Jerusalem Delivered
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La chioma di colei che gli fa scorta.
Vola per l’alto mar l’aurata vela:
496 Ei guarda il lido; e ‘l lido ecco si cela.
LXIII.
Poi ch’ella in se tornò, deserto e muto,
Quanto mirar potè, d’intorno scorse.
Ito se n’è pur, disse, ed ha potuto
500 Me quì lasciar della mia vita in forse?
Nè un momento indugiò: nè un breve ajuto
Nel caso estremo il traditor mi porse?
Ed io pur anco l’amo? e in questo lido
504 Invendicata ancor piango, e m’assido?
LXIV.
Che fa più meco il pianto? altr’arme, altr’arte
Io non ho dunque? ahi seguirò pur l’empio:
Nè l’abisso, per lui riposta parte,
508 Nè il Ciel sarà per lui sicuro tempio.
Già ‘l giungo, e ‘l prendo, e ‘l cor gli svello, e sparte
Le membra appendo, ai dispietati esempio.
Mastro è di ferità: vuò superarlo
512 Nell’arti sue; ma dove son? che parlo?
LXV.
Misera Armida, allor dovevi, e degno
Ben era, in quel crudele incrudelire
Che tu prigion l’avesti: or tardo sdegno
516 T’infiamma, e movi neghittosa a l’ire.
Pur se beltà può nulla, o scaltro ingegno,
Non fia vuoto d’effetto il mio desire.
O mia sprezzata forma, a te s’aspetta
520 (Chè tua l’ingiuria fu) l’alta vendetta.
LXVI.
Questa bellezza mia sarà mercede
Del troncator dell’esecrabil testa.
O miei famosi amanti, ecco si chiede
524 Difficil sì, da voi, ma impresa onesta.
Io che sarò d’ampie ricchezze erede,
D’una vendetta in guiderdon son presta.
S’esser compra a tal prezzo indegna io sono,
528 Beltà, sei di natura inutil dono.
LXVII.
Dono infelice, io ti rifiuto: e insieme
Odio l’esser Reina, e l’esser viva,
E l’esser nata mai; sol fa la speme
532 Della dolce vendetta ancor ch’io viva.
Così in voci interrotte irata freme,
E torce il piè dalla deserta riva,
Mostrando ben quanto ha furor raccolto,
536 Sparsa il crin, bieca gli occhj, accesa il volto.
LXVIII.
Giunta agli alberghi suoi chiamò trecento,
Con lingua orrenda, deità d’Averno.
S’empie il Ciel d’atre nubi, e in un momento
540 Impallidisce il gran pianeta eterno:
E soffia, e scuote i gioghi alpestri il vento:
Ecco già sotto i piè mugghiar l’Inferno.
Quanto gira il palagio, udresti irati
544 Sibili, ed urli, e fremiti, e latrati.
LXIX.
Ombra più che di notte, in cui di luce
Raggio misto non è, tutto il circonda;
Se non se in quanto un lampeggiar riluce
548 Per entro la caligine profonda.
Cessa alfin l’ombra, e i raggj il Sol riduce
Pallidi, nè ben l’aura anco è gioconda:
Nè più il palagio appar, nè pur le sue
552 Vestigia, nè dir puossi: egli quì fue.
LXX.
Come immagin talor d’immensa mole
Forman nubi nell’aria, e poco dura,
Chè ‘l vento la disperde, o solve il Sole;
556 Come sogno sen va, ch’egro figura;
Così sparver gli alberghi, e restar sole
L’alpi, e l’orror che fece ivi natura.
Ella sul carro suo, che presto aveva,
560 S’assise, e come ha in uso, al Ciel si leva.
LXXI.
Calca le nubi, e tratta l’aure a volo,
Cinta di nembi, e turbini sonori;
Passa i lidi soggetti all’altro Polo,
564 E le terre d’ignoti abitatori;
Passa d’Alcide i termini, nè ‘l suolo
Appressa degli Esperj, o quel de’ Mori;
Ma su i mari sospeso il corso tiene,
568 Insin che ai lidi di Soria perviene.
LXXII.
Quinci a Damasco non s’invia, ma schiva
Il già sì caro della patria aspetto,
E drizza il carro all’infeconda riva,
572 Ove è tra l’onde il suo castello eretto.
Qui giunta, i servi e le donzelle priva
Di sua presenza, e sceglie ermo ricetto,
E fra varj pensier dubbia s’aggira;
576 Ma tosto cede la vergogna all’ira.
LXXIII.
Io n’andrò pur, dice ella, anzi che l’armi
Dell’Oriente il Re d’Egitto muova:
Ritentar ciascun’arte, e trasmutarmi
580 In ogni forma insolita mi giova,
Trattar l’arco, e la spada, e serva farmi
De’ più potenti, e concitargli a prova;
Pur che le mie vendette io veggia in parte,
584 Il rispetto e l’onor stiasi in disparte.
LXXIV.
Non accusi già me, biasmi se stesso
Il mio custode e zio, che così volse;
Ei l’alma baldanzosa, e ‘l fragil sesso
588 Ai non debiti ufficj in prima volse.
Esso mi fè donna vagante, ed esso
Spronò l’ardire, e la vergogna sciolse;
Tutto si rechi a lui ciò che d’indegno
592 Fei per amore, o che farò di sdegno.
LXXV.
Così risolse: e cavalieri, e donne,
Paggj, e sergenti frettolosa aduna,
E ne’ superbi arnesi, e nelle gonne
596 L’arte dispiega, e la regal fortuna,
E in via si pone, e non è mai ch’assonne,
O che si posi al Sole, od alla Luna,
Sin che non giunge ove le schiere amiche
600 Coprian di Gaza le campagne apriche.
Canto diciasettesimo
ARGOMENTO.
Il suo esercito immenso in mostra chiama
L’Egizio, e poi contra i Cristian l’invia.
Armida che pur di Rinaldo brama
La morte, con sua gente anco giungía;
E per meglio saziar sua crudel brama,
Sè in guiderdon della vendetta offria.
Ei vestia intanto armi fatali, e dove
Mira impresse degli avi illustri prove.
CANTO DECIMOSETTIMO.
I.
Gaza è Città della Giudea nel fine,
Su quella via che inver Pelusio mena:
Posta in riva del mare, ed ha vicine
4 Immense solitudini d’arena,
Le quai, come austro suol l’onde marine,
Mesce il turbo spirante; onde a gran pena
Ritrova il peregrin riparo o scampo
8 Nelle tempeste dell’instabil campo.
II.
Del Re d’Egitto è la Città frontiera,
Da lui gran tempo innanzi ai Turchi tolta;
E però ch’opportuna e prossima era
12 All’alta impresa ove la mente ha volta:
Lasciando Menfi, ch’è sua reggia altera,
Quì traslato il gran seggio, e quì raccolta
Già da varie provincie insieme avea
16 L’innumerabil’ oste all’assemblea.
III.
Musa, quale stagione e qual là fosse
Stato di cose, or tu mi reca a mente:
Qual’arme il grande Imperator, quai posse,
20 Qual serva avesse, e qual compagna gente,
Quando del Mezzogiorno in guerra mosse
Le forze, e i Regi, e l’ultimo Oriente.
Tu sol le schiere e i duci, e sotto l’arme
24 Mezzo il mondo raccolto, or puoi dettarme.
IV.
Poscia che, ribellante, al Greco impero
Si sottrasse l’Egitto, e mutò fede;
Del sangue di Macon nato un guerriero
28 Sen fè Tiranno, e vi fondò la sede.
Ei fu detto Califfo, e del primiero
Chi tien lo scettro al nome anco succede.
Così per ordin lungo il Nilo i suoi
32 Faraon vide, e i Tolommei dappoi.
V.
Volgendo gli anni, il regno è stabilito
Ed accresciuto in guisa tal che viene,
Asia e Libia ingombrando, al Sirio lito
36 Da’ Marmarici fini, e da Cirene:
E passa addentro incontra all’infinito
Corso del Nilo assai sovra Siene:
E quinci alle campagne inabitate
40 Va della sabbia, e quindi al grande Eufrate.
VI.
A destra ed a sinistra in se comprende
L’odorata maremma e ‘l ricco mare.
E, fuor dell’Eritreo, molto si stende
44 Incontro al Sol che mattutino appare.
L’imperio ha in se gran forze, e più le rende
Il Re, ch’or le governa, illustri e chiare:
Ch’è per sangue Signor, ma più per merto,
48 Nell’arti regie e militari esperto.
VII.
Questi, or co’ Turchi or con le genti Perse
Più guerre fè: le mosse, e le respinse:
Fu perdente, e vincente: e nell’avverse
52 Fortune fu maggior che quando vinse.
Poi che la grave età più non sofferse
Dell’arme il peso, alfin la spada scinse;
Ma non depose il suo guerriero ingegno,
56 Nè d’onor il desio vasto, e di regno.
VIII.
Ancor guerreggia per ministri: ed have
Tanto vigor di mente e di parole,
Che della monarchia la soma grave
60 Non sembra agli anni suoi soverchia mole.
Sparsa in minuti regni Africa pave
Tutta al suo nome, e ‘l remoto Indo il cole:
E gli porge altri volontario ajuto
64 D’armate genti, ed altri d’or tributo.
IX.
Tanto e sì fatto Re l’arme raguna:
Anzi pur adunate omai le affretta
Contra il sorgente imperio, e la fortuna
68 Franca, nelle vittorie omai sospetta.
Armida ultima vien: giunge opportuna
Nell’ora appunto alla rassegna eletta.
Fuor delle mura in spazioso campo
72 Passa dinanzi a lui schierato il Campo.
X.
Egli in sublime soglio, a cui per cento
Gradi eburnei s’ascende, altero siede:
E sotto l’ombra d’un gran ciel d’argento
76 Porpora intesta d’or preme col piede:
E ricco di barbarico ornamento,
In abito regal splender si vede.
Fan, torti in mille fasce, i bianchi lini
80 Alto diadema in nova forma ai crini.
XI.
Lo scettro ha nella destra: e per canuta
Barba appar venerabile e severo.
E dagli occhj, ch’etade ancor non muta,
84 Spira l’ardire e ‘l suo vigor primiero.
E ben da ciascun atto è sostenuta
La maestà degli anni, e dell’impero.
Apelle forse o Fidia in tal sembiante
88 Giove formò; ma Giove allor tonante.
XII.
Stannogli a destra l’un, l’altro a sinistra
Due Satrapi i maggiori: alza il più degno
La nuda spada del rigor ministra;
92 L’altro il sigillo, del suo uficio in segno.
Custode un de’ secreti, al Re ministra
Opra civil ne’ grandi affar del regno:
Ma Prence degli eserciti, e con piena
96 Possanza, è l’altro ordinator di pena.
XIII.
Sotto, folta corona al seggio fanno
Con fedel guardia i suoi Circassi astati:
Ed oltra l’aste hanno corazze, ed hanno
100 Spade lunghe e ricurve all’un de’ lati.
Così sedea, così scopria il Tiranno
Da eccelsa parte i popoli adunati.
Tutte a’ suoi piè, nel trapassar, le schiere
104 Chinan, quasi adorando, armi e bandiere.
XIV.
Il popol dell’Egitto in ordin primo
Fa di se mostra: e quattro i duci sono,
Duo’ dell’alto paese, e duo’ dell’imo,
108 Ch’è del celeste Nilo opera e dono.
Al mare usurpò il letto il fertil limo,
E rassodato al coltivar fu buono.
Sì crebbe Egitto: o quanto addentro è posto
112 Quel che fu lido ai naviganti esposto!
XV.
Nel primiero squadron appar la gente
Ch’abitò d’Alessandria il ricco piano,
Ch’abitò il lido volto all’Occidente,
116 Ch’esser comincia omai lido Africano.
Araspe è il duce lor, duce potente
D’ingegno più che di vigor di mano;
Ei di furtivi aguati è mastro egregio,
120 E d’ogni arte Moresca in guerra ha il pregio.
XVI.
Secondan quei che, posti inver l’Aurora,
Nella costa Asiatica albergaro:
E gli guida Aronteo, cui nulla onora
124 Pregio o virtù; ma i titoli il fan chiaro.
Non sudò il molle sotto l’elmo ancora:
Nè mattutine trombe anco il destaro;
Ma dagli agj e dall’ombre a dura vita
128 Intempestiva ambizion l’invita.
XVII.
Quella che terza è poi, squadra non pare;
Ma un’oste immensa: e campi e lidi tiene.
Non crederai ch’Egitto mieta ed are
132 Per tanti: e pur da una Città sua viene:
Città ch’alle provincie emula e pare,
Mille cittadinanze in se contiene:
Del Cairo i’ parlo; indi il gran volgo adduce,
136 Volgo all’arme restío, Campsone il duce.
XVIII.
Vengon sotto Gazel quei che le biade
Segaron nel vicin campo fecondo,
E più suso, infin là dove ricade
140 Il fiume al precipizio suo secondo.
La turba Egizia avea sol archi e spade:
Nè sosterria d’elmo o corazza il pondo.
D’abito è ricca: onde altrui vien che porte
144 Desio di preda, e non timor di morte.
XIX.
Poi la plebe di Barca, e nuda e inerme
Quasi, sotto Alarcon passar si vede:
Che la vita famelica nell’erme
148 Piagge gran tempo sostentò di prede.
Con istuol manco reo, ma inetto a ferme
Battaglie, di Zumara il Re succede.
Quel di Tripoli poscia: e l’uno e l’altro
152 Nel pugnar volteggiando è dotto e scaltro.
XX.
Diretro ad essi apparvero i cultori
Dell’Arabia Petrea, della Felice,
Che ‘l soverchio del gelo e degli ardori
156 Non sente mai; se ‘l ver la fama dice:
Ove nascon gl’incensi, e gli altri odori:
Ove rinasce l’immortal fenice
Che tra i fiori odoriferi, ch’aduna
160 All’esequie ai natali, ha tomba e cuna.
XXI.
L’abito di costoro è meno adorno;
Ma l’armi a quei d’Egitto han simiglianti.
Ecco altri Arabi poi che, di soggiorno
164 Certo, non sono stabili abitanti.
Peregrini perpetui usano intorno
Trarne gli alberghi, e le Cittadi erranti.
Han questi femminil voce, e statura:
168 Crin lungo, e negro; e negra faccia, e scura.
XXII.
Lunghe canne Indiane arman
di corte
Punte di ferro: e in su destrier correnti
Diresti ben che un turbine lor porte;
172 Se pur han turbo sì veloce i venti.
Da Siface le prime erano scorte:
Aldino in guardia ha le seconde genti:
Le terze guida Albiazar ch’è fiero
176 Omicida ladron, non cavaliero.
XXIII.
La turba è appresso che lasciate avea
L’isole cinte dalle Arabiche onde,
Da cui, pescando, già raccor solea
180 Conche di perle gravide e feconde.
Sono i Negri con lor, sull’Eritrea
Marina posti alle sinistre sponde:
Quegli Agricalte, e questi Osmida regge
184 Che schernisce ogni fede ed ogni legge.
XXIV.
Gli Etiópi di Meroe indi seguiro:
Meroe che quindi il Nilo isola face,
Ed Astrabora quinci, il cui gran giro
188 È di tre regni, e di due fe capace.
Gli conducea Canario, ed Assimiro:
Re l’uno e l’altro, e di Macon seguace,
E tributario al Califè; ma tenne
192 Santa credenza il terzo, e quì non venne.
XXV.
Poi due Regi soggetti anco veniano
Con squadre d’arco armate e di quadrella.
Un Soldano è d’Ormus, che dal gran seno
196 Persico è cinta, nobil terra e bella.
L’altro di Boecan: questa è nel pieno
Del gran flusso marino, isola anch’ella;
Ma quando poi, scemando, il mar s’abbassa,
200 Col piede asciutto il peregrin vi passa.
XXVI.
Nè te, Altamoro, entro al pudíco letto
Potuto ha ritener la sposa amata.
Pianse, percosse il biondo crine e ‘l petto
204 Per distornar la tua fatale andata.
Dunque, dicea, crudel, più che ‘l mio aspetto
Del mar l’orrida faccia a te fia grata?
Fian l’arme al braccio tuo più caro peso,
208 Che ‘l picciol figlio ai dolci scherzi inteso?
XXVII.
È questi il Re di Sarmacante; e ‘l manco
Che in lui si pregi è il libero diadema:
Così dotto è nell’arme, e così franco
212 Ardir congiunge a gagliardia suprema!
Saprallo ben (l’annunzio) il popol Franco:
Ed è ragion che insino ad or ne tema.
I suoi guerrieri indosso han la corazza,
216 La spada al fianco, ed all’arcion la mazza.
XXVIII.
Ecco poi, fin dagl’Indi e dall’albergo
Dell’aurora, venuto Adrasto il fero:
Che d’un serpente indosso ha per usbergo
220 Il cuojo verde, e maculato a nero:
E smisurato a un elefante il tergo
Preme così, come si suol destriero.
Gente guida costui di qua dal Gange,
224 Che si lava nel mar che l’Indo frange.
XXIX.
Nella squadra che segue è scelto il fiore