Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 140

by Torquato Tasso


  Quando venendo ai due guerrieri il Saggio

  4 Portò il foglio, e lo scudo, e l’aurea verga.

  Accingetevi, disse, al gran viaggio

  Prima che ‘l dì, che spunta omai, più s’erga.

  Eccovi quì quanto ho promesso, e quanto

  8 Può della maga superar l’incanto.

  II.

  Erano essi già sorti, e l’arme intorno

  Alle robuste membra avean già messe:

  Onde, per vie che non rischiara il giorno,

  12 Tosto seguono il vecchio; e son l’istesse

  Vestigia ricalcate, or nel ritorno,

  Che furon prima nel venire impresse.

  Ma giunti al letto del suo fiume: amici,

  16 Io v’accommiato, ei disse; ite felici.

  III.

  Gli accoglie il rio nell’alto seno, e l’onda

  Soavemente in su gli spinge e porta

  Come suole innalzar leggiera fronda,

  20 La qual da violenza in giù fu torta:

  E poi gli espon sovra la molle sponda:

  Quinci mirar la già promessa scorta.

  Vider picciola nave, e in poppa quella,

  24 Che guidar gli dovea, fatal donzella.

  IV.

  Crinita fronte essa dimostra, e ciglia

  Cortesi e favorevoli e tranquille:

  E nel sembiante agli Angioli somiglia;

  28 Tanta luce ivi par ch’arda e sfaville!

  La sua gonna or azzurra, ed or vermiglia

  Diresti, e si colora in guise mille:

  Sicch’uom sempre diversa a se la vede,

  32 Quantunque volte a riguardarla riede.

  V.

  Così piuma talor, che di gentile

  Amorosa colomba il collo cinge,

  Mai non si scorge a se stessa simíle;

  36 Ma in diversi colori al Sol si tinge.

  Or d’accesi rubin sembra un moníle:

  Or di verdi smeraldi il lume finge:

  Or insieme gli mesce: e varia e vaga,

  40 In cento modi, i riguardanti appaga.

  VI.

  Entrate, dice, o fortunati, in questa

  Nave ond’io l’Ocean, sicura, varco:

  Cui destro è ciascun vento, ogni tempesta

  44 Tranquilla, e lieve ogni gravoso incarco.

  Per ministra e per duce or mi v’appresta

  Il mio signor, del favor suo non parco.

  Così parlò la donna; e più vicino

  48 Fece poscia alla sponda il curvo pino.

  VII.

  Come la nobil coppia ha in quel raccolta,

  Spinge la ripa, e gli rallenta il morso:

  Ed avendo la vela all’aure sciolta,

  52 Ella siede al governo, e regge il corso.

  Gonfio il torrente è sì ch’a questa volta

  I naviglj portar ben può sul dorso;

  Ma questo è sì leggier, che ‘l sosterrebbe

  56 Qual altro rio per novo umor men crebbe.

  VIII.

  Veloce sovra il natural costume

  Spingon la vela in verso il lido i venti.

  Biancheggian l’acque di canute spume,

  60 E rotte dietro mormorar le senti.

  Ecco giungono omai là dove il fiume

  Queta, in letto maggior, l’onde correnti:

  E nell’ampie voragini del mare

  64 Disperso, o divien nulla o nulla appare.

  IX.

  Appena ha tocco la mirabil nave

  Della marina, allor turbata, il lembo;

  Che spariscon le nubi, e cessa il grave

  68 Noto che minacciava oscuro nembo.

  Spiana i monti dell’onde aura soave,

  E solo increspa il bel ceruleo grembo:

  E d’un dolce seren diffuso ride

  72 Il Ciel, che sè più chiaro unqua non vide.

  X.

  Trascorse oltre Ascalona, ed a mancina

  Andò la navicella inver Ponente.

  E tosto a Gaza si trovò vicina,

  76 Che fu porto di Gaza anticamente.

  Ma poi, crescendo dell’altrui rovina,

  Città divenne assai grande e possente:

  Ed eranvi le piagge allor ripiene

  80 Quasi d’uomini sì come d’arene.

  XI.

  Volgendo il guardo a terra, i naviganti

  Scorgean di tende numero infinito.

  Miravan cavalier, miravan fanti

  84 Ire e tornar dalla cittade al lito:

  E da cammeli onusti, e da elefanti

  L’arenoso sentier calpesto e trito:

  Poi del porto vedean ne’ fondi cavi

  88 Sorte, e legate all’ancore le navi;

  XII.

  Altre spiegar le vele, e ne vedieno

  Altre i remi trattar veloci e snelle:

  E da essi e da’ rostri il molle seno

  92 Spumar percosso in queste parti e in quelle.

  Disse la donna allor: benchè ripieno

  Il lido e ‘l mar sia delle genti felle;

  Non ha insieme però le schiere tutte

  96 Il potente Tiranno anco ridutte.

  XIII.

  Sol dal regno d’Egitto, e dal contorno

  Raccolte ha queste; or le lontane attende:

  Chè verso l’Oriente e ‘l Mezzo giorno

  100 Il vasto imperio suo molto si stende.

  Sicchè sper’io che prima assai ritorno

  Fatto avrem noi, che mova egli le tende:

  Egli, o quel che in sua vece esser soprano

  104 Dell’esercito suo de’ capitano.

  XIV.

  Mentre ciò dice, come aquila suole

  Tra gli altri augelli trapassar sicura,

  E sorvolando ir tanto appresso il Sole

  108 Che nulla vista più la raffigura;

  Così la nave sua sembra che vole

  Tra legno e legno: e non ha tema o cura

  Che vi sia chi l’arresti, o chi la segua:

  112 E da lor s’allontana, e si dilegua.

  XV.

  E in un momento incontra Raffia arriva,

  Città la qual in Siria appar primiera

  A chi d’Egitto muove: indi alla riva

  116 Sterilissima vien di Rinocera.

  Non lunge un monte poi le si scopriva,

  Che sporge sovra ‘l mar la chioma altera,

  E i piè si lava nelle instabili onde,

  120 E l’ossa di Pompeo nel grembo asconde.

  XVI.

  Poi Damiata scopre: e come porte

  Al mar tributo di celesti umori

  Per sette il Nilo sue famose porte,

  124 E per cento altre ancor foci minori.

  E naviga oltre la Città dal forte

  Greco fondata ai Greci abitatori:

  Ed oltra Faro, isola già che lunge

  128 Giacque dal lido, al lido or si congiunge.

  XVII.

  Rodi e Creta lontane inverso ‘l polo

  Non scerne; e pur lungo Africa sen viene,

  Sul mar culta e ferace: addentro solo

  132 Fertil di mostri, e d’infeconde arene.

  La Marmarica rade: e rade il suolo

  Dove cinque Cittadi ebbe Cirene:

  Qui Tolomita, e poi con l’onde chete

  136 Sorger si mira il favoloso Lete.

  XVIII.

  La maggior Sirte a’ naviganti infesta,

  Trattasi in alto, inver le piaggie lassa.

  E ‘l capo di Giudeca indietro resta:

  140 E la foce di Magra indi trapassa.

  Tripoli appar sul lido, e in contra a questa

  Giace Malta fra l’onde occulta e bassa:

  E poi riman con l’altre Sirti a tergo

  144 Alzerbe, già de’ Lotofagi albergo.

  XIX.

  Nel curvo lido poi Tunisi vede,

  Che ha d’ambo i lati del suo golfo un monte:

  Tunisi ricca ed onorata sede

  148 A par di quante n’ha Libia più conte.

  A lui
di costa la Sicilia siede,

  Ed il gran Lilibeo gl’innalza a fronte.

  Or quinci addita la donzella, ai due

  152 Guerrieri, il loco ove Cartagin fue.

  XX.

  Giace l’alta Cartago; appena i segni

  Dell’alte sue ruine il lido serba.

  Muojono le Città, muojono i regni:

  156 Copre i fasti e le pompe arena ed erba:

  E l’uom d’esser mortal par che si sdegni:

  O nostra mente cupida e superba!

  Giungon quinci a Biserta, e più lontano

  160 Han l’isola de’ Sardi all’altra mano.

  XXI.

  Trascorser poi le piaggie ove i Numidi

  Menar già vita pastorale erranti.

  Trovar Bugia, ed Algieri, infami nidi

  164 Di corsari: ed Oran trovar più innanti.

  E costeggiar di Tingitana i lidi,

  Nutrice di leoni e d’elefanti:

  Ch’or di Marocco è il regno, e quel di Fessa:

  168 E varcar la Granata incontro ad essa.

  XXII.

  Son già là dove il mar fra terra inonda,

  Per via ch’esser d’Alcide opra si finse.

  E forse è ver ch’una continua sponda

  172 Fosse, ch’alta ruina in due distinse.

  Passovvi a forza l’Oceano: e l’onda

  Abila quinci, e quindi Calpe spinse.

  Spagna e Libia partío con foce angusta;

  176 Tanto mutar può lunga età vetusta!

  XXIII.

  Quattro volte era apparso il Sol nell’Orto,

  Dacchè la nave si spiccò dal lito:

  Nè mai (ch’uopo non fu) s’accolse in porto,

  180 E tanto del cammino ha già fornito.

  Or entra nello stretto, e passa il corto

  Varco, e s’ingolfa in pelago infinito.

  Se il mar quì è tanto, ove il terreno il serra,

  184 Che fia colà dov’egli ha in sen la terra?

  XXIV.

  Più non si mostra omai tra gli alti flutti

  La fertil Gade, e l’altre due vicine.

  Fuggite son le terre, e i lidi tutti:

  188 Dell’onda il Ciel, del Ciel l’onda è confine.

  Diceva Ubaldo allor: tu che condutti

  N’hai, donna, in questo mar che non ha fine;

  Dì, s’altri mai quì giunse: e se più innante

  192 Nel mondo, ove corriamo, have abitante.

  XXV.

  Risponde: Ercole poich’uccisi i mostri

  Ebbe di Libia, e del paese Ispano:

  E tutti scorsi, e vinti i lidi vostri,

  196 Non osò di tentar l’alto Oceáno.

  Segnò le mete, e in troppo brevi chiostri

  L’ardir ristrinse dell’ingegno umano.

  Ma quei segni sprezzò ch’egli prescrisse,

  200 Di veder vago e di sapere, Ulisse.

  XXVI.

  Ei passò le colonne, e per l’aperto

  Mare spiegò de’ remi il volo audace:

  Ma non giovogli esser nell’onde esperto,

  204 Perchè inghiottillo l’Ocean vorace:

  E giacque col suo corpo anco coperto

  Il suo gran caso, ch’or tra voi si tace.

  S’altri vi fu da’ venti a forza spinto,

  208 O non tornonne, o vi rimase estinto.

  XXVII.

  Sicchè ignoto è il gran mar che solchi: ignote

  Isole mille e mille regni asconde,

  Nè già d’abitator le terre han vote;

  212 Ma son come le vostre anco feconde.

  Son esse atte al produr: nè steril puote

  Esser quella virtù che ‘l Sol v’infonde.

  Ripiglia Ubaldo allor: del mondo occulto,

  216 Dimmi, quai son le leggi e quale il culto.

  XXVIII.

  Gli soggiunse colei: diverse bande

  Diversi han riti, ed abiti e favelle.

  Altri adora le belve: altri la grande

  220 Comune madre: il Sole altri e le stelle.

  V’è chi d’abbominevoli vivande

  Le mense ingombra scellerate e felle.

  E in somma ognun, che in qua da Calpe siede,

  224 Barbaro è di costumi, empio di fede.

  XXIX.

  Dunque (a lei replicava il cavaliero)

  Quel Dio che scese a illuminar le carte,

  Vuole ogni raggio ricoprir del vero

  228 A questa che del mondo è sì gran parte?

  No, rispose ella, anzi la fe di Piero

  Fiavi introdotta, ed ogni civil’ arte.

  Nè già sempre sarà che la via lunga

  232 Questi da’ vostri popoli disgiunga.

  XXX.

  Tempo verrà che fian d’Ercole i segni

  Favola vile ai naviganti industri:

  E i mar riposti, or senza nome, e i regni

  236 Ignoti, ancor tra voi saranno illustri.

  Fia che il più ardito allor di tutti i legni

  Quanto circonda il mar circondi e lustri.

  E la terra misuri, immensa mole,

  240 Vittorioso ed emulo del Sole.

  XXXI.

  Un uom della Liguria avrà ardimento

  All’incognito corso esporsi in prima,

  Nè ‘l minaccevol fremito del vento,

  244 Nè l’inospito mar, nè ‘l dubbio clima,

  Nè s’altro di periglio, o di spavento

  Più grave e formidabile or si stima;

  Faran che il generoso, entro ai divieti

  248 D’Abila angusti, l’alta mente accheti.

  XXXII.

  Tu spiegherai, Colombo, a un nuovo polo

  Lontane sì le fortunate antenne,

  Ch’appena seguirà con gli occhj il volo

  252 La Fama, c’ha mille occhj e mille penne.

  Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo

  Basti a’ posteri tuoi ch’alquanto accenne:

  Chè quel poco darà lunga memoria

  256 Di poema degnissima e d’istoria.

  XXXIII.

  Così dice ella; e per le ondose strade

  Corre al Ponente, e piega al Mezzogiorno.

  E vede come incontra il Sol giù cade,

  260 E come a tergo lor rinasce il giorno.

  E quando appunto i raggj e le rugiade

  La bella aurora seminava intorno,

  Lor s’offrì, di lontano, oscuro un monte

  264 Che tra le nubi nascondea la fronte.

  XXXIV.

  E ‘l vedean poscia, procedendo avante,

  Quando ogni nuvol già n’era rimosso,

  Alle acute piramidi sembiante,

  268 Sottile inver la cima, e in mezzo grosso:

  E mostrarsi talor così fumante,

  Come quel che d’Encelado è sul dosso:

  Che per propria natura il giorno fuma,

  272 E poi la notte il Ciel di fiamme alluma.

  XXXV.

  Ecco altre isole insieme, altre pendíci

  Scoprian alfin men erte ed elevate.

  Ed eran queste l’isole felici;

  276 Così le nominò la prisca etate,

  A cui tanto stimava i Cieli amici,

  Che credea volontarie, e non arate

  Quì partorir le terre, e in più graditi

  280 Frutti, non culte, germogliar le viti.

  XXXVI.

  Quì non fallaci mai fiorir gli olivi,

  E ‘l mel dicea stillar dall’elci cave:

  E scender giù da lor montagne i rivi

  284 Con acque dolci, e mormorio soave:

  E zefiri e rugiade i raggj estivi

  Temprarvi sì, che nullo ardor v’è grave:

  E quì gli Elisj campi, e le famose

  288 Stanze delle beate anime pose.

  XXXVII.

  A queste or vien la donna, ed, omai sete

  Dal fin del corso, lor dicea, non lunge.

  L’isole di Fortuna ora vedete,

  292 Di cui gran fama a voi, ma
incerta, giunge.

  Ben son elle feconde, e vaghe e liete;

  Ma pur molto di falso al ver s’aggiunge.

  Così parlando, assai presso si fece

  296 A quella che la prima è delle diece.

  XXXVIII.

  Carlo incomincia allor: se ciò concede,

  Donna, quell’alta impresa ove ci guidi;

  Lasciami omai por nella terra il piede,

  300 E veder questi inconosciuti lidi:

  Veder le genti, e ‘l culto di lor fede,

  E tutto quello ond’uom saggio m’invídi,

  Quando mi gioverà narrar altrui

  304 Le novità vedute, e dire: io fui.

  XXXIX.

  Gli rispose colei: ben degna invero

  La domanda è di te; ma che poss’io,

  S’egli osta inviolabile e severo

  308 Il decreto de’ Cieli al bel desio?

  Chè ancor volto non è lo spazio intero

  Ch’al grande scoprimento ha fisso Dio:

  Nè lece a voi dall’Ocean profondo

  312 Recar vera notizia al vostro mondo.

  XL.

  A voi, per grazia, e sovra l’arte e l’uso

  De’ naviganti, ir per quest’acque è dato:

  E scender là dove è il guerrier rinchiuso,

  316 E ridurlo del mondo all’altro lato.

  Tanto vi basti: e l’aspirar più suso

  Superbir fora, e calcitrar col fato.

  Quì tacque: e già parea più bassa farsi

  320 L’isola prima, e la seconda alzarsi.

  XLI.

  Ella mostrando gía che all’Oriente

  Tutte, con ordin lungo, eran dirette:

  E che largo è fra lor quasi egualmente

  324 Quello spazio di mar che si frammette.

  Ponsi veder d’abitatrice gente

  Case e culture ed altri segni in sette:

  Tre deserte ne sono; e v’han le belve

  328 Sicurissima tana in monti e in selve.

  XLII.

  Luogo è in una dell’erme assai riposto,

  Ove si curva il lido e in fuori stende

  Due lunghe corna, e fra lor tiene ascosto

  332 Un ampio seno, e porto un scoglio rende,

  Ch’a lui la fronte, e ‘l tergo all’onda ha opposto

  Che vien dall’alto, e la respinge e fende.

  S’innalzan quinci e quindi, e torreggianti

  336 Fan due gran rupi segno a’ naviganti.

  XLIII.

  Tacciono sotto i mar sicuri in pace:

  Sovra ha di negre selve opaca scena:

  E in mezzo d’esse una spelonca giace,

  340 D’edere, e d’ombre, e di dolci acque amena.

  Fune non lega quì, nè col tenace

  Morso le stanche navi áncora frena.

  La donna in sì solinga e queta parte

  344 Entrava, e raccogliea le vele sparte.

  XLIV.

  Mirate, disse poi, quell’alta mole

  Che di quel monte in su la cima siede.

  Quivi fra cibi, ed ozio, e scherzi, e fole

  348 Torpe il campion della Cristiana fede.

 

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