Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 133

by Torquato Tasso


  Vado, e ritorno; e si partia ciò detto:

  Ed ascendendo in un leggier cavallo,

  448 Giunger non può, che non sia visto, al vallo.

  LVII.

  Al dipartir del Capitan, si parte

  E cede il campo la fortuna Franca.

  Cresce il vigor nella contraria parte:

  452 Sorge la speme, e gli animi rinfranca.

  E l’ardimento col favor di Marte,

  Ne’ cor fedeli, e l’impeto già manca.

  Già corre lento ogni lor ferro al sangue,

  456 E delle trombe istesse il suono langue.

  LVIII.

  E già tra’ merli a comparir non tarda

  Lo stuol fugace che ‘l timor caccionne.

  E mirando la Vergine gagliarda,

  460 Vero amor della patria arma le donne.

  Correr le vedi, e collocarsi in guarda

  Con chiome sparse e con succinte gonne:

  E lanciar dardi, e non mostrar paura

  464 D’esporre il petto per le amate mura.

  LIX.

  E quel ch’ai Franchi più spavento porge,

  E ‘l toglie ai difensor della Cittade,

  È, che ‘l possente Guelfo (e se n’accorge

  468 Questo popolo e quel) percosso cade.

  Tra mille il trova sua fortuna, e scorge

  D’un sasso il corso per lontane strade.

  E da sembiante colpo, al tempo stesso,

  472 Colto è Raimondo, onde giù cade anch’esso.

  LX.

  Ed aspramente allora anco fu punto

  Nella proda del fosso Eustazio ardito.

  Nè in questo ai Franchi fortunoso punto

  476 Contra lor da’ nemici è colpo uscito

  (Chè n’uscir molti) onde non sia disgiunto

  Corpo dall’alma, o non sia almen ferito.

  E in tal prosperità via più feroce

  480 Divenendo il Circasso, alza la voce:

  LXI.

  Non è questa Antiochia, e non è questa

  La notte amica alle Cristiane frodi.

  Vedete il chiaro Sol, la gente desta,

  484 Altra forma di guerra ed altri modi.

  Dunque favilla in voi nulla più resta

  Dell’amor della preda, e delle lodi?

  Chè sì tosto cessate, e sete stanche

  488 Per breve assalto, o Franchi no, ma Franche?

  LXII.

  Così ragiona, e in guisa tal s’accende

  Nelle sue furie il Cavaliero audace:

  Che quell’ampia Città ch’egli difende,

  492 Non gli par campo del suo ardir capace:

  E si lancia a gran salti ove si fende

  Il muro, e la fessura adito face,

  Ed ingombra l’uscita: e grida intanto

  496 A Soliman che si vedeva da canto:

  LXIII.

  Solimano, ecco il loco, ed ecco l’ora

  Che del nostro valor giudice fia.

  Chè cessi? o di chè temi? or costà fuora

  500 Cerchi il pregio sovran chi più ‘l desia.

  Così gli disse; e l’uno e l’altro allora

  Precipitosamente a prova uscia:

  L’un da furor, l’altro da onor rapito,

  504 E stimolato dal feroce invito.

  LXIV.

  Giunsero inaspettati ed improvvisi

  Sovra i nemici, e in paragon mostrarsi:

  E da lor tanti fur uomini uccisi,

  508 E scudi ed elmi dissipati e sparsi,

  E scale tronche, ed arieti incisi;

  Che di lor parve quasi un monte farsi:

  E mescolati alle ruine alzaro,

  512 In vece del caduto, alto riparo.

  LXV.

  La gente che pur dianzi ardì salire

  Al pregio eccelso di mural corona,

  Non ch’or d’entrar nella Cittate aspire,

  516 Ma sembra alle difese anco mal buona:

  E cede al novo assalto, e in preda all’ire

  De’ due guerrier le machine abbandona:

  Ch’ad altra guerra omai saran mal’atte;

  520 Tanto è ‘l furor che le percuote e batte!

  LXVI.

  L’uno e l’altro Pagan, come il trasporta

  L’impeto suo, già più e più trascorre.

  Già ‘l foco chiede ai cittadini, e porta

  524 Due pini fiammeggianti inver la torre.

  Cotali uscir dalla tartarea porta

  Sogliono, e sottosopra il mondo porre,

  Le ministre di Pluto empie sorelle,

  528 Lor ceraste scuotendo e lor facelle.

  LXVII.

  Ma l’invitto Tancredi, il quale altrove

  Confortava all’assalto i suoi Latini,

  Tosto che vide le incredibil prove,

  532 E la gemina fiamma, e i due gran pini:

  Tronca in mezzo le voci, e presto move

  A frenar il furor de’ Saracini.

  E tal del suo valor dà segno orrendo,

  536 Che chi vinse e fugò, fugge or perdendo.

  LXVIII.

  Così della battaglia or quì lo stato

  Col variar della fortuna è volto;

  E in questo mezzo il Capitan piagato

  540 Nella gran tenda sua già s’è raccolto,

  Col buon Sigier, con Baldovino a lato,

  Di mesti amici in gran concorso e folto.

  Ei che s’affretta, e di tirar s’affanna

  544 Della piaga lo stral, rompe la canna.

  LXIX.

  E la via più vicina e più spedita

  Alla cura di lui vuol che si prenda:

  Scoprasi ogni latébra alla ferita,

  548 E largamente si risechi e fenda.

  Rimandatemi in guerra, onde finita

  Non sia col dì, prima ch’a lei mi renda.

  Così dice; e premendo il lungo cerro

  552 D’una gran lancia, offre la gamba al ferro.

  LXX.

  E già l’antico Erotimo, che nacque

  In riva al Po, s’adopra in sua salute:

  Il qual dell’erbe e delle nobil’ acque

  556 Ben conosceva ogni uso, ogni virtute:

  Caro alle Muse ancor; ma si compiacque

  Nella gloria minor dell’arti mute:

  Sol curò torre a morte i corpi frali,

  560 E potea far i nomi anco immortali.

  LXXI.

  Stassi appoggiato, e con sicura faccia

  Freme immobile al pianto il Capitano.

  Quegli in gonna succinto, e dalle braccia

  564 Ripiegato il vestir leggiero e piano,

  Or con l’erbe potenti in van procaccia

  Trarne lo strale, or con la dotta mano:

  E con la destra il tenta, e col tenace

  568 Ferro il va riprendendo, e nulla face.

  LXXII.

  L’arti sue non seconda, ed al disegno

  Par che per nulla via Fortuna arrida:

  E nel piagato Eroe giunge a tal segno

  572 L’aspro martir, che n’è quasi omicida.

  Or quì l’Angel custode, al duol indegno

  Mosso di lui, colse dittamo in Ida:

  Erba crinita di purpureo fiore,

  576 Ch’have in giovani foglie alto valore.

  LXXIII.

  E ben mastra Natura alle montane

  Capre n’insegna la virtù celata,

  Qualor vengon percosse, e lor rimane

  580 Nel fianco affissa la saetta alata.

  Ouesta, benchè da parti assai lontane,

  In un momento l’Angelo ha recata:

  E, non veduto, entro le mediche onde

  584 Degli apprestati bagni il succo infonde.

  LXXIV.

  E del fonte di Lidia i sacri umori,

  E l’odorata panacea vi mesce.

  Ne sparge il vecchio la ferita, e fuori

  588 Volontario per se lo stral se n’esce,

  E si ristagna il sangue: e già i dolori

  Fuggono dalla gamba, e
‘l vigor cresce.

  Grida Erotimo allor: l’arte maestra

  592 Te non risana, o la mortal mia destra;

  LXXV.

  Maggior virtù ti salva: un Angel, credo,

  Medico per te fatto, è sceso in terra;

  Chè di celeste mano i segni vedo:

  596 Prendi l’arme (che tardi?) e riedi in guerra.

  Avido di battaglia il pio Goffredo

  Già nell’ostro le gambe avvolge e serra:

  E l’asta crolla smisurata, e imbraccia

  600 Il già deposto scudo, e l’elmo allaccia.

  Maggior virtù ti salva: Un Angel, credo,

  Medico per te fatto, è sceso in terra.

  LXXVI.

  Uscì dal chiuso vallo e si converse,

  Con mille dietro, alla Città percossa.

  Sopra di polve il Ciel gli si coperse:

  604 Tremò sotto la terra al moto scossa:

  E lontano appressar le genti avverse

  D’alto il miraro, e corse lor per l’ossa

  Un tremor freddo, e strinse il sangue in gelo.

  608 Ed egli alzò tre fiate il grido al Cielo.

  LXXVII.

  Conosce il popol suo l’altera voce,

  E ‘l grido eccitator della battaglia:

  E riprendendo l’impeto veloce

  612 Di novo ancora alla tenzon si scaglia.

  Ma già la coppia dei Pagan feroce

  Nel rotto accolta s’è della muraglia,

  Difendendo ostinata il varco fesso

  616 Dal buon Tancredi e da chi vien con esso.

  LXXVIII.

  Quì disdegnoso giunge e minacciante,

  Chiuso nell’arme, il Capitan di Francia:

  E in su la prima giunta al fero Argante

  620 L’asta ferrata fulminando lancia.

  Nessuna mural machina si vante

  D’avventar con più forza alcuna lancia.

  Tuona per l’aria la nodosa trave:

  624 V’oppon lo scudo Argante, e nulla pave.

  LXXIX.

  S’apre lo scudo al frassino pungente:

  Nè la dura corazza anco il sostiene;

  Chè rompe tutte l’arme, e finalmente

  628 Il sangue Saracino a sugger viene.

  Ma si svelle il Circasso, e ‘l duol non sente,

  Dall’arme il ferro affisso e dalle vene,

  E in Goffredo il ritorse: a te, dicendo,

  632 Rimando il tronco, e l’armi tue ti rendo.

  LXXX.

  L’asta ch’offesa or porta, ed or vendetta,

  Per lo noto sentier vola e rivola.

  Ma già colui non fere ove è diretta;

  636 Ch’egli si piega, e ‘l capo al colpo invola.

  Coglie il fedel Sigiero, il qual ricetta

  Profondamente il ferro entro la gola:

  Nè gli rincresce, del suo caro Duce

  640 Morendo in vece, abbandonar la luce.

  LXXXI.

  Quasi in quel punto Soliman percuote

  Con una selce il cavalier Normando:

  E questi al colpo si contorce e scuote,

  644 E cade in giù, come paléo, rotando.

  Or più Goffredo sostener non puote

  L’ira di tante offese, e impugna il brando:

  E sovra la confusa alta ruina

  648 Ascende, e move omai guerra vicina.

  LXXXII.

  E ben ei vi facea mirabil cose,

  E contrasti seguiano aspri e mortali;

  Ma fuori uscì la notte, e ‘l mondo ascose

  652 Sotto il caliginoso orror dell’ali:

  E l’ombre sue pacifiche interpose

  Fra tante ire de’ miseri mortali:

  Sicchè cessò Goffredo, e fè ritorno.

  656 Cotal fin ebbe il sanguinoso giorno.

  LXXXIII.

  Ma pria che ‘l pio Buglione il campo ceda,

  Fa indietro riportar gli egri e i languenti:

  E già non lascia a’ suoi nemici in preda

  660 L’avanzo de’ suoi bellici tormenti.

  Pur salva la gran torre avvien che rieda,

  Primo terror delle nemiche genti:

  Comechè sia dall’orrida tempesta

  664 Sdrucita anch’essa in alcun loco, e pesta.

  LXXXIV.

  Da’ gran periglj uscita ella sen viene

  Giungendo a loco omai di sicurezza.

  Ma qual nave talor ch’a vele piene

  668 Corre il mar procelloso, e l’onde sprezza;

  Poscia in vista del porto, o su le arene,

  O su i fallaci scoglj un fianco spezza:

  O qual destrier passa le dubbie strade,

  672 E presso al dolce albergo incespa e cade:

  LXXXV.

  Tale inciampa la torre; e tal da quella

  Parte che volse all’impeto de’ sassi,

  Frange due rote debili, sicch’ella

  676 Ruinosa pendendo arresta i passi.

  Ma le soppone appoggj, e la puntella

  Lo stuol che la conduce, e seco stassi,

  Insin che i pronti fabbri intorno vanno,

  680 Saldando in lei d’ogni sua piaga il danno.

  LXXXVI.

  Così Goffredo impone, il qual desia

  Che si racconci innanzi al nuovo Sole.

  Ed occupando questa e quella via,

  684 Dispon le guardie intorno all’alta mole;

  Ma il suon dalla Città chiaro s’udia

  Di fabbrili instrumenti e di parole,

  E mille si vedean fiaccole accese,

  688 Onde seppesi il tutto, e si comprese.

  Canto dodicesimo

  ARGOMENTO.

  Prima, da un suo fedel, Clorinda ascolta

  Del suo natal l’istoria, e poi sen viene

  Ignota al campo, a grand’impresa volta.

  Questa tragge ella a fine; indi s’avviene

  In Tancredi, da cui l’alma l’è tolta;

  Ma ben, anzi ‘l morir, battesmo ottiene.

  Piange l’estinta il Prence. Argante giura

  Di dar a chi l’uccise aspra ventura.

  CANTO DUODECIMO.

  Era la notte, e non prendean ristoro

  Col sonno ancor le faticose genti:

  Ma quì, vegghiando, nel fabbril lavoro

  4 Stavano i Franchi alla custodia intenti:

  E là i Pagani le difese loro

  Gían rinforzando tremule e cadenti,

  E reintegrando le già rotte mura:

  8 E de’ feriti era comun la cura.

  II.

  Curate alfin le piaghe, e già finita

  Dell’opere notturne era qualch’una:

  E rallentando l’altre, al sonno invita

  12 L’ombra omai fatta più tacita e bruna.

  Pur non accheta la Guerriera ardita

  L’alma d’onor famelica e digiuna,

  E sollecita l’opre, ove altri cessa.

  16 Va seco Argante; e dice ella a se stessa:

  III.

  Ben oggi il Re de’ Turchi, e ‘l buon Argante

  Fer maraviglie inusitate e strane:

  Chè soli uscir fra tante schiere e tante,

  20 E vi spezzar le machine Cristiane.

  Io (questo è il sommo pregio onde mi vante)

  D’alto, rinchiusa, oprai l’armi lontane,

  Sagittaria (nol nego) assai felice.

  24 Dunque sol tanto a donna, e più non lice?

  IV.

  Quanto me’ fora in monte, od in foresta

  Alle fere avventar dardi e quadrella;

  Ch’ove il maschio valor si manifesta

  28 Mostrarmi quì tra’ cavalier donzella.

  Chè non riprendo la femminea vesta,

  S’io ne son degna, e non mi chiudo in cella?

  Così parla tra se; pensa, e risolve

  32 Alfin gran cose, ed al guerrier si volve.

  V.

  Buona pezza è, Signor, che in se raggira

  Un non so chè d’insolito e d’audace

&nb
sp; La mia mente inquieta: o Dio l’inspira,

  36 O l’uom del suo voler suo Dio si face.

  Fuor del vallo nemico accesi mira

  I lumi: io là n’andrò con ferro e face,

  E la torre arderò: vogl’io che questo

  40 Effetto segua, il Ciel poi curi il resto.

  VI.

  Ma s’egli avverrà pur che mia ventura

  Nel mio ritorno mi rinchiuda il passo;

  D’uom, che in amor m’è padre, a te la cura

  44 E delle fide mie donzelle io lasso.

  Tu nell’Egitto rimandar procura

  Le donne sconsolate, e ‘l vecchio lasso.

  Fallo, per Dio, Signor; chè di pietate

  48 Ben è degno quel sesso, e quella etate.

  VII.

  Stupisce Argante, e ripercosso il petto

  Da stimoli di gloria acuti sente.

  Tu là n’andrai, rispose, e me negletto

  52 Qui lascierai tra la volgare gente?

  E da sicura parte avrò diletto

  Mirar il fumo e la favilla ardente?

  No, no, se fui nell’arme a te consorte,

  56 Esser vuò nella gloria e nella morte.

  VIII.

  Ho core anch’io che morte sprezza, e crede

  Che ben si cambi con l’onor la vita.

  Ben ne festi, diss’ella, eterna fede

  60 Con quella tua sì generosa uscita.

  Pure io femmina sono, e nulla riede

  Mia morte in danno alla Città smarrita.

  Ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augurj)

  64 Or chi sarà che più difenda i muri?

  IX.

  Replicò il Cavaliero: indarno adduci

  Al mio fermo voler fallaci scuse.

  Seguirò l’orme tue, se mi conduci;

  68 Ma le precorrerò, se mi ricuse.

  Concordi al Re ne vanno, il qual fra i duci

  E fra i più saggj suoi gli accolse e chiuse.

  E incominciò Clorinda: o Sire, attendi

  72 A ciò che dir voglianti, e in grado il prendi.

  X.

  Argante quì (nè sarà vano il vanto)

  Quella machina eccelsa arder promette.

  Io sarò seco: ed aspettiam sol tanto

  76 Che stanchezza maggiore il sonno allette.

  Sollevò il Re le palme, e un lieto pianto

  Giù per le crespe guancie a lui cadette:

  E, lodato sia tu, disse, ch’ai servi

  80 Tuoi volgi gli occhj, e ‘l regno anco mi servi.

  XI.

  Nè già sì tosto caderà, se tali

  Animi forti in sua difesa or sono.

  Ma qual poss’io, coppia onorata, eguali

  84 Dar ai meriti vostri o laude o dono?

  Laudi la fama voi con immortali

  Voci di gloria, e ‘l mondo empia del suono.

  Premio v’è l’opra stessa, e premio in parte

  88 Vi fia del regno mio non poca parte.

  XII.

  Sì parla il Re canuto; e si ristringe

  Or questa or quel teneramente al seno.

 

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