Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 142

by Torquato Tasso


  Dal fianco dell’amante, estranio arnese,

  Un cristallo pendea lucido e netto.

  Sorse, e quel fra le mani a lui sospese,

  156 Ai misterj d’Amor ministro eletto.

  Con luci ella ridenti, ei con accese,

  Mirano in varj oggetti un sol oggetto:

  Ella del vetro a se fa specchio: ed egli

  160 Gli occhj di lei sereni a sè fa speglj.

  XXI.

  L’uno di servitù, l’altra d’impero

  Si gloria: ella in se stessa, ed egli in lei.

  Volgi, dicea, deh volgi, il cavaliero

  164 a me quegli occhj, onde beata bei:

  Chè son, se tu no ‘l sai, ritratto vero

  Delle bellezze tue gl’incendj miei.

  La forma lor, le meraviglie appieno,

  168 Più che ‘l cristallo tuo, mostra il mio seno.

  XXII.

  Deh, poichè sdegni me, com’egli è vago

  Mirar tu almen potessi il proprio volto:

  Chè ‘l guardo tuo, ch’altrove non è pago,

  172 Gioirebbe felice in se rivolto.

  Non può specchio ritrar sì dolce imago:

  Nè in picciol vetro è un paradiso accolto.

  Specchio t’è degno il Cielo, e nelle stelle

  176 Puoi riguardar le tue sembianze belle.

  XXIII.

  Ride Armida a quel dir: ma non che cesse

  Dal vagheggiarsi, o da’ suoi bei lavori.

  Poichè intrecciò le chiome, e che ripresse

  180 Con ordin vago i lor lascivi errori,

  Torse in anella i crin minuti, e in esse,

  Quasi smalto su l’or, consparse i fiori:

  E nel bel sen le peregrine rose

  184 Giunse ai nativi giglj, e ‘l vel compose.

  XXIV.

  Nè il superbo pavon sì vago in mostra

  Spiega la pompa delle occhiute piume:

  Nè l’Iride sì bella indora e inostra

  188 Il curvo grembo e rugiadoso al lume.

  Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra,

  Che neppur nuda ha di lasciar costume.

  Diè corpo a chi non l’ebbe; e, quando il fece

  192 Tempre mischiò ch’altrui mescer non lece;

  XXV.

  Teneri sdegni, e placide e tranquille

  Repulse, e cari vezzi, e liete paci,

  Sorrisi, parolette, e dolci stille

  196 Di pianto, e sospir tronchi, e molli bacj;

  Fuse tai cose tutte, e poscia unille,

  Ed al foco temprò di lente faci:

  E ne formò quel sì mirabil cinto,

  200 Di ch’ella aveva il bel fianco succinto.

  XXVI.

  Fine alfin posto al vagheggiar, richiede

  A lui commiato, e ‘l bacia, e si diparte.

  Ella per uso il dì n’esce, e rivede

  204 Gli affari suoi, le sue magiche carte.

  Egli riman; chè a lui non si concede

  Por orma, o trar momento in altra parte:

  E tra le fere spazia e tra le piante,

  208 Se non quanto è con lei, romito amante.

  XXVII.

  Ma quando l’ombra co’ silenzj amici

  Rappella ai furti lor gli amanti accorti;

  Traggono le notturne ore felici

  212 Sotto un tetto medesmo entro a quegli orti.

  Ma poichè volta a più severi uficj

  Lasciò Armida il giardino, e i suoi diporti;

  I duo, che tra i cespuglj eran celati,

  216 Scoprirsi a lui pomposamente armati.

  XXVIII.

  Qual feroce destrier ch’al faticoso

  Onor dell’arme vincitor sia tolto:

  E lascivo marito, in vil riposo,

  220 Fra gli armenti e ne’ paschi erri disciolto;

  Se ‘l desta o suon di tromba, o luminoso

  Acciar, colà tosto annitrendo è volto;

  Già già brama l’arringo, e l’uom sul dorso

  224 Portando, urtato riurtar nel corso.

  XXIX.

  Tal si fece il Garzon, quando repente

  Dell’arme il lampo gli occhj suoi percosse.

  Quel sì guerrier, quel sì feroce ardente

  228 Suo spirto a quel fulgor tutto si scosse:

  Benchè tra gli agj morbidi languente,

  E tra i piaceri ebbro e sopito ei fosse.

  Intanto Ubaldo oltra ne viene, e ‘l terso

  232 Adamantino scudo ha in lui converso.

  XXX.

  Egli al lucido scudo il guardo gira;

  Onde si specchia in lui qual siasi, e quanto,

  Con delicato culto adorno, spira

  236 Tutto odori e lascivie il crine e ‘l manto:

  E ‘l ferro, il ferro aver non ch’altro, mira

  Dal troppo lusso effeminato a canto.

  Guernito è sì che inutile ornamento

  240 Sembra, non militar fero instrumento.

  XXXI.

  Qual’uom da cupo e grave sonno oppresso

  Dopo vaneggiar lungo in se riviene;

  Tal ei tornò nel rimirar se stesso:

  244 Ma se stesso mirar già non sostiene.

  Giù cade il guardo: e timido e dimesso

  Guardando, a terra la vergogna il tiene.

  Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro

  248 Il foco, per celarsi, e giù nel centro.

  XXXII.

  Ubaldo incominciò parlando allora:

  Va l’Asia tutta, e va l’Europa in guerra:

  Chiunque pregio brama, e Cristo adora,

  252 Travaglia in arme or nella Siria terra.

  Te solo, o figlio di Bertoldo, fuora

  Del mondo, in ozio, un breve angolo serra;

  Te sol dell’universo il moto nulla

  256 Move, egregio campion d’una fanciulla!

  XXXIII.

  Qual sonno, o qual letargo ha sì sopita

  La tua virtute? o qual viltà l’alletta?

  Su su, te il campo, e te Goffredo invita:

  260 Te la fortuna, e la vittoria aspetta.

  Vieni, o fatal guerriero, e sia finita

  La ben comincia impresa: e l’empia setta,

  Che già crollasti, a terra estinta cada

  264 Sotto l’inevitabile tua spada.

  XXXIV.

  Tacque; e ‘l nobil Garzon restò per poco

  Spazio confuso, e senza moto e voce.

  Ma poi che diè vergogna a sdegno loco,

  268 Sdegno guerrier della ragion feroce,

  E che al rossor del volto un novo foco

  Successe che più avvampa, e che più coce;

  Squarciossi i vani fregj, e quelle indegne

  272 Pompe, di servitù misera insegne.

  XXXV.

  Ed affrettò il partire, e della torta

  Confusione uscì del laberinto.

  Intanto Armida della regal porta

  276 Mirò giacere il fier custode estinto.

  Sospettò prima, e si fu poscia accorta

  Ch’era il suo caro al dipartirsi accinto:

  E ‘l vide (ahi fera vista!) al dolce albergo

  280 Dar frettoloso fuggitivo il tergo.

  XXXVI.

  Volea gridar: dove, o crudel, me sola

  Lasci? ma il varco al suon chiuse il dolore:

  Sicchè tornò la flebile parola

  284 Più amara indietro a rimbombar sul core.

  Misera, i suoi diletti ora le invola

  Forza e saper del suo saper maggiore.

  Ella se ‘l vede, e invan pur s’argomenta

  288 Di ritenerlo, e l’arti sue ritenta.

  XXXVII.

  Quante mormorò mai profane note

  Tessala maga con la bocca immonda:

  Ciò ch’arrestar può le celesti rote,

  292 E l’ombre trar della prigion profonda,

  Sapea ben tutto: e pur oprar non puote,

  Ch’almen l’Inferno al suo parlar risponda.

  Lascia gl’in
canti, e vuol provar se vaga

  296 E supplice beltà sia miglior maga.

  XXXVIII.

  Corre, e non ha d’onor cura o ritegno.

  Ahi dove or sono i suoi trionfi e i vanti?

  Costei d’Amor, quanto egli è grande, il regno

  300 Volse e rivolse sol col cenno innanti:

  E così pari al fasto ebbe lo sdegno,

  Ch’amò d’esser amata, odiò gli amanti:

  Sè gradì sola, e fuor di sè in altrui

  304 Sol qualche effetto de’ begli occhj sui.

  XXXIX.

  Or negletta e schernita, e in abbandono

  Rimasa, segue pur chi fugge e sprezza:

  E procura adornar co’ pianti il dono

  308 Rifiutato per se di sua bellezza.

  Vassene; ed al piè tenero non sono

  Quel gelo intoppo e quella alpina asprezza,

  E invia per messaggieri innanzi i gridi:

  312 Nè giunge lui pria ch’ei sia giunto ai lidi.

  XL.

  Forsennata gridava: o tu che porte

  Teco parte di me, parte ne lassi;

  O prendi l’una o rendi l’altra, o morte

  316 Dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi,

  Sol che ti sian le voci ultime porte,

  Non dico i bacj; altra più degna avrassi

  Questi da te. Chè temi, empio, se resti?

  320 Potrai negar, poi che fuggir potesti.

  XLI.

  Dissegli Ubaldo allor: già non conviene

  Che d’aspettar costei, Signor, ricusi.

  Di beltà armata, e de’ suoi preghi or viene

  324 Dolcemente nel pianto amaro infusi.

  Qual più forte di te, se le Sirene

  Vedendo ed ascoltando a vincer t’usi?

  Così ragion pacifica Reina

  328 De’ sensi fassi, e se medesma affina.

  XLII.

  Allor ristette il Cavaliero: ed ella

  Sovraggiunse anelante e lagrimosa:

  Dolente sì che nulla più, ma bella

  332 Altrettanto però quanto dogliosa.

  Lui guarda, e in lui s’affisa, e non favella:

  O che sdegna, o che pensa, o che non osa.

  Ei lei non mira, e se pur mira, il guardo

  336 Furtivo volge e vergognoso e tardo.

  XLIII.

  Qual musico gentil, prima che chiara

  Altamente la lingua al canto snodi;

  All’armonia gli animi altrui prepara

  340 Con dolci ricercate in bassi modi:

  Così costei, che nella doglia amara

  Già tutte non oblia l’arti e le frodi;

  Fa di sospir breve concento in prima,

  344 Per dispor l’alma in cui le voci imprima.

  XLIV.

  Poi cominciò: non aspettar ch’io preghi,

  Crudel, te, come amante amante deve:

  Tai fummo un tempo: or se tal esser neghi,

  348 E di ciò la memoria anco t’è greve;

  Come nemico almeno ascolta: i preghi

  D’un nemico talor l’altro riceve.

  Ben quel ch’io chieggio è tal che darlo puoi,

  352 E integri conservar gli sdegni tuoi.

  XLV.

  Se m’odj, e in ciò diletto alcun tu senti,

  Non ten’vengo a privar: godi pur d’esso.

  Giusto a te pare, e siasi; anch’io le genti

  356 Cristiane odiai (nol nego) odiai te stesso.

  Nacqui Pagana: usai varj argomenti,

  Chè per me fosse il vostro imperio oppresso:

  Te perseguii, te presi, e te lontano

  360 Dall’arme trassi in loco ignoto e strano.

  XLVI.

  Aggiungi a questo ancor quel ch’a maggiore

  Onta tu rechi, ed a maggior tuo danno:

  T’ingannai, t’allettai nel nostro amore;

  364 Empia lusinga, certo, iniquo inganno,

  Lasciarsi corre il virginal suo fiore;

  Far delle sue bellezze altrui tiranno:

  Quelle ch’a mille antichi in premio sono

  368 Negate, offrire a novo amante in dono.

  XLVII.

  Sia questa pur tra le mie frodi: e vaglia

  Sì di tante mie colpe in te il difetto,

  Che tu quinci ti parta, e non ti caglia

  372 Di questo albergo tuo già sì diletto.

  Vattene: passa il mar: pugna, travaglia:

  Struggi la fede nostra; anch’io t’affretto.

  Chè dico nostra? ah non più mia; fedele

  376 Sono a te solo, idolo mio crudele.

  XLVIII.

  Solo ch’io segua te mi si conceda:

  Picciola fra’ nemici anco richiesta;

  Non lascia indietro il predator la preda:

  380 Va il trionfante, il prigionier non resta.

  Me fra l’altre tue spoglie il campo veda,

  Ed all’altre tue lodi aggiunga questa;

  Che la tua schernitrice abbia schernito,

  384 Mostrando me sprezzata ancella a dito.

  XLIX.

  Sprezzata ancella, a chi fo più conserva

  Di questa chioma, or ch’a te fatta è vile?

  Raccorcierolla: al titolo di serva

  388 Vuò portamento accompagnar servile.

  Te seguirò, quando l’ardor più ferva

  Della battaglia, entro la turba ostíle.

  Animo ho bene, ho ben vigor che baste

  392 A condurti i cavalli, a portar l’aste.

  L.

  Sarò qual più vorrai scudiere o scudo:

  Non fia che in tua difesa io mi risparmi.

  Per questo sen, per questo collo ignudo,

  396 Pria che giungano a te, passeran l’armi.

  Barbaro forse non sarà sì crudo,

  Che ti voglia ferir per non piagarmi;

  Condonando il piacer della vendetta

  400 A questa, qual si sia, beltà negletta.

  LI.

  Misera, ancor presumo? ancor mi vanto

  Di schernita beltà che nulla impetra?

  Volea più dir; ma l’interruppe il pianto,

  404 Che qual fonte sorgea d’alpina pietra.

  Prendergli cerca allor la destra o ‘l manto,

  Supplichevole in atto, ed ei s’arretra.

  Resiste, e vince: e in lui trova impedita

  408 Amor l’entrata, il lagrimar l’uscita.

  LII.

  Non entra Amor a rinovar nel seno,

  Che ragion congelò, la fiamma antica.

  V’entra pietate in quella vece almeno,

  412 Pur compagna d’Amor, benchè pudíca:

  E lui commove in guisa tal ch’a freno

  Può ritener le lagrime a fatica.

  Pur quel tenero affetto entro ristringe,

  416 E quanto può gli atti compone, e infinge.

  LIII.

  Poi le risponde: Armida, assai mi pesa

  Di te; sì potess’io, come il farei,

  Del mal concetto ardor l’anima accesa

  420 Sgombrarti; odj non son, nè sdegni i miei:

  Nè vuò vendetta: nè rammento offesa:

  Nè serva tu, nè tu nemica sei.

  Errasti, è vero, e trapassasti i modi,

  424 Ora gli amori esercitando, or gli odj.

  LIV.

  Ma che? son colpe umane, e colpe usate.

  Scuso la natia legge, il sesso, e gli anni.

  Anch’io parte fallii: se a me pietate

  428 Negar non vuò, non fia ch’io te condanni.

  Fra le care memorie ed onorate

  Mi sarai nelle gioje, e negli affanni:

  Sarò tuo cavalier, quanto concede

  432 La guerra d’Asia, e con l’onor la fede.

  LV.

  Deh! che del fallir nostro or quì sia il fine;

  E di nostre vergogne omai ti spiaccia:

  Ed in questo del mondo ermo confine

  436 La memoria di lor sepolta giaccia.

  Sola, in Eur
opa e nelle due vicine

  Parti, fra l’opre mie questa si taccia.

  Deh non voler che segni ignobil fregio

  440 Tua beltà, tuo valor, tuo sangue regio.

  LVI.

  Rimanti in pace; i’ vado: a te non lice

  Meco venir; chi mi conduce il vieta.

  Rimanti, o va per altra via felice,

  444 E come saggia i tuoi consiglj acqueta.

  Ella, mentre il guerrier così le dice,

  Non trova loco torbida inquieta:

  Già buona pezza in dispettosa fronte

  448 Torva il riguarda, alfin prorompe all’onte.

  LVII.

  Nè te Sofia produsse, e non sei nato

  Dell’Azzio sangue tu: te l’onda insana

  Del mar produsse, e ‘l Caucaso gelato,

  452 E le mamme allattar di tigre Ircana.

  Che dissimulo io più? l’uomo spietato

  Pur un segno non diè di mente umana.

  Forse cambiò color? forse al mio duolo

  456 Bagnò almen gli occhj, o sparse un sospir solo?

  LVIII.

  Quali cose tralascio, e quai ridico?

  S’offre per mio: mi fugge, e m’abbandona.

  Quasi buon vincitor, di reo nemico

  460 Oblia le offese, e i falli aspri perdona.

  Odi come consiglia, odi il pudíco

  Senocrate d’Amor come ragiona.

  O Cielo, o Dei, perchè soffrir questi empj,

  464 Fulminar poi le torri, e i vostri tempj?

  LIX.

  Vattene pur, crudel, con quella pace

  Che lasci a me: vattene iniquo omai;

  Me tosto ignudo spirto, ombra seguace

  468 Indivisibilmente a tergo avrai.

  Nuova furia co’ serpi e con la face

  Tanto t’agiterò quanto t’amai.

  E s’è destin ch’esca del mar, che schivi

  472 Gli scoglj e l’onde, e ch’alla pugna arrivi:

  LX.

  Là tra ‘l sangue e le morti egro giacente

  Mi pagherai le pene, empio guerriero.

  Per nome Armida chiamerai sovente

  476 Negli ultimi singulti; udir ciò spero.....

  Or quì mancò lo spirto alla dolente;

  Nè quest’ultimo suono espresse intero:

  E cadde tramortita, e si diffuse

  480 Di gelato sudore, e i lumi chiuse.

  LXI.

  Chiudesti i lumi, Armida: il Cielo avaro

  Invidiò il conforto a’ tuoi martírj.

  Apri, misera, gli occhj; il pianto amaro

  484 Negli occhj al tuo nemico or chè non miri?

  O s’udir tu ‘l potessi, o come caro

  T’addolcirebbe il suon de’ suoi sospiri!

  Dà quanto ei puote; ei prende (e tu nol credi)

  488 Pietoso in vista gli ultimi congedi.

  LXII.

  Or che farà? dee su l’ignuda arena

  Costei lasciar così tra viva e morta?

  Cortesia lo ritien, pietà l’affrena,

  492 Dura necessità seco ne ‘l porta.

  Parte, e di lievi zefiri è ripiena

 

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