Questi il Sol poi raffina, e il licor molle
304 Stringe in candide masse, e in auree zolle.
XXXIX.
E miran d’ogni intorno al ricco fiume
Di care pietre il margine dipinto;
Onde, come a più fiaccole s’allume,
308 Splende quel loco, e ‘l fosco orror n’è vinto.
Quivi scintilla con ceruleo lume
Il celeste zaffiro, ed il giacinto:
Vi fiammeggia il carbonchio, e luce il saldo
312 Diamante, e lieto ride il bel smeraldo.
XL.
Stupidi i Guerrier vanno, e nelle nove
Cose sì tutto il lor pensier s’impiega,
Che non fanno alcun motto; alfin pur move
316 La voce Ubaldo, e la sua scorta prega:
Deh, Padre, dinne ove noi siamo: ed ove
Ci guidi: e tua condizion ne spiega;
Ch’io non so se ‘l ver miri, o sogno od ombra;
320 Così alto stupore il cor m’ingombra.
XLI.
Risponde: sete voi nel grembo immenso
Della terra che tutto in se produce.
Nè già potreste penetrar nel denso
324 Delle viscere sue senza me duce.
Vi scorgo al mio palagio, il qual accenso
Tosto vedrete di mirabil luce.
Nacqui io Pagan; ma poi nelle sante acque
328 Rigenerarmi a Dio per grazia piacque.
XLII.
Nè in virtù fatte son d’Angioli stigj
L’opere mie maravigliose e conte.
Tolga Dio ch’usi note o suffumigj,
332 Per isforzar Cocíto, o Flegetonte.
Ma spiando men vo da’ lor vestigj
Qual’ in sè virtù celi o l’erba, o ‘l fonte:
E gli altri arcani di Natura ignoti
336 Contemplo, e delle stelle i varj moti.
XLIII.
Perocchè non ognor lunge dal Cielo
Tra sotterranei chiostri è la mia stanza;
Ma sul Libano spesso, e sul Carmelo
340 In aerea magion fo dimoranza.
Ivi spiegansi a me, senza alcun velo,
Venere e Marte in ogni lor sembianza:
E veggio come ogni altra o presto o tardi
344 Roti: o benigna o minaccevol guardi.
XLIV.
E sotto i piè mi veggio or folte or rade
Le nubi, or negre ed or pinte da Iri:
E generar le piogge e le rugiade
348 Risguardo: e come il vento obliquo spiri:
Come il folgor s’infiammi: e per quai strade
Tortuose, in giù spinto, ei si raggiri:
Scorgo comete, e fochi altri sì presso,
352 Ch’io soleva invaghir già di me stesso.
XLV.
Di me medesmo fui pago cotanto,
Ch’io stimai già che il mio saper misura
Certa fosse e infallibile di quanto
356 Può far l’alto fattor della Natura.
Ma quando il vostro Piero al fiume santo
M’asperse il crine, e lavò l’alma impura,
Drizzò più su il mio guardo, e ‘l fece accorto;
360 Ch’ei per se stesso è tenebroso e corto.
XLVI.
Conobbi allor ch’augel notturno al Sole
È nostra mente ai rai del primo vero:
E di me stesso risi e delle fole
364 Che già cotanto insuperbir mi fero.
Ma pur seguito ancor, come egli vuole,
Le solite arti, e l’uso mio primiero.
Ben sono in parte altr’uom da quel ch’io fui:
368 Ch’or da lui pendo, e mi rivolgo a lui;
XLVII.
E in lui m’acqueto; egli comanda e insegna,
Mastro insieme e signor sommo e sovrano:
Nè già per nostro mezzo oprar disdegna
372 Cose degne talor della sua mano.
Or sarà cura mia ch’al campo vegna
L’invitto eroe dal suo carcer lontano;
Ch’ei la m’impose, e già gran tempo aspetto
376 Il venir vostro, a me per lui predetto.
XLVIII.
Così con lor parlando al loco viene
Ov’egli ha il suo soggiorno e ‘l suo riposo.
Questo è in forma di speco, e in se contiene
380 Camare e sale, grande e spazioso.
E ciò che nudre entro le ricche vene
Di più chiaro la terra e prezioso,
Splende ivi tutto: ed ei n’è in guisa ornato,
384 Ch’ogni suo fregio è non fatto, ma nato.
XLIX.
Non mancar quì cento ministri e cento
Che accorti e pronti a servir gli osti foro.
Nè poi in mensa magnifica d’argento
388 Mancar gran vasi, e di cristallo, e d’oro.
Ma quando sazio il natural talento
Fu de’ cibi, e la sete estinta in loro:
Tempo è ben, disse ai cavalieri il mago,
392 Che il maggior desir vostro omai sia pago.
L.
Quivi ricominciò: l’opre e le frodi
Note in parte a voi son dell’empia Armida:
Come ella al campo venne, e con quai modi
396 Molti guerrier ne trasse, e lor fu guida.
Sapete ancor che di tenaci nodi
Gli avvinse poscia, albergatrice infida:
E ch’indi a Gaza gl’inviò con molti
400 Custodi, e che tra via furon disciolti.
LI.
Or vi narrerò quel ch’appresso occorse;
Vera istoria, da voi non anco intesa.
Poichè la maga rea vide ritorse
404 La preda sua, già con tant’arte presa,
Ambe le mani per dolor si morse;
E fra se disse, di disdegno accesa:
Ah vero unqua non fia, che d’aver tanti
408 Miei prigion liberati egli si vanti:
LII.
Se gli altri sciolse, ei serva, ed ei sostegna
Le pene altrui serbate, e ‘l lungo affanno.
Nè questo anco mi basta; i’ vuò che vegna
412 Sugli altri tutti universale il danno.
Così tra se dicendo, ordir disegna
Questo, ch’or udirete, iniquo inganno.
Viensene al loco ove Rinaldo vinse
416 In pugna i suoi guerrieri, e parte estinse.
LIII.
Quivi egli avendo l’arme sue deposto,
Indosso quelle d’un Pagan si pose:
Forse perchè bramava irsene ascosto
420 Sotto insegne men note e men famose.
Prese l’armi la maga, e in esse tosto
Un tronco busto avvolse, e poi l’espose:
L’espose in riva a un fiume, ove doveva
424 Stuol de’ Franchi arrivare; e ‘l prevedeva.
LIV.
E questo antiveder potea ben ella,
Che mandar mille spie solea d’intorno;
Onde spesso del campo avea novella,
428 E s’altri indi partiva, o fea ritorno;
Oltrechè con gli spirti anco favella
Sovente, e fa con lor lungo soggiorno.
Collocò dunque il corpo morto in parte
432 Molto opportuna a sua ingannevol’arte.
LV.
Non lunge un sagacissimo valletto
Pose, di panni pastorai vestito:
E impose lui ciò ch’esser fatto o detto
436 Fintamente doveva; e fu eseguito.
Questi parlò co’ vostri, e di sospetto
Sparse quel seme in lor, ch’indi nutrito
Fruttò risse e discordie, e quasi alfine
440 Sediziose guerre e cittadine.
LVI.
Che fu, com’ella disegnò, creduto
Per opra del Buglion Rinaldo ucciso:
Benchè alfine il sospetto, a torto avuto,
444 Del ver si dileguasse al primo avviso.
Cotal d’Armida
l’artificio astuto
Primieramente fu qual io diviso.
Or udirete ancor come seguisse
448 Poscia Rinaldo, e quel ch’indi avvenisse.
LVII.
Qual cauta cacciatrice Armida aspetta
Rinaldo al varco: ei sull’Oronte giunge,
Ove un rio si dirama, e, un’isoletta
452 Formando, tosto a lui si ricongiunge:
E in su la riva una colonna eretta
Vede, e un picciol battello indi non lunge.
Fissa egli tosto gli occhj al bel lavoro
456 Del bianco marmo, e legge in lettre d’oro:
LVIII.
O chiunque tu sia, che voglia o caso
Peregrinando adduce a queste sponde;
Maraviglia maggior l’orto o l’occaso
460 Non ha di ciò che l’isoletta asconde.
Passa, se vuoi vederla: è persuaso
Tosto l’incauto a girne oltra quell’onde.
E perchè mal capace era la barca,
464 Gli scudieri abbandona, ed ei sol varca.
LIX.
Come è là giunto, cupido e vagante
Volge intorno lo sguardo, e nulla vede,
Fuorch’antri, ed acque, e fiori, ed erbe, e piante;
468 Onde quasi schernito esser si crede.
Ma pur quel loco è così lieto, e in tante
Guise l’alletta, ch’ei si ferma e siede
E disarma la fronte, e la ristaura
472 Al soave spirar di placid’aura.
LX.
Il fiume gorgogliar frattanto udío
Con nuovo suono, e là con gli occhj corse;
E muover vide un’onda in mezzo al rio
476 Che in se stessa si volse, e si ritorse:
E quinci alquanto d’un crin biondo uscío,
E quinci di donzella un volto sorse,
E quinci il petto, e le mammelle, e de la
480 Sua forma infin dove vergogna cela.
LXI.
Così dal palco di notturna scena
O Ninfa o Dea tarda sorgendo appare.
Questa, benchè non sia vera Sirena
484 Ma sia magica larva, una ben pare
Di quelle che già presso alla Tirrena
Piaggia abitar l’insidioso mare:
Nè men ch’in viso bella, in suono è dolce:
488 E così canta, e ‘l Cielo e l’aure molce.
LXII.
O giovinetti, mentre Aprile e Maggio
V’ammantan di fiorite e verdi spoglie;
Di gloria e di virtù fallace raggio
492 La tenerella mente ah non v’invoglie.
Solo chi segue ciò che piace è saggio,
E in sua stagion degli anni il frutto coglie;
Questo grida natura: or dunque voi
496 Indurerete l’alma ai detti suoi?
LXIII.
Folli, perchè gettate il caro dono,
Che breve è sì, di vostra età novella?
Nomi senza soggetto, idoli sono
500 Ciò che pregio e valore il mondo appella.
La fama che invaghisce a un dolce suono
Voi superbi mortali, e par sì bella,
È un Eco, un sogno, anzi del sogno un’ombra
504 Ch’ad ogni vento si dilegua e sgombra.
LXIV.
Goda il corpo sicuro, e in lieti oggetti
L’alma tranquilla appaghi i sensi frali:
Oblii le noje andate, e non affretti
508 Le sue miserie in aspettando i mali.
Nulla curi, se ‘l Ciel tuoni o saetti:
Minacci egli a sua voglia, e infiammi strali.
Questo è saper, questa è felice vita:
512 Sì l’insegna natura, e sì l’addita.
LXV.
Sì canta l’empia; e ‘l giovinetto al sonno
Con note invoglia sì soavi e scorte.
Quel serpe a poco a poco, e si fa donno
516 Sovra i sensi di lui possente e forte.
Nè i tuoni omai destar, non ch’altri, il ponno
Da quella queta immagine di morte.
Esce d’aguato allor la falsa maga,
520 E gli va sopra, di vendetta vaga.
LXVI.
Ma quando in lui fissò lo sguardo, e vide
Come placido in vista egli respira:
E ne’ begli occhj un dolce atto che ride,
524 Benchè sian chiusi, (or che fia s’ei gli gira?)
Pria s’arresta sospesa: e gli s’asside
Poscia vicina, e placar sente ogn’ira
Mentre il risguarda: e in su la vaga fronte
528 Pende omai sì, che par Narciso al fonte.
LXVII.
E quei ch’ivi sorgean vivi sudori
Accoglie lievemente in un suo velo:
E, con un dolce ventilar, gli ardori
532 Gli va temprando dell’estivo Cielo.
Così (chi ‘l crederia?) sopíti ardori
D’occhj nascosi distemprar quel gelo
Che s’indurava al cor più che diamante,
536 E di nemica ella divenne amante.
LXVIII.
Di ligustri, di giglj, e delle rose
Le quai fiorian per quelle piaggie amene,
Con nov’arte congiunte, indi compose
540 Lente ma tenacissime catene.
Queste al collo, alle braccia, ai piè gli pose:
Così l’avvinse, e così preso il tiene:
Quinci, mentre egli dorme, il fa riporre
544 Sovra un suo carro, e ratta il Ciel trascorre.
LXIX.
Nè già ritorna di Damasco al regno,
Nè dove ha il suo castello in mezzo all’onde;
Ma, ingelosita di sì caro pegno
548 E vergognosa del suo amor, s’asconde
Nell’Oceano immenso, ove alcun legno
Rado o non mai va dalle nostre sponde,
Fuor tutti i nostri lidi: e quivi eletta
552 Per solinga sua stanza è un’isoletta.
LXX.
Un’isoletta la qual nome prende,
Con le vicine sue, dalla Fortuna.
Quinci ella in cima a una montagna ascende
556 Disabitata, e d’ombre oscura e bruna.
E per incanto a lei nevose rende
Le spalle, e i fianchi: e senza neve alcuna
Gli lascia il capo verdeggiante e vago:
560 E vi fonda un palagio appresso un lago;
LXXI.
Ove, in perpetuo April, molle amorosa
Vita seco ne mena il suo diletto.
Or da così lontana e così ascosa
564 Prigion trar voi dovete il giovinetto:
E vincer della timida e gelosa
Le guardie, ond’è difeso il monte e ‘l tetto.
E già non mancherà chi là vi scorga,
568 E chi per l’alta impresa arme vi porga.
LXXII.
Troverete, del fiume appena sorti,
Donna giovin di viso, antica d’anni:
Ch’ai lunghi crini in su la fronte attorti
572 Fia nota, ed al color vario de’ panni.
Questa per l’alto mar fia che vi porti
Più ratta che non spiega aquila i vanni,
Più che non vola il folgore: nè guida
576 La troverete al ritornar men fida.
LXXIII.
A piè del monte, ove la maga alberga,
Sibilando strisciar novi Pitoni,
E cinghiali arricciar l’aspre lor terga,
580 Ed aprir la gran bocca orsi e leoni
Vedrete; ma scuotendo una mia verga,
Temeranno appressarsi ove ella suoni.
Poi via maggior (se dritto il ver s’estima)
584 Troverete il periglio in su la cima.
LXXIV.
Un fonte sorge in lei che vaghe e monde
Ha l’acque sì, che i riguardanti asseta;
Ma dentro ai freddi suoi cristalli asconde
588 Di tosco estran malva
gità secreta;
Chè un picciol sorso di sue lucide onde
Inebria l’alma tosto, e la fa lieta:
Indi a rider uom muove, e tanto il riso
592 S’avanza alfin, ch’ei ne rimane ucciso.
LXXV.
Lunge la bocca disdegnosa e schiva
Torcete voi dall’acque empie omicide
Nè le vivande poste in verde riva
596 V’allettin poi, nè le donzelle infide:
Chè voce avran piacevole e lasciva,
E dolce aspetto che lusinga e ride.
Ma voi, gli sguardi e le parole accorte
600 Sprezzando, entrate pur nelle alte porte.
LXXVI.
Dentro è di muri inestricabil cinto,
Che mille torce in se confusi giri:
Ma in breve foglio io ve ‘l darò distinto
604 Sì che nessun error fia che v’aggiri.
Siede in mezzo un giardin del laberinto,
Che par che da ogni fronde amore spiri.
Quivi in grembo alla verde erba novella
608 Giacerà il cavaliero e la donzella.
LXXVII.
Ma come essa, lasciando il caro amante,
In altra parte il piede avrà rivolto;
Vuò ch’a lui vi scopriate, e d’adamante
612 Un scudo, ch’io darò, gli alziate al volto;
Sicch’egli vi si specchi, e ‘l suo sembiante
Veggia, e l’abito molle onde fu involto:
Chè a tal vista potrà vergogna e sdegno
616 Scacciar dal petto suo l’amor indegno.
LXXVIII.
Altro che dirvi omai nulla m’avanza,
Se non ch’assai sicuri ir ne potrete,
E penetrar dell’intricata stanza
620 Nelle più interne parti e più secrete:
Perchè non fia che magica possanza
A voi ritardi il corso, o ‘l passo viete:
Nè potrà pur (cotal virtù vi guida!)
624 Il giunger vostro antiveder Armida.
LXXIX.
Nè men sicura dagli alberghi suoi
L’uscita vi sarà poscia e ‘l ritorno.
Ma giunge omai l’ora del sonno, e voi
628 Sorger diman dovete a par col giorno.
Così lor disse; e gli menò dipoi
Ove essi avean la notte a far soggiorno.
Ivi lasciando lor lieti e pensosi,
632 Si ritrasse il buon vecchio a’ suoi riposi.
Canto quindicesimo
ARGOMENTO.
Dal Mago instrutti, i duo guerrier sen vanno
Dove il pino fatal gli attende in porto:
Spiegan la vela, e pria del gran Tiranno
D’Egitto i legni e l’apparecchio han scorto:
Poi tale il vento, e tale il nocchiero hanno,
Che ben lungo viaggio estiman corto.
All’Isola remota alfine spinti,
Da lor le forze sono e i vezzi vinti.
CANTO DECIMOQUINTO.
Già richiamava il bel nascente raggio
All’opre ogni animal che in terra alberga;
Jerusalem Delivered Page 139