VII.
Alfin, quando già tutte intorno chete
Nella più alta notte eran le cose,
Vinto egli pur dalla stanchezza, in Lete
52 Sopì le cure sue gravi e nojose;
E in una breve e languida quiete
L’afflitte membra e gli occhj egri compose:
E mentre ancor dormia, voce severa
56 Gl’intonò su le orecchie in tal maniera:
VIII.
Soliman Solimano, i tuoi sì lenti
Riposi a miglior tempo omai riserva;
Chè sotto il giogo di straniere genti
60 La patria, ove regnasti, ancor è serva.
In questa terra dormi, e non rammenti
Ch’insepolte de’ tuoi l’ossa conserva?
Ove sì gran vestigio è del tuo scorno,
64 Tu, neghittoso, aspetti il novo giorno?
IX.
Desto il Soldano, alza lo sguardo e vede
Uom che d’età gravissima ai sembianti,
Col ritorto baston, del vecchio piede
68 Ferma e dirizza le vestigia erranti.
E chi sei tu (sdegnoso a lui richiede)
Che, fantasma importuno ai viandanti,
Rompi i brevi lor sonni? e chè s’aspetta
72 A te la mia vergogna, o la vendetta?
X.
Io mi son’un (risponde il vecchio) al quale
In parte è noto il tuo novel disegno:
E siccome uom, a cui di te più cale
76 Che tu forse non pensi, a te ne vegno.
Nè il mordace parlare indarno è tale:
Perchè della virtù cote è lo sdegno.
Prendi in grado, Signor, che ‘l mio sermone
80 Al tuo pronto valor sia sferza e sprone.
XI.
Or perchè, s’io m’appongo, esser dee volto
Al gran Re dell’Egitto il tuo cammino;
Che inutilmente aspro viaggio tolto
84 Avrai, s’innanzi segui, io m’indovino:
Chè sebben tu non vai, fia tosto accolto
E tosto mosso il campo Saracino:
Nè loco è là dove s’impieghi e mostri
88 La tua virtù contra i nemici nostri.
XII.
Ma se in duce me prendi, entro a quel muro
Che dall’armi Latine è intorno astretto,
Nel più chiaro del dì porti sicuro,
92 Senza che spada impugni, io ti prometto.
Quivi con l’arme e co’ disagj un duro
Contrasto aver ti fia gloria e diletto:
Difenderai la terra, insin che giugna
96 L’oste d’Egitto a rinnovar la pugna.
XIII.
Mentre ei ragiona ancor, gli occhj e la voce
Dell’uomo antico il fero Turco ammira;
E dal volto, e dall’animo feroce
100 Tutto depone omai l’orgoglio e l’ira.
Padre, risponde, io già pronto e veloce
Sono a seguirti: ove tu vuoi mi gira.
A me sempre miglior parrà il consiglio,
104 Ove ha più di fatica e di periglio.
XIV.
Loda il vecchio i suoi detti: e perchè l’aura
Notturna avea le piaghe incrudelite,
Un suo licor v’instilla, onde ristaura
108 Le forze, e salda il sangue e le ferite.
Quinci veggendo omai ch’Apollo inaura
Le rose che l’Aurora ha colorite;
Tempo è, disse, al partir; chè già ne scopre
112 Le strade il Sol ch’altrui richiama all’opre.
XV.
E sovra un carro suo, che non lontano
Quinci attendea, col fier Niceno ei siede:
Le briglie allenta, e con maestra mano
116 Ambo i corsieri alternamente fiede.
Quei vanno sì, che ‘l polveroso piano
Non ritien della ruota orma, o del piede.
Fumar gli vedi, ed anelar nel corso,
120 E tutto biancheggiar di spuma il morso.
XVI.
Maraviglie dirò: s’aduna e stringe
L’aer d’intorno, in nuvolo raccolto,
Sicchè ‘l gran carro ne ricopre e cinge;
124 Ma non appar la nube o poco o molto:
Nè sasso, che mural machina spinge,
Penetreria per lo suo chiuso e folto:
Ben veder ponno i duo’ dal curvo seno
128 La nebbia intorno, e fuori il Ciel sereno.
XVII.
Stupido il cavalier le ciglia inarca,
Ed increspa la fronte, e mira fiso
La nube, e ‘l carro ch’ogni intoppo varca
132 Veloce sì, che di volar gli è avviso.
L’altro, che di stupor l’anima carca
Gli scorge all’atto dell’immobil viso,
Gli rompe quel silenzio, e lui rappella;
136 Ond’ei si scuote, e poi così favella:
XVIII.
O chiunque tu sia che, fuor d’ogni uso,
Pieghi natura ad opre altere e strane:
E spiando i secreti, entro al più chiuso
140 Spazi a tua voglia delle menti umane;
S’arrivi col saper, ch’è d’alto infuso,
Alle cose remote anco e lontane;
Deh dimmi, qual riposo o qual ruina
144 Ai gran moti dell’Asia il Ciel destina?
XIX.
Ma pria dimmi il tuo nome, e con qual arte
Far cose tu sì inusitate soglia:
Chè se pria lo stupor da me non parte,
148 Com’esser può ch’io gli altri detti accoglia?
Sorrise il vecchio, e disse: in una parte
Mi sarà leve l’adempir tua voglia.
Son detto Ismeno, e i Siri appellan Mago
152 Me, che dell’arti incognite son vago.
XX.
Ma ch’io scopra il futuro, e ch’io dispieghi
Dell’occulto destin gli eterni annali,
Troppo audace è il desio, troppo alti preghi:
156 Non è tanto concesso a noi mortali.
Ciascun, qua giù, le forze e ‘l senno impieghi
Per avanzar fra le sciagure e i mali:
Chè sovente addivien che ‘l saggio e ‘l forte
160 Fabbro a se stesso è di beata sorte.
XXI.
Tu, questa destra invitta, a cui fia poco
Scuoter le forze del Francese impero,
Non che munir, non che guardar il loco
164 Che strettamente oppugna il popol fero,
Contra l’arme apparecchia, e contra ‘l foco:
Osa, soffri, confida; io bene spero.
Ma pur dirò, perchè piacer ti debbia,
168 Ciò ch’oscuro vegg’io, quasi per nebbia.
XXII.
Veggio, o parmi vedere, anzi che lustri
Molti rivolga il gran pianeta eterno,
Uom che l’Asia ornerà co’ fatti illustri,
172 E del fecondo Egitto avrà il governo.
Taccio i pregj dell’ozio, e l’arti industri,
Mille virtù, che non ben tutte io scerno:
Basti sol questo a te, che da lui scosse
176 Non pur saranno le Cristiane posse;
XXIII.
Ma insin dal fondo suo l’imperio ingiusto
Svelto sarà nell’ultime contese;
E le afflitte reliquie entro un angusto
180 Giro sospinte, e sol dal mar difese.
Questi fia del tuo sangue; e quì il vetusto
Mago si tacque: e quegli a dir riprese:
O lui felice eletto a tanta lode!
184 E parte ne l’invidia, e parte gode.
XXIV.
Soggiunse poi: girisi pur Fortuna
O buona o rea, come è là su prescritto:
Chè non ha sovra me ragione alcuna,
188 E non mi vedrà mai se non invitto.
Prima dal corso distornar la Luna
E le stelle potrà, che dal diritto
/>
Torcere un sol mio passo: e in questo dire
192 Sfavillò tutto di focoso ardire.
XXV.
Così gir ragionando, insin che furo
Là ‘ve presso vedean le tende alzarse:
Che spettacolo fu crudele e duro!
196 In quante forme ivi la morte apparse!
Si fè negli occhj allor torbido e scuro,
E di doglia il Soldano il volto sparse.
Ahi con quanto dispregio ivi le degne
200 Mirò giacer sue già temute insegne!
XXVI.
E scorrer lieti i Franchi, e i petti e i volti
Spesso calcar de’ suoi più noti amici:
E, con fasto superbo, agl’insepolti
204 L’arme spogliare e gli abiti infelici:
Molti onorare in lunga pompa accolti
Gli amati corpi degli estremi uficj:
Altri soppor le fiamme, e ‘l volgo misto
208 D’Arabi e Turchi, a un foco arder ha visto.
XXVII.
Sospirò dal profondo, e ‘l ferro trasse,
E dal carro lanciossi, e correr volle;
Ma il vecchio incantatore a se il ritrasse
212 Sgridando, e raffrenò l’impeto folle.
E fatto che di novo ei rimontasse,
Drizzò il suo corso al più sublime colle.
Così alquanto n’andaro, insin ch’a tergo
216 Lasciar de’ Franchi il militare albergo.
XXVIII.
Smontaro allor del carro, e quel repente
Sparve, e presono a piedi insieme il calle
Nella solita nube occultamente,
220 Discendendo a sinistra in una valle;
Sinchè giunsero là, dove al Ponente
L’alto monte Sion volge le spalle.
Quivi si ferma il Mago, e poi s’accosta
224 (Quasi mirando) alla scoscesa costa.
XXIX.
Cava grotta s’apria nel duro sasso,
Di lunghissimi tempi avanti fatta;
Ma, disusando, or riturato il passo
228 Era tra i pruni e l’erbe ove s’appiatta.
Sgombra il Mago gl’intoppi, e curvo e basso
Per l’angusto sentiero a gir s’adatta:
E l’una man precede, e ‘l varco tenta,
232 L’altra per guida al Principe appresenta.
XXX.
Dice allora il Soldan: qual via furtiva
È questa tua, dove convien ch’io vada?
Altra forse miglior io me n’apriva,
236 Se ‘l concedevi tu, con la mia spada.
Non sdegnar, gli risponde, anima schiva,
Premer col forte piè la buja strada;
Chè già solea calcarla il grande Erode,
240 Quel c’ha nell’armi ancor sì chiara lode.
XXXI.
Cavò questa spelonca, allor che porre
Volse freno ai soggetti, il Re ch’io dico:
E per essa potea, da quella torre
244 Ch’egli Antonia appellò dal chiaro amico,
Invisibile a tutti il piè raccorre
Dentro la soglia del gran tempio antico:
E quindi occulto uscir della Cittate,
248 E trarne ed introdur genti celate.
XXXII.
Ma nota è questa via solinga e bruna
Or solo a me degli uomini viventi.
Per questa andremo al loco, ove raguna
252 I più saggj a consiglio e i più potenti
Il Re, ch’al minacciar della fortuna,
Più forse che non dee, par che paventi.
Ben tu giungi a grand’uopo: ascolta, e taci;
256 Poi muovi a tempo le parole audaci.
XXXIII.
Così gli disse; e ‘l cavaliero allotta
Col gran corpo ingombrò l’umil caverna:
E per le vie, dove mai sempre annotta,
260 Seguì colui che ‘l suo cammin governa.
Chini pria se n’andar; ma quella grotta
Più si dilata, quanto più s’interna;
Sicchè asceser con agio, e tosto furo
264 A mezzo quasi di quell’antro oscuro.
XXXIV.
Apriva allora un picciol uscio Ismeno,
E se ne gían per disusata scala,
A cui luce mal certo e mal sereno
268 L’aere che giù d’alto spiraglio cala.
In sotterraneo chiostro alfin venieno,
E salian quindi in chiara e nobil sala.
Quì con lo scettro, e col diadema in testa
272 Mesto sedeasi il Re fra gente mesta.
XXXV.
Dalla concava nube il Turco fero,
Non veduto, rimira e spia d’intorno;
E ode il Re frattanto, il qual primiero
276 Incomincia così dal seggio adorno:
Veramente, o miei fidi, al nostro impero
Fu il trapassato assai dannoso giorno:
E caduti d’altissima speranza,
280 Sol l’ajuto d’Egitto omai n’avanza.
XXXVI.
Ma ben vedete voi quanto la speme
Lontana sia da sì vicin periglio.
Dunque voi tutti ho quì raccolti insieme,
284 Perchè ognun porti in mezzo il suo consiglio.
Quì tace; e quasi in bosco aura che freme,
Suona d’intorno un picciolo bisbiglio.
Ma con la faccia baldanzosa e lieta
288 Sorgendo Argante il mormorare accheta.
XXXVII.
O magnanimo Re (fu la risposta
Del cavaliero indomito, e feroce)
Perchè ci tenti? e cosa a nullo ascosta
292 Chiedi, ch’uopo non ha di nostra voce?
Pur dirò; sia la speme in noi sol posta:
E s’egli è ver che nulla a virtù nuoce,
Di questa armiamci: a lei chiediamo aita:
296 Nè più, ch’ella si voglia, amiam la vita.
XXXVIII.
Nè parlo io già così, perch’io dispere
Dell’ajuto certissimo d’Egitto:
Chè dubitar, se le promesse vere
300 Sian del mio Re, non lece, e non è dritto;
Ma il dico sol, perchè desio vedere
In alcuni di noi spirto più invitto;
Ch’egualmente apprestato ad ogni sorte
304 Si prometta vittoria, e sprezzi morte.
XXXIX.
Tanto sol disse il generoso Argante,
Quasi uom che parli di non dubbia cosa.
Poi sorse in autorevole sembiante
308 Orcano, uom d’alta nobiltà famosa,
E già nell’arme d’alcun pregio avante;
Ma or congiunto a giovinetta sposa,
E lieto omai de’ figlj, era invilito
312 Negli affetti di padre e di marito.
XL.
Disse questi: o Signor, già non accuso
Il fervor di magnifiche parole,
Quando nasce d’ardir che star rinchiuso
316 Tra i confini del cor non può, nè vuole.
Però se ‘l buon Circasso a te, per uso,
Troppo in vero parlar fervido suole,
Ciò si conceda a lui, chè poi nell’opre
320 Il medesmo fervor non meno scopre.
XLI.
Ma si conviene a te, cui fatto il corso
Delle cose e de’ tempi han sì prudente,
Impor colà de’ tuoi consiglj il morso,
324 Dove costui se ne trascorre ardente:
Librar la speme del lontan soccorso
Col periglio vicino, anzi presente:
E con l’arme, e con l’impeto nemico
328 I tuoi novi ripari, e ‘l muro antico.
XLII.
Noi (se lece a me dir quel ch’io ne sento)
Siamo in forte città di sito, e d’arte;
Ma di machine grande e violento
332 Apparato si fa dall’altra parte.
Quel che sarà, non sò: spero, e pavento
/> I giudizj incertissimi di Marte:
E temo che s’a noi più fia ristretto
336 L’assedio, alfin di cibo avrem difetto.
XLIII.
Perocchè quegli armenti, e quelle biade
Ch’jeri tu ricettasti entro le mura,
Mentre nel campo a insanguinar le spade
340 S’attendea solo (e fu somma ventura)
Picciol’ esca a gran fame, ampia cittade
Nutrir mal ponno, se l’assedio dura:
E forza è pur che duri, ancorchè vegna
344 L’oste d’Egitto il dì ch’ella disegna.
XLIV.
Ma che fia se più tarda? orsù concedo
Che tua speme prevenga, e sue promesse;
La vittoria però, però non vedo
348 Liberate, o Signor, le mura oppresse.
Combatteremo, o Re, con quel Goffredo,
E con que’ Duci, e con le genti istesse
Che tante volte han già rotti e dispersi
352 Gli Arabi, i Turchi, i Soriani, e i Persi.
XLV.
E quali sian tu ‘l sai, chè lor cedesti
Sì spesso il campo, o valoroso Argante:
E sì spesso le spalle anco volgesti,
356 Fidando assai nelle veloci piante:
E ‘l sa Clorinda teco, ed io con questi:
Ch’un più dell’altro non convien si vante.
Nè incolpo alcuno io già, chè vi fu mostro
360 Quanto potea maggiore il valor nostro.
XLVI.
E dirò pur, benchè costui di morte
Bieco minacci, e ‘l vero udir si sdegni;
Veggio portar da inevitabil sorte
364 Il nemico fatale a certi segni:
Nè gente potrà mai nè muro forte
Impedirlo così, ch’alfin non regni.
Ciò mi fa dir (sia testimonio il Cielo)
368 Del Signor, della patria, amore e zelo.
XLVII.
O saggio il Re di Tripoli che pace
Seppe impetrar dai Franchi e regno insieme!
Ma il Soldano ostinato, o morto or giace
372 O pur servil catena il piè gli preme:
O nell’esiglio, timido e fugace,
Si va serbando alle miserie estreme:
E pur, cedendo parte, avria potuto
376 Parte salvar co’ doni e col tributo.
XLVIII.
Così diceva; e s’avvolgea costui
Con giro di parole obliquo e incerto;
Ch’a chieder pace, a farsi uom ligio altrui
380 Già non ardia di consigliarlo aperto.
Ma sdegnoso il Soldano i detti sui
Non potea omai più sostener coperto;
Quando il Mago gli disse: or vuoi tu darli
384 Agio, Signor, che in tal materia parli?
XLIX.
Io per me, gli risponde, or quì mi celo
Contra mio grado, e d’ira ardo e di scorno.
Ciò disse appena, e immantinente il velo
388 Della nube, che stesa è lor d’intorno,
Si fende, e purga nell’aperto Cielo,
Ed ei riman nel luminoso giorno:
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