Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 131

by Torquato Tasso


  E magnanimamente in fiero viso

  392 Rifulge in mezzo, e lor parla improvviso:

  L.

  Io, di cui si ragiona, or son presente,

  Non fugace e non timido Soldano:

  Ed a costui, ch’egli è codardo e mente

  396 M’offero di provar con questa mano.

  Io, che sparsi di sangue ampio torrente,

  Che montagne di strage alzai sul piano,

  Chiuso nel vallo de’ nemici, e privo

  400 Alfin d’ogni compagno; io fuggitivo?

  Io di cui si ragiona, or son presente,

  Non fugace e non timido Soldano.

  LI.

  Ma se più questi, o s’altri a lui simíle,

  Alla sua patria, alla sua fede infido,

  Motto osa far d’accordo infame e vile,

  404 Buon Re, sia con tua pace, io quì l’uccido.

  Gli agni e i lupi fian giunti in un ovile,

  E le colombe e i serpi in un sol nido,

  Prima che mai, di non discorde voglia,

  408 Noi co’ Francesi alcuna terra accoglia.

  LII.

  Tien sulla spada, mentre ei sì favella,

  La fera destra in minaccevol’atto.

  Riman ciascuno, a quel parlare a quella

  412 Orribil faccia, muto e stupefatto.

  Poscia, con vista men turbata e fella,

  Cortesemente inverso il Re s’è tratto.

  Spera, gli dice, alto Signor; ch’io reco

  416 Non poco ajuto: or Solimano è teco.

  LIII.

  Aladin, ch’a lui contra era già sorto,

  Risponde: o come lieto or quì ti veggio,

  Diletto amico! or del mio stuol ch’è morto

  420 Non sento il danno; e ben temea di peggio.

  Tu lo mio stabilire, e in tempo corto

  Puoi ridrizzare il tuo caduto seggio,

  Se ‘l Ciel nol vieta. Indi le braccia al collo,

  424 Così detto, gli stese e circondollo.

  LIV.

  Finita l’accoglienza, il Re concede

  Il suo medesmo soglio al gran Niceno.

  Egli poscia a sinistra in nobil sede

  428 Si pone, ed al suo fianco alluoga Ismeno.

  E mentre seco parla ed a lui chiede

  Di lor venuta, ed ei risponde appieno,

  L’alta Donzella ad onorar in pria

  432 Vien Solimano: ogni altro indi seguia.

  LV.

  Seguì fra gli altri Ormusse, il qual la schiera

  Di quegli Arabi suoi a guidar tolse:

  E mentre la battaglia ardea più fera,

  436 Per disusate vie così s’avvolse,

  Ch’ajutando il silenzio, e l’aria nera,

  Lei salva alfin nella Città raccolse:

  E con le biade, e co’ rapiti armenti

  440 Aita porse alle affamate genti.

  LVI.

  Sol con la faccia torva e disdegnosa

  Tacito si rimase il fer Circasso:

  A guisa di leon, quando si posa,

  444 Girando gli occhj, e non movendo il passo:

  Ma nel Soldan feroce alzar non osa

  Orcano il volto, e ‘l tien pensoso e basso.

  Così a consiglio il Palestin tiranno

  448 E ‘l Re de’ Turchi, e i cavalier quì stanno.

  LVII.

  Ma il pio Goffredo la vittoria e i vinti

  Avea seguiti, e libere le vie:

  E fatto intanto ai suoi guerrieri estinti

  452 L’ultimo onor di sacre esequie e píe.

  Ed ora agli altri impon che siano accinti

  A dar l’assalto nel secondo díe:

  E, con maggiore e più terribil faccia,

  456 Di guerra i chiusi barbari minaccia.

  LVIII.

  E perchè conosciuto avea il drappello,

  Ch’ajutò lui contra la gente infida,

  Esser de’ suoi più cari, ed esser quello

  460 Che già seguì l’insidiosa guida:

  E Tancredi con lor, che nel castello

  Prigion restò della fallace Armida;

  Nella presenza sol dell’Eremita

  464 E d’alcuni più saggj a se gl’invita.

  LIX.

  E dice lor: prego ch’alcun racconti

  De’ vostri brevi errori il dubbio corso:

  E come poscia vi trovaste pronti

  468 In sì grand’uopo a dar sì gran soccorso.

  Vergognando tenean basse le fronti:

  Ch’era al cor picciol fallo amaro morso.

  Alfin del Re Britanno il chiaro figlio

  472 Ruppe il silenzio, e disse, alzando il ciglio:

  LX.

  Partimmo noi, che fuor dell’urna a sorte

  Tratti non fummo, ognun per se nascoso,

  D’Amor (nol nego) le fallaci scorte

  476 Seguendo; e un bel volto insidioso

  Per vie ne trasse disusate e torte:

  Fra noi discordi, e in se ciascun geloso,

  Nutrian gli amori, e i nostri sdegni (ahi tardi

  480 Troppo il conosco!) or parolette, or guardi.

  LXI.

  Alfin giungemmo al loco, ove già scese

  Fiamma dal Cielo in dilatate falde:

  E di natura vendicò le offese

  484 Sovra le genti in mal oprar sì salde.

  Fu già terra feconda, almo paese,

  Or acque son bituminose e calde,

  E steril lago: e quanto ei torce e gira,

  488 Compressa è l’aria, e grave il puzzo spira.

  LXII.

  Questo è lo stagno in cui nulla di greve

  Si getta mai che giunga insino al basso;

  Ma in guisa pur d’abete, o d’orno leve,

  492 L’uom vi sornuota, e ‘l duro ferro, e ‘l sasso.

  Siede in esso un castello: e stretto e breve

  Ponte concede a’ peregrini il passo.

  Ivi n’accolse: e non so con qual’arte,

  496 Vaga è là dentro, e ride ogni sua parte.

  LXIII.

  V’è l’aura molle, e ‘l Ciel sereno, e lieti

  Gli alberi e i prati, e pure e dolci l’onde:

  Ove fra gli amenissimi mirteti

  500 Sorge una fonte, e un fiumicel diffonde.

  Piovono in grembo all ‘erbe i sonni queti

  Con un soave mormorio di fronde:

  Cantan gli augelli; i marmi io taccio e l’oro

  504 Meravigliosi d’arte, e di lavoro.

  LXIV.

  Apprestar su l’erbetta, ov’è più densa

  L’ombra, e vicino al suon delle acque chiare,

  Fece di sculti vasi altera mensa,

  508 E ricca di vivande elette e care.

  Era quì ciò ch’ogni stagion dispensa:

  Ciò che dona la terra, o manda il mare:

  Ciò che l’arte condisce; e cento belle

  512 Servivano al convito accorte ancelle.

  LXV.

  Ella d’un parlar dolce, e d’un bel riso

  Temprava altrui cibo mortale e rio.

  Or, mentre ancor ciascuno a mensa assiso

  516 Beve con lungo incendio un lungo oblio,

  Sorse, e disse: or quì riedo; e con un viso

  Ritornò poi non sì tranquillo e pio.

  Con una man picciola verga scuote:

  520 Tien l’altra un libro, e legge in basse note.

  LXVI.

  Legge la Maga: ed io pensiero e voglia

  Sento mutar, mutar vita ed albergo.

  (Strana virtù!) novo piacer m’invoglia:

  524 Salto nell’acqua, e mi vi tuffo e immergo.

  Non so come ogni gamba entro s’accoglia,

  Come l’un braccio e l’altro entri nel tergo.

  M’accorcio, e stringo: e su la pelle cresce

  528 Squammoso il cuojo, e d’uom son fatto un pesce.

  LXVII.

  Così ciascun degli altri anco fu volto,

  E guizzò meco in quel vivace argento.
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  Quale allor mi foss’io, come di stolto

  532 Vano e torbido sogno, or men rammento.

  Piacquele alfin tornarci il proprio volto:

  Ma tra la meraviglia e lo spavento

  Muti eravam; quando, turbata in vista,

  536 In tal guisa minaccia e ne contrista:

  LXVIII.

  Ecco a voi noto è il mio poter, ne dice,

  E quanto sopra voi l’impero ho pieno:

  Pende dal mio voler ch’altri infelice

  540 Perda, in prigione eterna, il Ciel sereno:

  Altri divenga augello: altri radice

  Faccia, e germogli nel terrestre seno:

  O che s’induri in selce, o in molle fonte

  544 Si liquefaccia, o vesta irsuta fronte.

  LXIX.

  Ben potete schivar l’aspro mio sdegno,

  Quando servire al mio piacer v’aggrade:

  Farvi Pagani, e per lo nostro regno

  548 Contra l’empio Buglion mover le spade.

  Ricusar tutti, ed abborrir l’indegno

  Patto: solo a Rambaldo il persuade.

  Noi (chè non val difesa) entro una buca,

  552 Di laccj avvolse, ove non è che luca.

  LXX.

  Poi nel castello istesso a sorte venne

  Tancredi, ed egli ancor fu prigioniero.

  Ma poco tempo in carcere ci tenne

  556 La falsa Maga: e (s’io n’intesi il vero)

  Di seco trarne da quell’empia ottenne

  Del Signor di Damasco un messaggiero:

  Ch’al Re d’Egitto in don, fra cento armati,

  560 Ne conduceva inermi e incatenati.

  LXXI.

  Così ce n’andavamo: e come l’alta

  Provvidenza del Cielo ordina e move,

  Il buon Rinaldo, il qual più sempre esalta

  564 La gloria sua con opre eccelse e nuove,

  In noi s’avviene, e i cavalieri assalta

  Nostri custodi, e fa le usate prove:

  Gli uccide e vince, e di quell’arme loro

  568 Fa noi vestir, che nostre in prima foro.

  LXXII.

  Io ‘l vidi, e ‘l vider questi: e da lui porta

  Ci fu la destra, e fu sua voce udita.

  Falso è il romor che quì risuona e porta

  572 Sì rea novella, e salva è la sua vita:

  Ed oggi è il terzo dì che, con la scorta

  D’un peregrin, fece da noi partita

  Per girne in Antiochia: e pria depose

  576 L’arme che rotte aveva e sanguinose.

  LXXIII.

  Così parlava; e l’Eremita intanto

  Volgeva al Cielo l’una e l’altra luce.

  Non un color, non serba un volto: o quanto

  580 Più sacro e venerabile or riluce!

  Pieno di Dio, ratto dal zelo, accanto

  Alle angeliche menti ei si conduce:

  Gli si svela il futuro, e nell’eterna

  584 Serie degli anni e delle età s’interna.

  LXXIV.

  E la bocca sciogliendo, in maggior suono,

  Scopre le cose altrui ch’indi verranno.

  Tutti conversi alle sembianze, al tuono

  588 Dell’insolita voce attenti stanno.

  Vive, dice, Rinaldo: e le altre sono

  Arti e bugie di femminile inganno:

  Vive, e la vita giovinetta acerba

  592 A più mature glorie il Ciel riserba.

  LXXV.

  Presagj sono, e fanciulleschi affanni

  Questi, ond’or l’Asia lui conosce, e noma.

  Ecco chiaro vegg’io, correndo gli anni,

  596 Ch’egli s’oppone all’empio Augusto, e ‘l doma:

  E sotto l’ombra degli argentei vanni

  L’Aquila sua copre la Chiesa, e Roma,

  Che della fera avrà tolte agli artiglj:

  600 E ben di lui nasceran degni i figlj.

  LXXVI.

  De’ figlj i figlj, e chi verrà da quelli

  Quinci avran chiari e memorandi esempj:

  E da’ Cesari ingiusti, e da’ rubelli

  604 Difenderan le mitre, e i sacri tempj.

  Premer gli alteri, e sollevar gl’imbelli,

  Difender gli innocenti, e punir gli empj

  Fian l’arti lor: così verrà, che vole

  608 L’Aquila Estense oltra le vie del Sole.

  LXXVII.

  E dritto è ben che, se ‘l ver mira e ‘l lume,

  Ministri a Pietro i folgori mortali.

  U’ per Cristo si pugni, ivi le piume

  612 Spiegar dee sempre invitte e trionfali:

  Chè ciò per suo nativo alto costume

  Dielle il Cielo, e per leggi a lei fatali.

  Onde piace là su, ch’a questa degna

  616 Impresa, onde partì, chiamata vegna.

  LXXVIII.

  Con questi detti ogni timor discaccia

  Di Rinaldo concetto il saggio Piero.

  Sol nel plauso comune avvien che taccia

  620 Il pio Buglione immerso in gran pensiero.

  Sorge intanto la notte, e su la faccia

  Della terra distende il velo nero.

  Vansene gli altri, e dan le membra al sonno;

  624 Ma i suoi pensieri in lui dormir non ponno.

  Canto undicesimo

  ARGOMENTO.

  Con puro sacrifizio e sacre note,

  Il soccorso del Cielo invoca il campo.

  Poi dell’alta città le mura scote,

  Ch’al suo furore omai non avean scampo;

  Quando Clorinda il Capitan percote,

  E ‘l colpo è a lui d’alta vittoria inciampo.

  Ben dall’Angel sanato ei torna in guerra:

  Ma già ‘l diurno raggio ito è sotterra.

  CANTO UNDECIMO.

  Ma ‘l Capitan delle Cristiane genti,

  Volto avendo all’assalto ogni pensiero,

  Giva apprestando i bellici instrumenti,

  4 Quando a lui venne il solitario Piero:

  E trattolo in disparte, in tali accenti

  Gli parlò venerabile e severo:

  Tu muovi, o Capitan, l’armi terrene;

  8 Ma di là non cominci onde conviene.

  II.

  Sia dal Cielo il principio; invoca avanti,

  Nelle preghiere pubbliche e devote,

  La milizia degli Angioli e de’ Santi,

  12 Chè ne impetri vittoria ella che puote.

  Preceda il Clero in sacre vesti, e canti

  Con pietosa armonia supplici note:

  E da voi duci gloriosi e magni

  16 Pietate il volgo apprenda, e v’accompagni.

  III.

  Così gli parla il rigido Romito:

  E ‘l buon Goffredo il saggio avviso approva.

  Servo, risponde, di Gesù gradito,

  20 Il tuo consiglio di seguir mi giova.

  Or mentre i duci a venir meco invito,

  Tu i Pastori de’ popoli ritrova

  Guglielmo ed Ademaro: e vostra sia

  24 La cura della pompa sacra e pia.

  IV.

  Nel seguente mattino il Vecchio accoglie

  Co’ duo’ gran sacerdoti altri minori,

  Ov’entro al vallo tra sacrate soglie

  28 Soleansi celebrar divini onori.

  Quivi gli altri vestir candide spoglie:

  Vestir dorato ammanto i duo Pastori,

  Che bipartito sovra i bianchi lini

  32 S’affibbia al petto, e incoronaro i crini.

  V.

  Va Pietro solo innanzi, e spiega al vento

  Il segno riverito in Paradiso:

  E segue il coro a passo grave e lento,

  36 In due lunghissimi ordini diviso.

  Alternando facean doppio concento

  In supplichevol canto, e in umil viso,

  E, chiudendo le schiere, ivano a paro

  40 I Principi Guglielmo ed Ademaro.

  VI.

  Venia poscia il Buglion, pur come è l�
�uso

  Di Capitan, senza compagno a lato.

  Seguiano a coppia i Duci, e non confuso

  44 Seguiva il campo a lor difesa armato.

  Sì procedendo se n’uscia del chiuso

  Delle trinciere il popolo adunato.

  Nè s’udian trombe, o suoni altri feroci,

  48 Ma di pietate e d’umiltà sol voci.

  VII.

  Te Genitor, te figlio eguale al Padre,

  E te che d’ambo uniti amando spiri:

  E te, d’uomo e di Dio, Vergine Madre

  52 Invocano propizia ai lor desiri.

  O Duci, e voi, che le fulgenti squadre

  Del Ciel movete in triplicati giri.

  O Divo, e te, che della diva fronte

  56 La monda umanità lavasti al fonte.

  VIII.

  Chiamano e te, che sei pietra e sostegno

  Della magion di Dio fondata e forte:

  Ove ora il novo successor tuo degno

  60 Di grazia e di perdono apre le porte.

  E gli altri messi del celeste regno,

  Che divulgar la vincitrice morte.

  E quei che ‘l vero a confermar seguiro,

  64 Testimonj di sangue, e di martiro.

  IX.

  Quegli ancor, la cui penna, o la favella

  Insegnata ha del Ciel la via smarrita:

  E la cara di Cristo e fida ancella,

  68 Ch’elesse il ben della più nobil vita:

  E le vergini chiuse in casta cella,

  Che Dio con alte nozze a se marita:

  E quelle altre magnanime ai tormenti,

  72 Sprezzatrici de’ Regi, e delle genti.

  X.

  Così cantando, il popolo devoto

  Con larghi giri si dispiega e stende:

  E drizza all’Oliveto il lento moto,

  76 Monte che dalle olive il nome prende:

  Monte per sacra fama al mondo noto,

  Ch’oriental contra le mura ascende:

  E sol da quelle il parte e ne ‘l discosta

  80 La cupa Giosafà che in mezzo è posta.

  XI.

  Colà s’invia l’esercito canoro,

  E ne suonan le valli ime e profonde,

  E gli alti colli, e le spelonche loro,

  84 E da ben mille parti Eco risponde:

  E quasi par che boscareccio coro

  Fra quegli antri si celi, e in quelle fronde;

  Sì chiaramente replicar s’udia

  88 Or di Cristo il gran nome, or di Maria.

  XII.

  D’in sulle mura ad ammirar frattanto

  Cheti si stanno, e attoniti i Pagani

  Que’ tardi avvolgimenti, e l’umil canto,

  92 E le insolite pompe, e i riti estrani.

  Poi che cessò dello spettacol santo

  La novitate, i miseri profani

  Alzar le strida; e di bestemmie e d’onte

  96 Muggì il torrente, e la gran valle, e ‘l monte.

  XIII.

  Ma dalla casta melodia soave

  La gente di Gesù però non tace:

 

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