Jerusalem Delivered

Home > Other > Jerusalem Delivered > Page 146
Jerusalem Delivered Page 146

by Torquato Tasso


  Ai mattutini geli arido fiore;

  E tal di vaga gioventù ritorna

  128 Lieto il serpente, e di novo or s’adorna.

  XVII.

  Il bel candor della mutata vesta

  Egli medesmo riguardando ammira.

  Poscia verso l’antica alta foresta

  132 Con sicura baldanza i passi gira.

  Era là giunto ove i men forti arresta

  Solo il terror che di sua vista spira.

  Pur nè spiacente a lui, nè pauroso

  136 Il bosco par, ma lietamente ombroso.

  XVIII.

  Passa più oltre, ed ode un suono intanto

  Che dolcissimamente si diffonde.

  Vi sente d’un ruscello il roco pianto,

  140 E ‘l sospirar dell’aura infra le fronde:

  E di musico cigno il flebil canto,

  E l’usignol che plora, e gli risponde:

  Organi, e cetre, e voci umane in rime.

  144 Tanti e sì fatti suoni un suono esprime!

  XIX.

  Il Cavalier (pur come agli altri avviene)

  N’attendeva un gran tuon d’alto spavento.

  E v’ode poi di Ninfe, e di Sirene,

  148 D’aure, d’acque, e d’augei dolce concento.

  Onde, maravigliando, il piè ritiene,

  E poi sen va tutto sospeso e lento:

  E fra via non ritrova altro divieto

  152 Che quel d’un fiume trasparente e cheto.

  XX.

  L’un margo e l’altro del bel fiume adorno

  Di vaghezze e d’odori olezza e ride.

  Ei tanto stende il suo girevol corno,

  156 Che tra ‘l suo giro il gran bosco s’asside:

  Nè pur gli fa dolce ghirlanda intorno;

  Ma un canaletto suo v’entra, e ‘l divide.

  Bagna egli il bosco, e ‘l bosco il fiume adombra,

  160 Con bel cambio fra lor d’umore e d’ombra.

  XXI.

  Mentre mira il guerriero ove si guade;

  Ecco un ponte mirabile appariva:

  Un ricco ponte d’or, che larghe strade

  164 Su gli archi stabilissimi gli offriva.

  Passa il dorato varco: e quel giù cade

  Tosto che ‘l piè toccata ha l’altra riva:

  E se ne ‘l porta in giù l’acqua repente:

  168 L’acqua ch’è, d’un bel rio, fatta un torrente.

  XXII.

  Ei si rivolge, e dilatato il mira

  E gonfio assai, quasi per nevi sciolte,

  Che in se stesso volubil si raggira

  172 Con mille rapidissime rivolte.

  Ma pur desio di novitade il tira

  A spiar tra le piante antiche e folte;

  E in quelle solitudini selvagge

  176 Sempre a se nova maraviglia il tragge.

  XXIII.

  Dove in passando le vestigia ei posa,

  Par ch’ivi scaturisca, o che germoglie.

  Là s’apre il giglio, e quì spunta la rosa;

  180 Quì sorge un fonte, ivi un ruscel si scioglie.

  E sovra, e intorno a lui la selva annosa

  Tutte parea ringiovenir le foglie.

  S’ammolliscon le scorze, e si rinverde

  184 Più lietamente in ogni pianta il verde.

  XXIV.

  Rugiadosa di manna era ogni fronda,

  E distillava dalle scorze il mele.

  E di nuovo s’udia quella gioconda

  188 Strana armonia di canto, e di querele.

  Ma il coro uman ch’a i cigni, all’aura, all’onda

  Facea tenor, non sa dove si cele:

  Non sa veder chi formi umani accenti,

  192 Nè dove siano i musici stromenti.

  XXV.

  Mentre riguarda, e fede il pensier nega

  A quel che ‘l senso gli offeria per vero;

  Vede un mirto in disparte, e là si piega,

  196 Ove in gran piazza termina un sentiero.

  L’estranio mirto i suoi gran rami spiega,

  Più del cipresso e della palma, altero:

  E sovra tutti gli arbori frondeggia:

  200 Ed ivi par del bosco esser la reggia.

  XXVI.

  Fermo il guerrier nella gran piazza, affisa

  A maggior novitate allor le ciglia.

  Quercia gli appar, che per se stessa incisa

  204 Apre feconda il cavo ventre, e figlia:

  E n’esce fuor vestita in strana guisa

  Ninfa d’età cresciuta; (o maraviglia!)

  E vede insieme poi cento altre piante

  208 Cento ninfe produr dal sen pregnante.

  XXVII.

  Quai le mostra la scena, o quai dipinte

  Talvolta rimiriam Dee boscarecce,

  Nude le braccia, e l’abito succinte,

  212 Con bei coturni, e con disciolte trecce:

  Tali in sembianza si vedean le finte

  Figlie delle selvatiche cortecce;

  Se non che in vece d’arco o di faretra,

  216 Chi tien leuto, e chi viola, o cetra.

  XXVIII.

  E incominciar costor danze e carole:

  E di se stesse una corona ordiro,

  E cinsero il guerrier, siccome suole

  220 Esser punto rinchiuso entro il suo giro.

  Cinser la pianta ancora: e tai parole

  Nel dolce canto lor da lui s’udiro:

  Ben caro giungi in queste chiostre amene,

  224 O della donna nostra amore e spene.

  XXIX.

  Giungi aspettato a dar salute all’egra,

  D’amoroso pensiero arsa e ferita.

  Questa selva che dianzi era sì negra,

  228 Stanza conforme alla dolente vita;

  Vedi che tutta al tuo venir s’allegra,

  E in più leggiadre forme è rivestita.

  Tale era il canto; e poi dal mirto uscia

  232 Un dolcissimo suono: e quel s’apria.

  XXX.

  Già nell’aprir di un rustico Sileno

  Maraviglie vedea l’antica etade;

  Ma quel gran mirto dall’aperto seno

  236 Immagini mostrò più belle e rade:

  Donna mostrò ch’assomigliava appieno,

  Nel falso aspetto, angelica beltade.

  Rinaldo guata, e di veder gli è avviso

  240 Le sembianze d’Armida, e il dolce viso.

  XXXI.

  Quella lui mira in un lieta e dolente:

  Mille affetti in un guardo appajon misti.

  Poi dice: io pur ti veggio: e finalmente

  244 Pur ritorni a colei da cui fuggisti.

  A chè ne vieni? a consolar presente

  Le mie vedove notti e i giorni tristi?

  O vieni a mover guerra, a discacciarme;

  248 Chè mi celi il bel volto, e mostri l’arme?

  XXXII.

  Giungi amante, o nemico? il ricco ponte

  Io già non preparava ad uom nemico;

  Nè gli apriva i ruscelli, i fior, la fonte,

  252 Sgombrando i dumi, e ciò ch’a’ passi è intrico.

  Togli quest’elmo omai: scopri la fronte,

  E gli occhj agli occhj miei, s’arrivi amico:

  Giungi i labbri alle labbra, il seno al seno:

  256 Porgi la destra alla mia destra almeno.

  XXXIII.

  Seguia parlando, e in bei pietosi giri

  Volgeva i lumi, e scoloria i sembianti;

  Falseggiando i dolcissimi sospiri,

  260 E i soavi singulti, e i vaghi pianti:

  Tal che incauta pietade a quei martírj

  Intenerir potea gli aspri diamanti.

  Ma il Cavaliero, accorto si non crudo,

  264 Più non v’attende, e stringe il ferro ignudo.

  XXXIV.

  Vassene al mirto; allor colei s’abbraccia

  Al caro tronco, e s’interpone, e grida:

  Ah non sarà mai ver che tu mi faccia

  268 Oltraggio tal, che l’alber mio re
cida.

  Deponi il ferro, o dispietato, o ‘l caccia

  Pria nelle vene all’infelice Armida;

  Per questo sen, per questo cor, la spada

  272 Solo al bel mirto mio trovar può strada.

  XXXV.

  Egli alza il ferro, e ‘l suo pregar non cura:

  Ma colei si trasmuta (o novi mostri!)

  Siccome avvien che d’una altra figura

  276 Trasformando repente il sogno mostri.

  Così ingrossò le membra, e tornò scura

  La faccia; e vi sparìr gli avorj e gli ostri:

  Crebbe in gigante altissimo, e si feo

  280 Con cento armate braccia un Briareo.

  XXXVI.

  Cinquanta spade impugna, e con cinquanta

  Scudi risuona, e minacciando freme.

  Ogn’altra Ninfa ancor d’arme s’ammanta,

  284 Fatta un Ciclope orrendo: ed ei non teme;

  Ma doppia i colpi alla difesa pianta

  Che pur, come animata, ai colpi geme.

  Sembran dell’aria i campi, i campi Stigj:

  288 Tanti appajono in lor mostri e prodigj!

  XXXVII.

  Sopra il turbato Ciel, sotto la terra,

  Tuona e fulmina quello, e trema questa:

  Vengono i venti e le procelle in guerra,

  292 E gli soffiano al volto aspra tempesta.

  Ma pur mai colpo il Cavalier non erra:

  Nè per tanto furor punto s’arresta;

  Tronca la noce: e noce e mirto parve.

  296 Quì l’incanto finì, sparir le larve.

  XXXVIII.

  Tornò sereno il Cielo, e l’aura cheta:

  Tornò la selva al natural suo stato:

  Non d’incanti terribile, e non lieta,

  300 Piena d’orror, ma dell’orror innato.

  Ritenta il vincitor s’altro più vieta

  Ch’esser non possa il bosco omai troncato,

  Poscia sorride, e fra se dice: o vane

  304 Sembianze; o folle chi per voi rimane!

  XXXIX.

  Quinci s’invia verso le tende; e intanto

  Colà gridava il solitario Piero:

  Già vinto è della selva il fero incanto:

  308 Già sen ritorna il vincitor guerriero.

  Vedilo; ed ei da lunge, in bianco manto,

  Comparia venerabile ed altero:

  E dell’aquila sua le argentee piume

  312 Splendeano al Sol d’inusitato lume.

  XL.

  Ei dal campo giojoso alto saluto

  Ha con sonoro replicar di gridi:

  E poi con lieto onore è ricevuto

  316 Dal pio Buglione; e non è chi l’invídi.

  Dice al Duce il Guerriero: a quel temuto

  Bosco n’andai, come imponesti, e ‘l vidi:

  Vidi, e vinsi gl’incanti: or vadan pure

  320 Le genti là, chè son le vie sicure.

  XLI.

  Vassi all’antica selva: e quindi è tolta

  Materia tal qual buon giudizio elesse.

  E benchè oscuro fabbro arte non molta

  324 Por nelle prime machine sapesse;

  Pur artefice illustre a questa volta

  È colui ch’alle travi i vinchi intesse;

  Guglielmo, il Duce Ligure, che pria

  328 Signor del mare corseggiar solía.

  XLII.

  Poi sforzato a ritrarsi, ei cesse i regni

  Al gran navigio Saracin de’ mari.

  Ed ora al campo conducea dai legni

  332 E le marittime arme, e i marinari.

  Ed era questi infra i più industri ingegni

  Ne’ meccanici ordigni uom senza pari.

  E cento seco avea fabbri minori,

  336 Di ciò ch’egli disegna esecutori.

  XLIII.

  Costui non solo incominciò a comporre

  Catapulte, baliste, ed arieti;

  Onde alle mura le difese torre

  340 Possa, e spezzar le sode alte pareti;

  Ma fece opra maggior: mirabil torre,

  Ch’entro di pin tessuta era, e d’abeti;

  E nelle cuoja avvolto ha quel di fuore,

  344 Per ischermirsi da lanciato ardore.

  XLIV.

  Si scommette la mole, e ricompone

  Con sottili giunture in un congiunta:

  E la trave che testa ha di montone

  348 Dall’ime parti sue cozzando spunta.

  Lancia dal mezzo un ponte: e spesso il pone

  Sull’opposta muraglia a prima giunta:

  E fuor da lei su per la cima n’esce

  352 Torre minor, che in suso è spinta, e cresce.

  XLV.

  Per le facili vie destra e corrente

  Sovra ben cento sue volubil rote,

  Gravida d’arme, e gravida di gente

  356 Senza molta fatica ella gir puote.

  Stanno le schiere in rimirando intente

  La prestezza de’ fabbri, e l’arti ignote.

  E due torri in quel punto anco son fatte,

  360 Della prima ad immagine ritratte.

  XLVI.

  Ma non eran frattanto ai Saracini

  L’opre, ch’ivi si fean, del tutto ascoste;

  Perchè nell’alte mura ai più vicini

  364 Lochi le guardie ad ispiar son poste.

  Questi gran salmeríe d’orni e di pini

  Vedean dal bosco esser condotte all’oste:

  E machine vedean; ma non appieno

  368 Riconoscer la forma indi potieno.

  XLVII.

  Fan lor machine anch’essi; e con molt’arte

  Rinforzano le torri e la muraglia:

  E l’alzaron così, da quella parte

  372 Ov’è men’atta a sostener battaglia,

  Che, a lor credenza, omai sforzo di Marte

  Esser non può che ad espugnarla vaglia.

  Ma sovra ogni difesa Ismen prepara

  376 Copia di fochi inusitata e rara.

  XLVIII.

  Mesce il Mago fellon zolfo e bitume,

  Che dal lago di Sodoma ha raccolto,

  E fu, credo, in Inferno: e dal gran fiume,

  380 Che nove volte il cerchia, anco n’ha tolto;

  Così fa che quel foco e puta e fume,

  E che s’avventi, fiammeggiando, al volto.

  E ben co’ feri incendj egli s’avvisa

  384 Di vendicar la cara selva incisa.

  XLIX.

  Mentre il campo all’assalto, e la Cittade

  S’apparecchia in tal modo alle difese;

  Una colomba per l’aeree strade

  388 Vista è passar sovra lo stuol Francese:

  Che ne dimena i presti vanni, e rade

  Quelle liquide vie con l’ali tese.

  E già la messaggiera peregrina

  392 Dall’alte nubi alla Città s’inchina;

  L.

  Quando, di non so donde, esce un falcone

  D’adunco rostro armato e di grand’ugna,

  Che fra ‘l campo e le mura a lei s’oppone.

  396 Non aspetta ella del crudel la pugna;

  Quegli, d’alto volando, al padiglione

  Maggior l’incalza, e par ch’omai l’aggiugna:

  Ed al tenero capo il piede ha sovra;

  400 Essa nel grembo al pio Buglion ricovra.

  LI.

  La raccoglie Goffredo, e la difende:

  Poi scorge, in lei guardando, estrania cosa.

  Chè dal collo ad un filo avvinta pende

  404 Rinchiusa carta, e sotto un’ala ascosa.

  La disserra, e dispiega: e bene intende

  Quella che in se contien non lunga prosa.

  Al Signor di Giudea (dicea lo scritto)

  408 Invia salute il Capitan d’Egitto.

  LII.

  Non sbigottir, Signor: resisti e dura

  Insino al quarto, o insino al giorno quinto;

  Ch’io vengo a liberar coteste mura:

  412 E vedrai tosto il tuo nemico vinto.<
br />
  Questo il secreto fu che la scrittura,

  In barbariche note, avea distinto,

  Dato in custodia al portator volante:

  416 Chè tai messi in quel tempo usò il Levante.

  LIII.

  Libera il Prence la colomba: e quella,

  Che de’ secreti fu rivelatrice,

  Come esser creda al suo Signor rubella,

  420 Non ardì più tornar nunzia infelice.

  Ma il sopran Duce i minor duci appella,

  E lor mostra la carta, e così dice:

  Vedete come il tutto a noi riveli

  424 La provvidenza del Signor de’ Cieli.

  LIV.

  Già più di ritardar tempo non parmi.

  Nuova spianata or cominciar potrassi:

  E fatica e sudor non si risparmi,

  428 Per superar d’inverso l’Austro i sassi.

  Duro fia si far colà strada all’armi:

  Pur far si può; notato ho il loco e i passi.

  E ben quel muro, che assicura il sito,

  432 D’arme e d’opre men deve esser munito.

  LV.

  Tu, Raimondo, vogl’io, che da quel lato

  Con le machine tue le mura offenda.

  Vuò, che dell’arme mie l’alto apparato

  436 Contra la porta aquilonar si stenda;

  Sì che il nemico il vegga, ed, ingannato,

  Indi il maggior impeto nostro attenda.

  Poi la gran torre mia, ch’agevol move,

  440 Trascorra alquanto, e porti guerra altrove.

  LVI.

  Tu drizzerai, Camillo, al tempo stesso

  Non lontana da me la terza torre.

  Tacque; e Raimondo, che gli siede appresso,

  444 E che, parlando lui, fra se discorre;

  Disse: al consiglio da Goffredo espresso

  Nulla giunger si puote, e nulla torre.

  Lodo solo, oltre ciò, ch’alcun s’invii

  448 Nel campo ostil, che i suoi secreti spii.

  LVII.

  E ne ridica il numero, e ‘l pensiero

  (Quanto raccor potrà) certo e verace.

  Soggiunge allor Tancredi: ho un mio scudiero,

  452 Che a questo ufficio di propor mi piace:

  Uom pronto e destro, e sovra i piè leggiero:

  Audace si, ma cautamente audace:

  Che parla in molte lingue, e varia il noto

  456 Suon della voce, e ‘l portamento, e ‘l moto.

  LVIII.

  Venne colui chiamato; e poi ch’intese

  Ciò che Goffredo, e ‘l suo Signor desia;

  Alzò ridendo il volto, ed intraprese

  460 La cura, e disse: or or mi pongo in via.

  Tosto sarò, dove quel campo tese

  Le tende avrà, non conosciuta spia;

  Vuò penetrar di mezzodì nel vallo,

  464 E numerarvi ogn’uomo, ogni cavallo.

  LIX.

  Quanta e qual sia quell’oste, e ciò che pensi

  Il Duce loro, a voi ridir prometto.

  Vantomi in lui scoprir gl’intimi sensi,

  468 E i secreti pensier trargli del petto.

 

‹ Prev