti i fianchi al tempestoso flutto

  784 Non mostra ancor, nè si dispera in tutto.

  XCIX.

  Argante, il tuo periglio allor tal era,

  Quando ajutarti Belzebù dispose.

  Questi di cava nube ombra leggiera

  788 (Mirabil mostro!) in forma d’uom compose:

  E la sembianza di Clorinda altera

  Gli finse, e l’arme ricche e luminose:

  Diegli il parlare, e, senza mente, il noto

  792 Suon della voce e ‘l portamento e ‘l moto.

  C.

  Il simulacro ad Oradino esperto

  Sagittario famoso andonne, e disse:

  O famoso Oradin, ch’a segno certo,

  796 Come a te piace, le quadrella affisse;

  Ah gran danno saria, s’uom di tal merto,

  Difensor di Giudea, così morisse:

  E di sue spoglie il suo nemico adorno

  800 Sicuro ne facesse a’ suoi ritorno.

  CI.

  Quì fà prova dell’arte, e le saette

  Tingi nel sangue del ladron Francese:

  Ch’oltra il perpetuo onor, vuò che n’aspette

  804 Premio al gran fatto egual dal Re cortese.

  Così parlò, nè quegli in dubbio stette,

  Tosto che ‘l suon delle promesse intese.

  Dalla grave faretra un quadrel prende,

  808 E su l’arco l’adatta, e l’arco tende.

  CII.

  Sibila il teso nervo, e fuori spinto

  Vola il pennuto stral per l’aria, e stride:

  Ed a percuoter va dove del cinto

  812 Si congiungon le fibbie, e le divide;

  Passa l’usbergo, e in sangue appena tinto

  Quivi si ferma, e sol la pelle incide;

  Chè ‘l celeste guerrier soffrir non volse

  816 Ch’oltra passasse, e forza al colpo tolse.

  CIII.

  Dell’usbergo lo stral si tragge il Conte,

  Ed ispicciarne fuori il sangue vede:

  E con parlar pien di minacce ed onte

  820 Rimprovera al Pagan la rotta fede.

  Il Capitan, che non torcea la fronte

  Dall’amato Raimondo, allor s’avvede

  Che violato è il patto: e perchè grave

  824 Stima la piaga, ne sospira e pave.

  CIV.

 

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