Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 130

by Torquato Tasso


  VII.

  Alfin, quando già tutte intorno chete

  Nella più alta notte eran le cose,

  Vinto egli pur dalla stanchezza, in Lete

  52 Sopì le cure sue gravi e nojose;

  E in una breve e languida quiete

  L’afflitte membra e gli occhj egri compose:

  E mentre ancor dormia, voce severa

  56 Gl’intonò su le orecchie in tal maniera:

  VIII.

  Soliman Solimano, i tuoi sì lenti

  Riposi a miglior tempo omai riserva;

  Chè sotto il giogo di straniere genti

  60 La patria, ove regnasti, ancor è serva.

  In questa terra dormi, e non rammenti

  Ch’insepolte de’ tuoi l’ossa conserva?

  Ove sì gran vestigio è del tuo scorno,

  64 Tu, neghittoso, aspetti il novo giorno?

  IX.

  Desto il Soldano, alza lo sguardo e vede

  Uom che d’età gravissima ai sembianti,

  Col ritorto baston, del vecchio piede

  68 Ferma e dirizza le vestigia erranti.

  E chi sei tu (sdegnoso a lui richiede)

  Che, fantasma importuno ai viandanti,

  Rompi i brevi lor sonni? e chè s’aspetta

  72 A te la mia vergogna, o la vendetta?

  X.

  Io mi son’un (risponde il vecchio) al quale

  In parte è noto il tuo novel disegno:

  E siccome uom, a cui di te più cale

  76 Che tu forse non pensi, a te ne vegno.

  Nè il mordace parlare indarno è tale:

  Perchè della virtù cote è lo sdegno.

  Prendi in grado, Signor, che ‘l mio sermone

  80 Al tuo pronto valor sia sferza e sprone.

  XI.

  Or perchè, s’io m’appongo, esser dee volto

  Al gran Re dell’Egitto il tuo cammino;

  Che inutilmente aspro viaggio tolto

  84 Avrai, s’innanzi segui, io m’indovino:

  Chè sebben tu non vai, fia tosto accolto

  E tosto mosso il campo Saracino:

  Nè loco è là dove s’impieghi e mostri

  88 La tua virtù contra i nemici nostri.

  XII.

  Ma se in duce me prendi, entro a quel muro

  Che dall’armi Latine è intorno astretto,

  Nel più chiaro del dì porti sicuro,

  92 Senza che spada impugni, io ti prometto.

  Quivi con l’arme e co’ disagj un duro

  Contrasto aver ti fia gloria e diletto:

  Difenderai la terra, insin che giugna

  96 L’oste d’Egitto a rinnovar la pugna.

  XIII.

  Mentre ei ragiona ancor, gli occhj e la voce

  Dell’uomo antico il fero Turco ammira;

  E dal volto, e dall’animo feroce

  100 Tutto depone omai l’orgoglio e l’ira.

  Padre, risponde, io già pronto e veloce

  Sono a seguirti: ove tu vuoi mi gira.

  A me sempre miglior parrà il consiglio,

  104 Ove ha più di fatica e di periglio.

  XIV.

  Loda il vecchio i suoi detti: e perchè l’aura

  Notturna avea le piaghe incrudelite,

  Un suo licor v’instilla, onde ristaura

  108 Le forze, e salda il sangue e le ferite.

  Quinci veggendo omai ch’Apollo inaura

  Le rose che l’Aurora ha colorite;

  Tempo è, disse, al partir; chè già ne scopre

  112 Le strade il Sol ch’altrui richiama all’opre.

  XV.

  E sovra un carro suo, che non lontano

  Quinci attendea, col fier Niceno ei siede:

  Le briglie allenta, e con maestra mano

  116 Ambo i corsieri alternamente fiede.

  Quei vanno sì, che ‘l polveroso piano

  Non ritien della ruota orma, o del piede.

  Fumar gli vedi, ed anelar nel corso,

  120 E tutto biancheggiar di spuma il morso.

  XVI.

  Maraviglie dirò: s’aduna e stringe

  L’aer d’intorno, in nuvolo raccolto,

  Sicchè ‘l gran carro ne ricopre e cinge;

  124 Ma non appar la nube o poco o molto:

  Nè sasso, che mural machina spinge,

  Penetreria per lo suo chiuso e folto:

  Ben veder ponno i duo’ dal curvo seno

  128 La nebbia intorno, e fuori il Ciel sereno.

  XVII.

  Stupido il cavalier le ciglia inarca,

  Ed increspa la fronte, e mira fiso

  La nube, e ‘l carro ch’ogni intoppo varca

  132 Veloce sì, che di volar gli è avviso.

  L’altro, che di stupor l’anima carca

  Gli scorge all’atto dell’immobil viso,

  Gli rompe quel silenzio, e lui rappella;

  136 Ond’ei si scuote, e poi così favella:

  XVIII.

  O chiunque tu sia che, fuor d’ogni uso,

  Pieghi natura ad opre altere e strane:

  E spiando i secreti, entro al più chiuso

  140 Spazi a tua voglia delle menti umane;

  S’arrivi col saper, ch’è d’alto infuso,

  Alle cose remote anco e lontane;

  Deh dimmi, qual riposo o qual ruina

  144 Ai gran moti dell’Asia il Ciel destina?

  XIX.

  Ma pria dimmi il tuo nome, e con qual arte

  Far cose tu sì inusitate soglia:

  Chè se pria lo stupor da me non parte,

  148 Com’esser può ch’io gli altri detti accoglia?

  Sorrise il vecchio, e disse: in una parte

  Mi sarà leve l’adempir tua voglia.

  Son detto Ismeno, e i Siri appellan Mago

  152 Me, che dell’arti incognite son vago.

  XX.

  Ma ch’io scopra il futuro, e ch’io dispieghi

  Dell’occulto destin gli eterni annali,

  Troppo audace è il desio, troppo alti preghi:

  156 Non è tanto concesso a noi mortali.

  Ciascun, qua giù, le forze e ‘l senno impieghi

  Per avanzar fra le sciagure e i mali:

  Chè sovente addivien che ‘l saggio e ‘l forte

  160 Fabbro a se stesso è di beata sorte.

  XXI.

  Tu, questa destra invitta, a cui fia poco

  Scuoter le forze del Francese impero,

  Non che munir, non che guardar il loco

  164 Che strettamente oppugna il popol fero,

  Contra l’arme apparecchia, e contra ‘l foco:

  Osa, soffri, confida; io bene spero.

  Ma pur dirò, perchè piacer ti debbia,

  168 Ciò ch’oscuro vegg’io, quasi per nebbia.

  XXII.

  Veggio, o parmi vedere, anzi che lustri

  Molti rivolga il gran pianeta eterno,

  Uom che l’Asia ornerà co’ fatti illustri,

  172 E del fecondo Egitto avrà il governo.

  Taccio i pregj dell’ozio, e l’arti industri,

  Mille virtù, che non ben tutte io scerno:

  Basti sol questo a te, che da lui scosse

  176 Non pur saranno le Cristiane posse;

  XXIII.

  Ma insin dal fondo suo l’imperio ingiusto

  Svelto sarà nell’ultime contese;

  E le afflitte reliquie entro un angusto

  180 Giro sospinte, e sol dal mar difese.

  Questi fia del tuo sangue; e quì il vetusto

  Mago si tacque: e quegli a dir riprese:

  O lui felice eletto a tanta lode!

  184 E parte ne l’invidia, e parte gode.

  XXIV.

  Soggiunse poi: girisi pur Fortuna

  O buona o rea, come è là su prescritto:

  Chè non ha sovra me ragione alcuna,

  188 E non mi vedrà mai se non invitto.

  Prima dal corso distornar la Luna

  E le stelle potrà, che dal diritto />
  Torcere un sol mio passo: e in questo dire

  192 Sfavillò tutto di focoso ardire.

  XXV.

  Così gir ragionando, insin che furo

  Là ‘ve presso vedean le tende alzarse:

  Che spettacolo fu crudele e duro!

  196 In quante forme ivi la morte apparse!

  Si fè negli occhj allor torbido e scuro,

  E di doglia il Soldano il volto sparse.

  Ahi con quanto dispregio ivi le degne

  200 Mirò giacer sue già temute insegne!

  XXVI.

  E scorrer lieti i Franchi, e i petti e i volti

  Spesso calcar de’ suoi più noti amici:

  E, con fasto superbo, agl’insepolti

  204 L’arme spogliare e gli abiti infelici:

  Molti onorare in lunga pompa accolti

  Gli amati corpi degli estremi uficj:

  Altri soppor le fiamme, e ‘l volgo misto

  208 D’Arabi e Turchi, a un foco arder ha visto.

  XXVII.

  Sospirò dal profondo, e ‘l ferro trasse,

  E dal carro lanciossi, e correr volle;

  Ma il vecchio incantatore a se il ritrasse

  212 Sgridando, e raffrenò l’impeto folle.

  E fatto che di novo ei rimontasse,

  Drizzò il suo corso al più sublime colle.

  Così alquanto n’andaro, insin ch’a tergo

  216 Lasciar de’ Franchi il militare albergo.

  XXVIII.

  Smontaro allor del carro, e quel repente

  Sparve, e presono a piedi insieme il calle

  Nella solita nube occultamente,

  220 Discendendo a sinistra in una valle;

  Sinchè giunsero là, dove al Ponente

  L’alto monte Sion volge le spalle.

  Quivi si ferma il Mago, e poi s’accosta

  224 (Quasi mirando) alla scoscesa costa.

  XXIX.

  Cava grotta s’apria nel duro sasso,

  Di lunghissimi tempi avanti fatta;

  Ma, disusando, or riturato il passo

  228 Era tra i pruni e l’erbe ove s’appiatta.

  Sgombra il Mago gl’intoppi, e curvo e basso

  Per l’angusto sentiero a gir s’adatta:

  E l’una man precede, e ‘l varco tenta,

  232 L’altra per guida al Principe appresenta.

  XXX.

  Dice allora il Soldan: qual via furtiva

  È questa tua, dove convien ch’io vada?

  Altra forse miglior io me n’apriva,

  236 Se ‘l concedevi tu, con la mia spada.

  Non sdegnar, gli risponde, anima schiva,

  Premer col forte piè la buja strada;

  Chè già solea calcarla il grande Erode,

  240 Quel c’ha nell’armi ancor sì chiara lode.

  XXXI.

  Cavò questa spelonca, allor che porre

  Volse freno ai soggetti, il Re ch’io dico:

  E per essa potea, da quella torre

  244 Ch’egli Antonia appellò dal chiaro amico,

  Invisibile a tutti il piè raccorre

  Dentro la soglia del gran tempio antico:

  E quindi occulto uscir della Cittate,

  248 E trarne ed introdur genti celate.

  XXXII.

  Ma nota è questa via solinga e bruna

  Or solo a me degli uomini viventi.

  Per questa andremo al loco, ove raguna

  252 I più saggj a consiglio e i più potenti

  Il Re, ch’al minacciar della fortuna,

  Più forse che non dee, par che paventi.

  Ben tu giungi a grand’uopo: ascolta, e taci;

  256 Poi muovi a tempo le parole audaci.

  XXXIII.

  Così gli disse; e ‘l cavaliero allotta

  Col gran corpo ingombrò l’umil caverna:

  E per le vie, dove mai sempre annotta,

  260 Seguì colui che ‘l suo cammin governa.

  Chini pria se n’andar; ma quella grotta

  Più si dilata, quanto più s’interna;

  Sicchè asceser con agio, e tosto furo

  264 A mezzo quasi di quell’antro oscuro.

  XXXIV.

  Apriva allora un picciol uscio Ismeno,

  E se ne gían per disusata scala,

  A cui luce mal certo e mal sereno

  268 L’aere che giù d’alto spiraglio cala.

  In sotterraneo chiostro alfin venieno,

  E salian quindi in chiara e nobil sala.

  Quì con lo scettro, e col diadema in testa

  272 Mesto sedeasi il Re fra gente mesta.

  XXXV.

  Dalla concava nube il Turco fero,

  Non veduto, rimira e spia d’intorno;

  E ode il Re frattanto, il qual primiero

  276 Incomincia così dal seggio adorno:

  Veramente, o miei fidi, al nostro impero

  Fu il trapassato assai dannoso giorno:

  E caduti d’altissima speranza,

  280 Sol l’ajuto d’Egitto omai n’avanza.

  XXXVI.

  Ma ben vedete voi quanto la speme

  Lontana sia da sì vicin periglio.

  Dunque voi tutti ho quì raccolti insieme,

  284 Perchè ognun porti in mezzo il suo consiglio.

  Quì tace; e quasi in bosco aura che freme,

  Suona d’intorno un picciolo bisbiglio.

  Ma con la faccia baldanzosa e lieta

  288 Sorgendo Argante il mormorare accheta.

  XXXVII.

  O magnanimo Re (fu la risposta

  Del cavaliero indomito, e feroce)

  Perchè ci tenti? e cosa a nullo ascosta

  292 Chiedi, ch’uopo non ha di nostra voce?

  Pur dirò; sia la speme in noi sol posta:

  E s’egli è ver che nulla a virtù nuoce,

  Di questa armiamci: a lei chiediamo aita:

  296 Nè più, ch’ella si voglia, amiam la vita.

  XXXVIII.

  Nè parlo io già così, perch’io dispere

  Dell’ajuto certissimo d’Egitto:

  Chè dubitar, se le promesse vere

  300 Sian del mio Re, non lece, e non è dritto;

  Ma il dico sol, perchè desio vedere

  In alcuni di noi spirto più invitto;

  Ch’egualmente apprestato ad ogni sorte

  304 Si prometta vittoria, e sprezzi morte.

  XXXIX.

  Tanto sol disse il generoso Argante,

  Quasi uom che parli di non dubbia cosa.

  Poi sorse in autorevole sembiante

  308 Orcano, uom d’alta nobiltà famosa,

  E già nell’arme d’alcun pregio avante;

  Ma or congiunto a giovinetta sposa,

  E lieto omai de’ figlj, era invilito

  312 Negli affetti di padre e di marito.

  XL.

  Disse questi: o Signor, già non accuso

  Il fervor di magnifiche parole,

  Quando nasce d’ardir che star rinchiuso

  316 Tra i confini del cor non può, nè vuole.

  Però se ‘l buon Circasso a te, per uso,

  Troppo in vero parlar fervido suole,

  Ciò si conceda a lui, chè poi nell’opre

  320 Il medesmo fervor non meno scopre.

  XLI.

  Ma si conviene a te, cui fatto il corso

  Delle cose e de’ tempi han sì prudente,

  Impor colà de’ tuoi consiglj il morso,

  324 Dove costui se ne trascorre ardente:

  Librar la speme del lontan soccorso

  Col periglio vicino, anzi presente:

  E con l’arme, e con l’impeto nemico

  328 I tuoi novi ripari, e ‘l muro antico.

  XLII.

  Noi (se lece a me dir quel ch’io ne sento)

  Siamo in forte città di sito, e d’arte;

  Ma di machine grande e violento

  332 Apparato si fa dall’altra parte.

  Quel che sarà, non sò: spero, e pavento

/>   I giudizj incertissimi di Marte:

  E temo che s’a noi più fia ristretto

  336 L’assedio, alfin di cibo avrem difetto.

  XLIII.

  Perocchè quegli armenti, e quelle biade

  Ch’jeri tu ricettasti entro le mura,

  Mentre nel campo a insanguinar le spade

  340 S’attendea solo (e fu somma ventura)

  Picciol’ esca a gran fame, ampia cittade

  Nutrir mal ponno, se l’assedio dura:

  E forza è pur che duri, ancorchè vegna

  344 L’oste d’Egitto il dì ch’ella disegna.

  XLIV.

  Ma che fia se più tarda? orsù concedo

  Che tua speme prevenga, e sue promesse;

  La vittoria però, però non vedo

  348 Liberate, o Signor, le mura oppresse.

  Combatteremo, o Re, con quel Goffredo,

  E con que’ Duci, e con le genti istesse

  Che tante volte han già rotti e dispersi

  352 Gli Arabi, i Turchi, i Soriani, e i Persi.

  XLV.

  E quali sian tu ‘l sai, chè lor cedesti

  Sì spesso il campo, o valoroso Argante:

  E sì spesso le spalle anco volgesti,

  356 Fidando assai nelle veloci piante:

  E ‘l sa Clorinda teco, ed io con questi:

  Ch’un più dell’altro non convien si vante.

  Nè incolpo alcuno io già, chè vi fu mostro

  360 Quanto potea maggiore il valor nostro.

  XLVI.

  E dirò pur, benchè costui di morte

  Bieco minacci, e ‘l vero udir si sdegni;

  Veggio portar da inevitabil sorte

  364 Il nemico fatale a certi segni:

  Nè gente potrà mai nè muro forte

  Impedirlo così, ch’alfin non regni.

  Ciò mi fa dir (sia testimonio il Cielo)

  368 Del Signor, della patria, amore e zelo.

  XLVII.

  O saggio il Re di Tripoli che pace

  Seppe impetrar dai Franchi e regno insieme!

  Ma il Soldano ostinato, o morto or giace

  372 O pur servil catena il piè gli preme:

  O nell’esiglio, timido e fugace,

  Si va serbando alle miserie estreme:

  E pur, cedendo parte, avria potuto

  376 Parte salvar co’ doni e col tributo.

  XLVIII.

  Così diceva; e s’avvolgea costui

  Con giro di parole obliquo e incerto;

  Ch’a chieder pace, a farsi uom ligio altrui

  380 Già non ardia di consigliarlo aperto.

  Ma sdegnoso il Soldano i detti sui

  Non potea omai più sostener coperto;

  Quando il Mago gli disse: or vuoi tu darli

  384 Agio, Signor, che in tal materia parli?

  XLIX.

  Io per me, gli risponde, or quì mi celo

  Contra mio grado, e d’ira ardo e di scorno.

  Ciò disse appena, e immantinente il velo

  388 Della nube, che stesa è lor d’intorno,

  Si fende, e purga nell’aperto Cielo,

  Ed ei riman nel luminoso giorno:

 

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