Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 143

by Torquato Tasso


  La chioma di colei che gli fa scorta.

  Vola per l’alto mar l’aurata vela:

  496 Ei guarda il lido; e ‘l lido ecco si cela.

  LXIII.

  Poi ch’ella in se tornò, deserto e muto,

  Quanto mirar potè, d’intorno scorse.

  Ito se n’è pur, disse, ed ha potuto

  500 Me quì lasciar della mia vita in forse?

  Nè un momento indugiò: nè un breve ajuto

  Nel caso estremo il traditor mi porse?

  Ed io pur anco l’amo? e in questo lido

  504 Invendicata ancor piango, e m’assido?

  LXIV.

  Che fa più meco il pianto? altr’arme, altr’arte

  Io non ho dunque? ahi seguirò pur l’empio:

  Nè l’abisso, per lui riposta parte,

  508 Nè il Ciel sarà per lui sicuro tempio.

  Già ‘l giungo, e ‘l prendo, e ‘l cor gli svello, e sparte

  Le membra appendo, ai dispietati esempio.

  Mastro è di ferità: vuò superarlo

  512 Nell’arti sue; ma dove son? che parlo?

  LXV.

  Misera Armida, allor dovevi, e degno

  Ben era, in quel crudele incrudelire

  Che tu prigion l’avesti: or tardo sdegno

  516 T’infiamma, e movi neghittosa a l’ire.

  Pur se beltà può nulla, o scaltro ingegno,

  Non fia vuoto d’effetto il mio desire.

  O mia sprezzata forma, a te s’aspetta

  520 (Chè tua l’ingiuria fu) l’alta vendetta.

  LXVI.

  Questa bellezza mia sarà mercede

  Del troncator dell’esecrabil testa.

  O miei famosi amanti, ecco si chiede

  524 Difficil sì, da voi, ma impresa onesta.

  Io che sarò d’ampie ricchezze erede,

  D’una vendetta in guiderdon son presta.

  S’esser compra a tal prezzo indegna io sono,

  528 Beltà, sei di natura inutil dono.

  LXVII.

  Dono infelice, io ti rifiuto: e insieme

  Odio l’esser Reina, e l’esser viva,

  E l’esser nata mai; sol fa la speme

  532 Della dolce vendetta ancor ch’io viva.

  Così in voci interrotte irata freme,

  E torce il piè dalla deserta riva,

  Mostrando ben quanto ha furor raccolto,

  536 Sparsa il crin, bieca gli occhj, accesa il volto.

  LXVIII.

  Giunta agli alberghi suoi chiamò trecento,

  Con lingua orrenda, deità d’Averno.

  S’empie il Ciel d’atre nubi, e in un momento

  540 Impallidisce il gran pianeta eterno:

  E soffia, e scuote i gioghi alpestri il vento:

  Ecco già sotto i piè mugghiar l’Inferno.

  Quanto gira il palagio, udresti irati

  544 Sibili, ed urli, e fremiti, e latrati.

  LXIX.

  Ombra più che di notte, in cui di luce

  Raggio misto non è, tutto il circonda;

  Se non se in quanto un lampeggiar riluce

  548 Per entro la caligine profonda.

  Cessa alfin l’ombra, e i raggj il Sol riduce

  Pallidi, nè ben l’aura anco è gioconda:

  Nè più il palagio appar, nè pur le sue

  552 Vestigia, nè dir puossi: egli quì fue.

  LXX.

  Come immagin talor d’immensa mole

  Forman nubi nell’aria, e poco dura,

  Chè ‘l vento la disperde, o solve il Sole;

  556 Come sogno sen va, ch’egro figura;

  Così sparver gli alberghi, e restar sole

  L’alpi, e l’orror che fece ivi natura.

  Ella sul carro suo, che presto aveva,

  560 S’assise, e come ha in uso, al Ciel si leva.

  LXXI.

  Calca le nubi, e tratta l’aure a volo,

  Cinta di nembi, e turbini sonori;

  Passa i lidi soggetti all’altro Polo,

  564 E le terre d’ignoti abitatori;

  Passa d’Alcide i termini, nè ‘l suolo

  Appressa degli Esperj, o quel de’ Mori;

  Ma su i mari sospeso il corso tiene,

  568 Insin che ai lidi di Soria perviene.

  LXXII.

  Quinci a Damasco non s’invia, ma schiva

  Il già sì caro della patria aspetto,

  E drizza il carro all’infeconda riva,

  572 Ove è tra l’onde il suo castello eretto.

  Qui giunta, i servi e le donzelle priva

  Di sua presenza, e sceglie ermo ricetto,

  E fra varj pensier dubbia s’aggira;

  576 Ma tosto cede la vergogna all’ira.

  LXXIII.

  Io n’andrò pur, dice ella, anzi che l’armi

  Dell’Oriente il Re d’Egitto muova:

  Ritentar ciascun’arte, e trasmutarmi

  580 In ogni forma insolita mi giova,

  Trattar l’arco, e la spada, e serva farmi

  De’ più potenti, e concitargli a prova;

  Pur che le mie vendette io veggia in parte,

  584 Il rispetto e l’onor stiasi in disparte.

  LXXIV.

  Non accusi già me, biasmi se stesso

  Il mio custode e zio, che così volse;

  Ei l’alma baldanzosa, e ‘l fragil sesso

  588 Ai non debiti ufficj in prima volse.

  Esso mi fè donna vagante, ed esso

  Spronò l’ardire, e la vergogna sciolse;

  Tutto si rechi a lui ciò che d’indegno

  592 Fei per amore, o che farò di sdegno.

  LXXV.

  Così risolse: e cavalieri, e donne,

  Paggj, e sergenti frettolosa aduna,

  E ne’ superbi arnesi, e nelle gonne

  596 L’arte dispiega, e la regal fortuna,

  E in via si pone, e non è mai ch’assonne,

  O che si posi al Sole, od alla Luna,

  Sin che non giunge ove le schiere amiche

  600 Coprian di Gaza le campagne apriche.

  Canto diciasettesimo

  ARGOMENTO.

  Il suo esercito immenso in mostra chiama

  L’Egizio, e poi contra i Cristian l’invia.

  Armida che pur di Rinaldo brama

  La morte, con sua gente anco giungía;

  E per meglio saziar sua crudel brama,

  Sè in guiderdon della vendetta offria.

  Ei vestia intanto armi fatali, e dove

  Mira impresse degli avi illustri prove.

  CANTO DECIMOSETTIMO.

  I.

  Gaza è Città della Giudea nel fine,

  Su quella via che inver Pelusio mena:

  Posta in riva del mare, ed ha vicine

  4 Immense solitudini d’arena,

  Le quai, come austro suol l’onde marine,

  Mesce il turbo spirante; onde a gran pena

  Ritrova il peregrin riparo o scampo

  8 Nelle tempeste dell’instabil campo.

  II.

  Del Re d’Egitto è la Città frontiera,

  Da lui gran tempo innanzi ai Turchi tolta;

  E però ch’opportuna e prossima era

  12 All’alta impresa ove la mente ha volta:

  Lasciando Menfi, ch’è sua reggia altera,

  Quì traslato il gran seggio, e quì raccolta

  Già da varie provincie insieme avea

  16 L’innumerabil’ oste all’assemblea.

  III.

  Musa, quale stagione e qual là fosse

  Stato di cose, or tu mi reca a mente:

  Qual’arme il grande Imperator, quai posse,

  20 Qual serva avesse, e qual compagna gente,

  Quando del Mezzogiorno in guerra mosse

  Le forze, e i Regi, e l’ultimo Oriente.

  Tu sol le schiere e i duci, e sotto l’arme

  24 Mezzo il mondo raccolto, or puoi dettarme.

  IV.

  Poscia che, ribellante, al Greco impero


  Si sottrasse l’Egitto, e mutò fede;

  Del sangue di Macon nato un guerriero

  28 Sen fè Tiranno, e vi fondò la sede.

  Ei fu detto Califfo, e del primiero

  Chi tien lo scettro al nome anco succede.

  Così per ordin lungo il Nilo i suoi

  32 Faraon vide, e i Tolommei dappoi.

  V.

  Volgendo gli anni, il regno è stabilito

  Ed accresciuto in guisa tal che viene,

  Asia e Libia ingombrando, al Sirio lito

  36 Da’ Marmarici fini, e da Cirene:

  E passa addentro incontra all’infinito

  Corso del Nilo assai sovra Siene:

  E quinci alle campagne inabitate

  40 Va della sabbia, e quindi al grande Eufrate.

  VI.

  A destra ed a sinistra in se comprende

  L’odorata maremma e ‘l ricco mare.

  E, fuor dell’Eritreo, molto si stende

  44 Incontro al Sol che mattutino appare.

  L’imperio ha in se gran forze, e più le rende

  Il Re, ch’or le governa, illustri e chiare:

  Ch’è per sangue Signor, ma più per merto,

  48 Nell’arti regie e militari esperto.

  VII.

  Questi, or co’ Turchi or con le genti Perse

  Più guerre fè: le mosse, e le respinse:

  Fu perdente, e vincente: e nell’avverse

  52 Fortune fu maggior che quando vinse.

  Poi che la grave età più non sofferse

  Dell’arme il peso, alfin la spada scinse;

  Ma non depose il suo guerriero ingegno,

  56 Nè d’onor il desio vasto, e di regno.

  VIII.

  Ancor guerreggia per ministri: ed have

  Tanto vigor di mente e di parole,

  Che della monarchia la soma grave

  60 Non sembra agli anni suoi soverchia mole.

  Sparsa in minuti regni Africa pave

  Tutta al suo nome, e ‘l remoto Indo il cole:

  E gli porge altri volontario ajuto

  64 D’armate genti, ed altri d’or tributo.

  IX.

  Tanto e sì fatto Re l’arme raguna:

  Anzi pur adunate omai le affretta

  Contra il sorgente imperio, e la fortuna

  68 Franca, nelle vittorie omai sospetta.

  Armida ultima vien: giunge opportuna

  Nell’ora appunto alla rassegna eletta.

  Fuor delle mura in spazioso campo

  72 Passa dinanzi a lui schierato il Campo.

  X.

  Egli in sublime soglio, a cui per cento

  Gradi eburnei s’ascende, altero siede:

  E sotto l’ombra d’un gran ciel d’argento

  76 Porpora intesta d’or preme col piede:

  E ricco di barbarico ornamento,

  In abito regal splender si vede.

  Fan, torti in mille fasce, i bianchi lini

  80 Alto diadema in nova forma ai crini.

  XI.

  Lo scettro ha nella destra: e per canuta

  Barba appar venerabile e severo.

  E dagli occhj, ch’etade ancor non muta,

  84 Spira l’ardire e ‘l suo vigor primiero.

  E ben da ciascun atto è sostenuta

  La maestà degli anni, e dell’impero.

  Apelle forse o Fidia in tal sembiante

  88 Giove formò; ma Giove allor tonante.

  XII.

  Stannogli a destra l’un, l’altro a sinistra

  Due Satrapi i maggiori: alza il più degno

  La nuda spada del rigor ministra;

  92 L’altro il sigillo, del suo uficio in segno.

  Custode un de’ secreti, al Re ministra

  Opra civil ne’ grandi affar del regno:

  Ma Prence degli eserciti, e con piena

  96 Possanza, è l’altro ordinator di pena.

  XIII.

  Sotto, folta corona al seggio fanno

  Con fedel guardia i suoi Circassi astati:

  Ed oltra l’aste hanno corazze, ed hanno

  100 Spade lunghe e ricurve all’un de’ lati.

  Così sedea, così scopria il Tiranno

  Da eccelsa parte i popoli adunati.

  Tutte a’ suoi piè, nel trapassar, le schiere

  104 Chinan, quasi adorando, armi e bandiere.

  XIV.

  Il popol dell’Egitto in ordin primo

  Fa di se mostra: e quattro i duci sono,

  Duo’ dell’alto paese, e duo’ dell’imo,

  108 Ch’è del celeste Nilo opera e dono.

  Al mare usurpò il letto il fertil limo,

  E rassodato al coltivar fu buono.

  Sì crebbe Egitto: o quanto addentro è posto

  112 Quel che fu lido ai naviganti esposto!

  XV.

  Nel primiero squadron appar la gente

  Ch’abitò d’Alessandria il ricco piano,

  Ch’abitò il lido volto all’Occidente,

  116 Ch’esser comincia omai lido Africano.

  Araspe è il duce lor, duce potente

  D’ingegno più che di vigor di mano;

  Ei di furtivi aguati è mastro egregio,

  120 E d’ogni arte Moresca in guerra ha il pregio.

  XVI.

  Secondan quei che, posti inver l’Aurora,

  Nella costa Asiatica albergaro:

  E gli guida Aronteo, cui nulla onora

  124 Pregio o virtù; ma i titoli il fan chiaro.

  Non sudò il molle sotto l’elmo ancora:

  Nè mattutine trombe anco il destaro;

  Ma dagli agj e dall’ombre a dura vita

  128 Intempestiva ambizion l’invita.

  XVII.

  Quella che terza è poi, squadra non pare;

  Ma un’oste immensa: e campi e lidi tiene.

  Non crederai ch’Egitto mieta ed are

  132 Per tanti: e pur da una Città sua viene:

  Città ch’alle provincie emula e pare,

  Mille cittadinanze in se contiene:

  Del Cairo i’ parlo; indi il gran volgo adduce,

  136 Volgo all’arme restío, Campsone il duce.

  XVIII.

  Vengon sotto Gazel quei che le biade

  Segaron nel vicin campo fecondo,

  E più suso, infin là dove ricade

  140 Il fiume al precipizio suo secondo.

  La turba Egizia avea sol archi e spade:

  Nè sosterria d’elmo o corazza il pondo.

  D’abito è ricca: onde altrui vien che porte

  144 Desio di preda, e non timor di morte.

  XIX.

  Poi la plebe di Barca, e nuda e inerme

  Quasi, sotto Alarcon passar si vede:

  Che la vita famelica nell’erme

  148 Piagge gran tempo sostentò di prede.

  Con istuol manco reo, ma inetto a ferme

  Battaglie, di Zumara il Re succede.

  Quel di Tripoli poscia: e l’uno e l’altro

  152 Nel pugnar volteggiando è dotto e scaltro.

  XX.

  Diretro ad essi apparvero i cultori

  Dell’Arabia Petrea, della Felice,

  Che ‘l soverchio del gelo e degli ardori

  156 Non sente mai; se ‘l ver la fama dice:

  Ove nascon gl’incensi, e gli altri odori:

  Ove rinasce l’immortal fenice

  Che tra i fiori odoriferi, ch’aduna

  160 All’esequie ai natali, ha tomba e cuna.

  XXI.

  L’abito di costoro è meno adorno;

  Ma l’armi a quei d’Egitto han simiglianti.

  Ecco altri Arabi poi che, di soggiorno

  164 Certo, non sono stabili abitanti.

  Peregrini perpetui usano intorno

  Trarne gli alberghi, e le Cittadi erranti.

  Han questi femminil voce, e statura:

  168 Crin lungo, e negro; e negra faccia, e scura.

  XXII.

  Lunghe canne Indiane arman
di corte

  Punte di ferro: e in su destrier correnti

  Diresti ben che un turbine lor porte;

  172 Se pur han turbo sì veloce i venti.

  Da Siface le prime erano scorte:

  Aldino in guardia ha le seconde genti:

  Le terze guida Albiazar ch’è fiero

  176 Omicida ladron, non cavaliero.

  XXIII.

  La turba è appresso che lasciate avea

  L’isole cinte dalle Arabiche onde,

  Da cui, pescando, già raccor solea

  180 Conche di perle gravide e feconde.

  Sono i Negri con lor, sull’Eritrea

  Marina posti alle sinistre sponde:

  Quegli Agricalte, e questi Osmida regge

  184 Che schernisce ogni fede ed ogni legge.

  XXIV.

  Gli Etiópi di Meroe indi seguiro:

  Meroe che quindi il Nilo isola face,

  Ed Astrabora quinci, il cui gran giro

  188 È di tre regni, e di due fe capace.

  Gli conducea Canario, ed Assimiro:

  Re l’uno e l’altro, e di Macon seguace,

  E tributario al Califè; ma tenne

  192 Santa credenza il terzo, e quì non venne.

  XXV.

  Poi due Regi soggetti anco veniano

  Con squadre d’arco armate e di quadrella.

  Un Soldano è d’Ormus, che dal gran seno

  196 Persico è cinta, nobil terra e bella.

  L’altro di Boecan: questa è nel pieno

  Del gran flusso marino, isola anch’ella;

  Ma quando poi, scemando, il mar s’abbassa,

  200 Col piede asciutto il peregrin vi passa.

  XXVI.

  Nè te, Altamoro, entro al pudíco letto

  Potuto ha ritener la sposa amata.

  Pianse, percosse il biondo crine e ‘l petto

  204 Per distornar la tua fatale andata.

  Dunque, dicea, crudel, più che ‘l mio aspetto

  Del mar l’orrida faccia a te fia grata?

  Fian l’arme al braccio tuo più caro peso,

  208 Che ‘l picciol figlio ai dolci scherzi inteso?

  XXVII.

  È questi il Re di Sarmacante; e ‘l manco

  Che in lui si pregi è il libero diadema:

  Così dotto è nell’arme, e così franco

  212 Ardir congiunge a gagliardia suprema!

  Saprallo ben (l’annunzio) il popol Franco:

  Ed è ragion che insino ad or ne tema.

  I suoi guerrieri indosso han la corazza,

  216 La spada al fianco, ed all’arcion la mazza.

  XXVIII.

  Ecco poi, fin dagl’Indi e dall’albergo

  Dell’aurora, venuto Adrasto il fero:

  Che d’un serpente indosso ha per usbergo

  220 Il cuojo verde, e maculato a nero:

  E smisurato a un elefante il tergo

  Preme così, come si suol destriero.

  Gente guida costui di qua dal Gange,

  224 Che si lava nel mar che l’Indo frange.

  XXIX.

  Nella squadra che segue è scelto il fiore

 

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