Il Soldan ch’è presente, e non infinge
92 La generosa invidia onde egli è pieno,
Disse: nè questa spada invan si cinge,
Verravvi a paro, o poco dietro almeno.
Ah, rispose Clorinda, andremo a questa
96 Impresa tutti? e se tu vien, chi resta?
XIII.
Così gli disse; e con rifiuto altero
Già s’apprestava a ricusarlo Argante:
Ma ‘l Re il prevenne, e ragionò primiero
100 A Soliman con placido sembiante:
Ben sempre tu, magnanimo guerriero,
Ne ti mostrasti a te stesso sembiante,
Cui nulla faccia di periglio unquanco
104 Sgomentò, nè mai fosti in guerra stanco.
XIV.
E so che, fuori andando, opre faresti
Degne di te; ma sconvenevol parmi
Che tutti usciate, e dentro alcun non resti
108 Di voi che sete i più famosi in armi.
Nemmen consentirei ch’andasser questi,
Chè degno è il sangue lor che si risparmi,
Se o men util tal opra, o mi paresse
112 Che finita per altri esser potesse.
XV.
Ma poichè la gran torre, in sua difesa,
D’ogn’intorno le guardie ha così folte;
Che da poche mie genti esser offesa
116 Non puote, e inopportuno è uscir con molte;
La coppia che s’offerse all’alta impresa
E in simil rischio si trovò più volte,
Vada felice pur; ch’ella è ben tale,
120 Che sola più che mille insieme vale.
XVI.
Tu, come al regio onor più si conviene,
Con gli altri, prego, in su le porte attendi.
E quando poi (chè n’ho sicura spene)
124 Ritornino essi, e desti abbian gl’incendj:
Se stuol nemico seguitando viene,
Lui risospingi, e lor salva e difendi.
Così l’un Re diceva; e l’altro cheto
128 Rimaneva al suo dir, ma non già lieto.
XVII.
Soggiunse allora Ismeno: attender piaccia
A voi, ch’uscir dovete, ora più tarda;
Sinchè, di varie tempre, un misto i’ faccia
132 Ch’alla machina ostil s’appigli e l’arda.
Forse allora avverrà che parte giaccia
Di quello stuol che la circonda e guarda.
Ciò fu concluso; e in sua magion ciascuno
136 Aspetta il tempo al gran fatto opportuno.
XVIII.
Depon Clorinda le sue spoglie inteste
D’argento, e l’elmo adorno, e l’armi altere:
E, senza piuma o fregio, altre ne veste
140 (Infausto annunzio) rugginose e nere:
Perocchè stima agevolmente in queste
Occulta andar fra le nemiche schiere.
È quivi Arsete eunuco il qual, fanciulla,
144 La nudrì dalle fasce e dalla culla.
XIX.
E per l’orme di lei l’antico fianco
D’ogn’intorno traendo, or la seguia.
Vede costui l’arme cangiate, ed anco
148 Del gran rischio s’accorge ove ella gía:
E se n’affligge: e per lo crin, che bianco
In lei servendo ha fatto, e per la pia
Memoria de’ suo’ uficj istando, prega
152 Che dall’impresa cessi: ed ella il nega.
XX.
Onde ei le dice alfin: poichè ritrosa
Sì la tua mente nel suo mal s’indura,
Che nè la stanca età, nè la pietosa
156 Voglia, nè i preghi miei, nè il pianto cura;
Ti spiegherò più oltre: e saprai cosa,
Di tua condizion, che t’era oscura:
Poi tuo desir ti guidi, o mio consiglio;
160 Ei segue, ed ella innalza attenta il ciglio.
XXI.
Resse già l’Etiopia, e forse regge
Senapo ancor, con fortunato impero:
Il qual del figlio di Maria la legge
164 Osserva, e l’osserva anco il popol nero.
Quivi io Pagan fui servo, e fui tra gregge
D’ancelle avvolto in femminil mestiero,
Ministro fatto della regia moglie,
168 Che bruna è sì, ma il bruno il bel non toglie.
XXII.
N’arde il marito, e dell’amore al foco
Ben della gelosia s’agguaglia il gelo.
Si va in guisa avanzando appoco appoco
172 Nel tormentoso petto il folle zelo,
Che da ogn’uom la nasconde; in chiuso loco
Vorria celarla ai tanti occhj del Cielo.
Ella, saggia ed umíl, di ciò che piace
176 Al suo Signor, fa suo diletto e pace.
XXIII.
D’una pietosa istoria, e di devote
Figure la sua stanza era dipinta.
Vergine bianca il bel volto, e le gote
180 Vermiglia, è quivi presso un drago avvinta.
Con l’asta il mostro un cavalier percuote:
Giace la fera nel suo sangue estinta.
Quivi sovente ella s’atterra, e spiega
184 Le sue tacite colpe, e piange e prega.
XXIV.
Ingravida frattanto, ed espon fuori
(e tu fosti colei) candida figlia.
Si turba; e degl’insoliti colori,
188 Quasi d’un novo mostro, ha maraviglia.
Ma perchè il Re conosce e i suoi furori,
Celargli il parto alfin si riconsiglia:
Ch’egli avria dal candor, che in te si vede,
192 Argomentato in lei non bianca fede.
XXV.
Ed in tua vece una fanciulla nera
Pensa mostrargli, poco innanzi nata.
E perchè fu la torre, ove chius’era,
196 Dalle donne e da me solo abitata;
A me, che le fui servo e con sincera
Mente l’amai, ti diè non battezzata.
Nè già poteva allor battesmo darti:
200 Chè l’uso nol sostien di quelle parti.
XXVI.
Piangendo, a me ti porse, e mi commise
Ch’io lontana a nutrir ti conducessi.
Chi può dire il suo affanno, e in quante guise
204 Lagnossi, e raddoppiò gli ultimi amplessi?
Bagnò i bacj di pianto, e fur divise
Le sue querele da i singulti spessi.
Levò alfin gli occhj, e disse: O Dio, che scerni
208 L’opre più occulte, e nel mio cor t’interni:
XXVII.
Se immaculato è questo cor, se intatte
Son queste membra e ‘l marital mio letto;
Per me non prego, chè mille altre ho fatte
212 Malvagità; son vile al tuo cospetto:
Salva il parto innocente, al quale il latte
Nega la madre del materno petto.
Viva, e sol d’onestate a me somigli:
216 L’esempio di fortuna altronde pigli.
XXVIII.
Tu, celeste guerrier, che la donzella
Togliesti del serpente agli empj morsi;
S’accesi ne’ tuo’ altari umil facella,
220 S’auro o incenso odorato unqua ti porsi;
Tu per lei prega sì, che fida ancella
Possa in ogni fortuna a te raccorsi.
Quì tacque, e ‘l cor le si rinchiuse e strinse,
224 E di pallida morte si dipinse.
XXIX.
Io piangendo ti presi, e in breve cesta
Fuor ti portai tra fiori e frondi ascosa:
Ti celai da ciascun, chè nè di questa
228 Diedi sospetto altrui, nè d’altra cosa.
Me n’andai sconosciuto, e per foresta
Camminando di piante orride ombrosa,
Vidi una tigre, che minacce ed ire
232 Avea negli occhj, incontro a me v
enire.
XXX.
Sovra un albero i’ salsi, e te su l’erba
Lasciai; tanta paura il cor mi prese!Giunse l’orribil fera, e, la superba
236 Testa volgendo, in te lo sguardo intese.
Mansuefece, e raddolcío l’acerba
Vista con atto placido e cortese.
Lenta poi s’avvicina, e ti fa vezzi
240 Con la lingua: e tu ridi e l’accarezzi.
XXXI.
Ed ischerzando seco, al fero muso
La pargoletta man sicura stendi.
Ti porge ella le mamme, e, come è l’uso
244 Di nutrice, s’adatta, e tu le prendi.
Intanto io miro timido e confuso,
Come uom faria novi prodigj orrendi.
Poichè sazia ti vede omai la belva
248 Del suo latte, si parte e si rinselva:
XXXII.
Ed io giù scendo e ti ricolgo, e torno
Là ‘ve prima fur volti i passi miei:
E preso in picciol borgo alfin soggiorno,
252 Celatamente ivi nutrir ti fei.
Vi stetti insin che ‘l Sol, correndo intorno,
Portò a’ mortali e dieci mesi e sei.
Tu con lingua di latte anco snodavi
256 Voci indistinte, e incerte orme segnavi.
XXXIII.
Ma sendo io colà giunto ove dechina
L’etate omai cadente alla vecchiezza;
Ricco e sazio dell’or che la Regina,
260 Nel partir, diemmi con regale ampiezza;
Da quella vita errante e peregrina
Nella patria ridurmi ebbi vaghezza:
E tra gli antichi amici in caro loco
264 Viver, temprando il verno al proprio foco.
XXXIV.
Partomi, e ver l’Egitto, ove son nato,
Te conducendo meco, il corso invio:
E giungo ad un torrente, e riserrato
268 Quinci da i ladri son, quindi dal rio.
Che debbo far? te dolce peso amato
Lasciar non voglio, e di campar desio.
Mi getto a nuoto, ed una man ne viene
272 Rompendo l’acqua, e te l’altra sostiene.
XXXV.
Rapidissimo è il corso, e in mezzo l’onda
In se medesma si ripiega e gira;
Ma giunto ove più volge e si profonda,
276 In cerchio ella mi torce, e giù mi tira.
Ti lascio allor; ma t’alza e ti seconda
L’acqua, e secondo all’acqua il vento spira,
E t’espon salva in su la molle arena;
280 Stanco anelando io poi vi giungo appena.
XXXVI.
Lieto ti prendo: e poi la notte, quando
Tutte in alto silenzio eran le cose,
Vidi in sogno un guerrier che, minacciando,
284 A me sul volto il ferro ignudo pose.
Imperioso disse: io ti comando
Ciò che la madre sua primier t’impose
Che battezzi l’infante; ella è diletta
288 Del Cielo, e la sua cura a me s’aspetta.
XXXVII.
Io la guardo e difendo: io spirto diedi
Di pietate alle fere, e mente all’acque.
Misero te, se al sogno tuo non credi
292 Ch’è del Ciel messaggiero; e quì si tacque.
Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi,
Come del giorno il primo raggio nacque:
Ma perchè mia fe vera, e l’ombre false
296 Stimai, di tuo battesmo a me non calse,
XXXVIII.
Nè de i preghi materni; onde nudrita
Pagana fosti, e ‘l vero a te celai.
Crescesti, e, in arme valorosa e ardita,
300 Vincesti il sesso e la natura assai:
Fama e terre acquistasti: e qual tua vita
Sia stata poscia, tu medesma il sai:
E sai non men che servo insieme e padre
304 Io t’ho seguita fra guerriere squadre.
XXXIX.
Jer poi su l’alba alla mia mente, oppressa
D’alta quiete e simile alla morte,
Nel sonno s’offerì l’imago stessa;
308 Ma in più turbata vista, e in suon più forte,
Ecco (dicea) fellon, l’ora s’appressa
Che dee cangiar Clorinda e vita e sorte:
Mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.
312 Ciò disse, e poi n’andò per l’aria a volo.
XL.
Or odi dunque tu, che ‘l Ciel minaccia
A te, diletta mia, strani accidenti.
Io non so: forse a lui vien che dispiaccia
316 Ch’altri impugni la fe de’ suoi parenti:
Forse è la vera fede. Ah giù ti piaccia
Depor quest’arme e questi spirti ardenti.
Quì tace e piagne: ed ella pensa e teme;
320 Chè un altro simil sogno il cor le preme.
XLI.
Rasserenando il volto, alfin gli dice:
Quella fe seguirò che vera or parmi:
Che tu col latte già della nutrice
324 Sugger mi festi, e che vuoi dubbia or farmi:
Nè per temenza lascerò (nè lice
A magnanimo cor) l’impresa e l’armi.
Non se la morte, nel più fer sembiante
328 Che sgomenti i mortali, avessi innante.
XLII.
Poscia il consola: e perchè il tempo giunge
Ch’ella deve ad effetto il vanto porre;
Parte, e con quel guerrier si ricongiunge
332 Che si vuol seco al gran periglio esporre.
Con lor s’aduna Ismeno, e instiga e punge
Quella virtù che per se stessa corre:
E lor porge di zolfo e di bitumi
336 Due palle, e in cavo rame ascosi lumi.
XLIII.
Escon notturni, e piani, e per lo colle
Uniti vanno a passo lungo e spesso;
Tanto che a quella parte ove s’estolle
340 La machina nemica omai son presso.
Lor s’infiamman gli spirti, e ‘l cor ne bolle,
Nè può tutto capir dentro se stesso.
Gl’invita al foco, al sangue un fero sdegno.
344 Grida la guardia, e lor dimanda il segno.
XLIV.
Essi van cheti innanzi; onde la guarda,
All’arme all’arme in alto suon raddoppia.
Ma più non si nasconde, e non è tarda
348 Al corso allor la generosa coppia.
In quel modo che fulmine o bombarda,
Col lampeggiar, tuona in un punto e scoppia;
Muovere, ed arrivar, ferir lo stuolo,
352 Aprirlo, e penetrar, fu un punto solo.
XLV.
E forza è pur che, fra mill’arme e mille
Percosse, il lor disegno alfin riesca;
Scopriro i chiusi lumi, e le faville
356 S’appreser tosto all’accensibil’ esca,
Ch’ai legni poi le avvolse, e compartille.
Chi può dir come serpa, e come cresca
Già da più lati il foco? e come folto
360 Turbi il fumo alle stelle il puro volto?
XLVI.
Vedi globi di fiamme oscure e miste,
Fra le rote del fumo, in Ciel girarsi.
Il vento soffia, e vigor fa ch’acquiste
364 L’incendio, e in un raccolga i fochi sparsi.
Fere il gran lume con terror le viste
De’ Franchi, e tutti son presti ad armarsi.
La mole immensa e sì temuta in guerra,
368 Cade; e breve ora opre sì lunghe atterra.
XLVII.
Due squadre de’ Cristiani intanto al loco
Dove sorge l’incendio accorron pronte.
Minaccia Argante: io spegnerò quel foco
372 Col vostro sangue, e volge lor la fronte.
Pur ristretto a Clorinda appoco appoco
Cede, e raccoglie i passi a sommo
il monte.
Cresce più che torrente a lunga pioggia
376 La turba, e li rincalza, e con lor poggia.
XLVIII.
Aperta è l’aurea porta, e quivi tratto
È il Re, ch’armato il popol suo circonda,
Per raccorre i guerrier da sì gran fatto,
380 Quando al tornar fortuna abbian seconda.
Saltano i due sul limitare, e ratto
Diretro ad essi il Franco stuol v’inonda.
Ma l’urta e scaccia Solimano: e chiusa
384 È poi la porta, e sol Clorinda esclusa.
XLIX.
Sola esclusa ne fu, perchè in quell’ora
Ch’altri serrò le porte, ella si mosse:
E corse, ardente e incrudelita, fuora
388 A punir Arimon che la percosse.
Punillo; e ‘l fero Argante avvisto ancora
Non s’era ch’ella sì trascorsa fosse:
Chè la pugna e la calca e l’aer denso
392 Ai cor togliea la cura, agli occhj il senso.
L.
Ma poi che intepidì la mente irata
Nel sangue del nemico, e in se rivenne,
Vide chiuse le porte, e intorniata
396 Sè da’ nemici: e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
Nov’arte di salvarsi le sovvenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gl’ignoti
400 Cheta s’avvolge; e non è chi la noti.
LI.
Poi, come lupo tacito s’imbosca
Dopo occulto misfatto, e si desvia:
Dalla confusion, dall’aura fosca
404 Favorita e nascosa ella sen gía.
Solo Tancredi avvien che lei conosca.
Egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
Vi giunse allor ch’essa Arimone uccise:
408 Vide, e segnolla, e dietro a lei si mise.
LII.
Vuol nell’armi provarla: un uom la stima
Degno, a cui sua virtù si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
412 Verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso; onde assai prima
Che giunga, in guisa avvien che d’armi suone
Ch’ella si volge, e grida: o tu, chè porte,
416 Chè corri sì? Risponde: guerra, e morte.
LIII.
Guerra e morte avrai, disse, io non rifiuto
Darlati, se la cerchi: e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
420 Ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
Ed aguzza l’orgoglio, e l’ire accende.
E vansi a ritrovar non altrimenti
424 Che due tori gelosi, e d’ira ardenti.
LIV.
Degne d’un chiaro Sol, degne d’un pieno
Teatro, opre sarian sì memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
428 Chiudesti e nell’oblio fatto sì grande,
Piacciati ch’io ne ‘l tragga, e in bel sereno
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