Cader seco Alforisio: ire in esiglio
Azzo si vede, e ‘l suo fratel con esso:
E ritornar con l’arme, e col consiglio
572 Dapoi che fu il Tiranno Erulo oppresso.
Trafitto di saetta il destro ciglio,
Segue l’Estense Epaminonda appresso:
E par lieto morir; poscia che ‘l crudo
576 Totila è vinto, e salvo il caro scudo.
LXXIII.
Di Bonifacio parlo: e fanciulletto
Premea Valerian l’orme del padre:
Già di destra viril, viril di petto
580 Cento nol sostenean Gotiche squadre.
Non lunge ferocissimo in aspetto
Fea contra Schiavi Ernesto opre leggiadre.
Ma innanzi a lui l’intrepido Aldoardo
584 Da Monselce escludeva il Re Lombardo.
LXXIV.
Enrico v’era, e Berengario: e dove
Spiega il gran Carlo la sua augusta insegna,
Par ch’egli il primo feritor si trove
588 Ministro o capitan d’impresa degna.
Poi segue Lodovico: e quegli il move
Contra il nipote che in Italia regna:
Ecco in battaglia il vince, e ‘l fa prigione.
592 Eravi poi co’ cinque figlj Ottone.
LXXV.
V’era Almerico: e si vedea già fatto
Della Città, donna del Po, Marchese.
Devotamente il Ciel riguarda, in atto
596 Di contemplante, il fondator di chiese.
D’incontro Azzo secondo avean ritratto
Far contra Berengario aspre contese:
Che dopo un corso di fortuna alterno
600 Vinceva, e dell’Italia avea il governo.
LXXVI.
Vedi Alberto il figliuolo ir fra’ Germani,
E colà far le sue virtù sì note,
Che, vinti in giostra e vinti in guerra i Dani,
604 Genero il compra Otton con larga dote.
Vedigli a tergo Ugon, quel ch’ai Romani
Fiaccar le corna impetuoso puote:
E che Marchese dell’Italia fia
608 Detto, e Toscana tutta avrà in balía.
LXXVII.
Poscia Tedaldo, e Bonifacio accanto
A Beatrice sua poi v’era espresso.
Non si vedea virile erede a tanto
612 Retaggio, a sì gran padre esser successo.
Seguia Matilda, ed adempía ben quanto
Difetto par nel numero, e nel sesso:
Chè può la saggia e valorosa Donna
616 Sovra corone e scettri alzar la gonna.
LXXVIII.
Spira spiriti maschj il nobil volto:
Mostra vigor più che viril lo sguardo.
Là sconfiggea i Normandi, e in fuga volto
620 Si dileguava il già invitto Guiscardo.
Quì rompea Enrico il quarto: ed, a lui tolto,
Offriva al tempio imperial stendardo:
Quì riponea il Pontefice soprano
624 Nel gran soglio di Pietro in Vaticano.
LXXIX.
Poi vedi in guisa d’uom che onori ed ami,
Ch’or l’è al fianco Azzo il quinto, or la seconda:
Ma d’Azzo il quarto in più felici rami
628 Germogliava la prole alma e feconda.
Va dove par che la Germania il chiami
Guelfo il figliuol, figliuol di Cunigonda:
E ‘l buon germe Roman con destro fato
632 È ne’ campi Bavarici traslato.
LXXX.
Là d’un gran ramo Estense ei par ch’innesti
L’arbore di Guelfon, ch’è per se vieto.
Quel ne’ suoi Guelfi rinnovar vedresti
636 Scettri e corone d’or, più che mai lieto:
E col favor de’ bei lumi celesti
Andar poggiando, e non aver divieto.
Già confina col Ciel, già mezza ingombra
640 La gran Germania, e tutta anco l’adombra.
LXXXI.
Ma ne’ suoi rami Italici fioriva
Bella non men la regal pianta a prova;
Bertoldo quì d’incontra a Guelfo usciva:
644 Quì Azzo il sesto i suoi prischi rinnova.
Questa è la serie degli eroi, che viva
Nel metallo spirante par si mova.
Rinaldo sveglia, in rimirando, mille
648 Spirti d’onor dalle natíe faville.
LXXXII.
E d’emula virtù l’animo altero
Commosso avvampa: ed è rapito in guisa,
Che ciò che immaginando ha nel pensiero,
652 Città battuta e presa, e gente uccisa,
Pur come sia presente, e come vero
Dinanzi agli occhj suoi vedere avvisa:
E s’arma frettoloso: e con la spene
656 Già la vittoria usurpa, e la previene.
LXXXIII.
Ma Carlo, il quale a lui del regio erede
Di Dania già narrata avea la morte,
La destinata spada allor gli diede.
660 Prendila, disse, e sia con lieta sorte:
E solo in pro della Cristiana fede
L’adopra, giusto e pio, non men che forte.
E fa del primo suo signor vendetta,
664 Che t’amò tanto: e ben a te s’aspetta.
LXXXIV.
Rispose egli al Guerriero: ai Cieli piaccia,
Che la man che la spada ora riceve
Con lei del suo signor vendetta faccia:
668 Paghi con lei ciò che per lei si deve.
Carlo rivolto a lui, con lieta faccia,
Lunghe grazie ristrinse in sermon breve.
Ma lor s’offriva intento, ed al viaggio
672 Notturno gli affrettava il nobil Saggio.
LXXXV.
Tempo è, dicea, di girne ove t’attende
Goffredo e ‘l campo; e ben giungi opportuno.
Or n’andiam pur; chè alle Cristiane tende
676 Scorger ben vi saprò per l’aer bruno.
Così dice egli; e poi sul carro ascende,
E lor v’accoglie senza indugio alcuno:
E rallentando a’ suoi destrieri il morso,
680 Gli sferza, e drizza all’Oriente il corso.
LXXXVI.
Taciti se ne gían per l’aria nera;
Quando al Garzon si volge il Vecchio, e dice:
Veduto hai tu della tua stirpe altera
684 I rami, e la vetusta alta radice.
E sebben ella dell’età primiera
Stata è fertil d’eroi madre, e felice;
Non è, nè fia di partorir mai stanca;
688 Chè per vecchiezza in lei virtù non manca.
LXXXVII.
Oh, come tratto ho fuor del fosco seno
Dell’età prisca i primi padri ignoti;
Così potessi ancor scoprire appieno
692 Ne’ secoli avvenire i tuoi nipoti!
E pria ch’essi apran gli occhj al bel sereno
Di questa luce, fargli al mondo noti;
Chè de’ futuri eroi già non vedresti
696 L’ordin men lungo, o pur men chiari i gesti.
LXXXVIII.
Ma l’arte mia per se dentro al futuro
Non scorge il ver, che troppo occulto giace,
Se non caliginoso e dubbio e scuro,
700 Quasi lunge per nebbia incerta face.
E se cosa qual certo io m’assicuro
Affermarti, non sono in questo audace;
Ch’io l’intesi da tal che, senza velo,
704 I secreti talor scopre del Cielo.
LXXXIX.
Quel ch’a lui rivelò luce divina,
E ch’egli a me scoperse, io a te predíco.
Non fu mai greca, o barbara, o latina
708 Progenie, in questo o nel buon tempo antico,
Ricca di tanti eroi, quanti destina
A te chiari nipoti il Cielo amico:
Ch’agguaglieran qual più chi
aro si noma
712 Di Sparta, di Cartagine, e di Roma.
XC.
Ma fra gli altri, mi disse, Alfonso io sceglio
Primo in virtù, ma in titolo secondo,
Che nascer dee quando, corrotto e veglio,
716 Povero fia d’uomini illustri il mondo.
Questo fia tal, che non sarà chi meglio
La spada usi o lo scettro, o meglio il pondo
O dell’arme sostegna o del diadema,
720 Gloria del sangue tuo somma e suprema.
XCI.
Darà fanciullo, in varie immagin fere
Di guerra, indizio di valor sublime.
Fia terror delle selve e delle fere:
724 E negli arringhi avrà le lodi prime.
Poscia riporterà da pugne vere
Palme vittoriose, e spoglie opíme:
E sovente avverrà che ‘l crin si cigna
728 Or di lauro, or di quercia, or di gramigna.
XCII.
Della matura età pregj men degni
Non fiano stabilir pace e quiete:
Mantener sue Città, fra l’arme e i regni
732 Di possenti vicin, tranquille e chete:
Nutrire e fecondar l’arti e gl’ingegni,
Celebrar giochi illustri, e pompe liete:
Librar con giusta lance e pene e premj,
736 Mirar da lunge, e preveder gli estremi.
XCIII.
Oh s’avvenisse mai che contra gli empj,
Che tutte infesteran le terre e i mari,
E della pace, in quei miseri tempi,
740 Daran le leggi ai popoli più chiari,
Duce sen gisse a vendicare i tempj
Da lor distrutti, e i violati altari;
Qual’ei giusta faria grave vendetta
744 Sul gran Tiranno, e sull’iniqua setta!
XCIV.
Indarno a lui con mille schiere armate
Quinci il Turco opporriasi, e quindi il Mauro;
Ch’egli portar potrebbe oltre l’Eufrate,
748 Ed oltre i gioghi del nevoso Tauro,
Ed oltre i regni ov’è perpetua state,
La Croce, e ‘l bianco augello, e i giglj d’auro:
E, per battesmo delle nere fronti,
752 Del gran Nilo scoprir le ignote fonti.
XCV.
Così parlava il Veglio; e le parole
Lietamente accoglieva il giovinetto,
Che del pensier della futura prole
756 Un tacito piacer sentía nel petto.
L’Alba intanto sorgea, nunzia del Sole,
E ‘l Ciel cangiava in Oriente aspetto:
E sulle tende già potean vedere
760 Da lunge il tremolar delle bandiere.
XCVI.
Ricominciò di novo allora il Saggio:
Vedete il Sol che vi riluce in fronte,
E vi discopre, con l’amico raggio,
764 Le tende e ‘l piano e la Cittade e ‘l monte.
Sicuri d’ogni intoppo e d’ogni oltraggio
Io scorti v’ho fin quì per vie non conte.
Potete senza guida ir per voi stessi
768 Omai; nè lece a me che più m’appressi.
XCVII.
Così tolse congedo, e fè ritorno,
Lasciando i cavalieri ivi pedoni.
Ed essi pur contra il nascente giorno
772 Seguir la strada, e giro ai padiglioni.
Portò la Fama, e divulgò d’intorno
L’aspettato venir de’ tre baroni:
E innanzi ad essi al pio Goffredo corse,
776 Che per raccorgli dal suo seggio sorse.
Canto diciottesimo
ARGOMENTO.
Prima i suoi falli piange, e poi l’impresa
Del bosco tenta, e vince il buon Rinaldo.
Del campo Egizio s’è novella intesa,
Ch’omai s’appressa; però astuto e baldo
Va a spiarne Vafrino: aspra contesa
Fassi intorno a Sion; ma tanto è saldo
L’ajuto che han dal Ciel l’armi Cristiane,
Ch’ai nostri in preda la Città rimane.
CANTO DECIMOTTAVO.
Giunto Rinaldo ove Goffredo è sorto
Ad incontrarlo, incominciò: Signore,
A vendicarmi del guerrier ch’è morto,
4 Cura mi spinse di geloso onore:
E s’io n’offesi te, ben disconforto
Ne sentii poscia, e penitenza al core.
Or vegno a’ tuoi richiami: ed ogni emenda
8 Son pronto a far, che grato a te mi renda.
II.
A lui, ch’umil gli s’inchinò, le braccia
Stese al collo Goffredo, e gli rispose:
Ogni trista memoria omai si taccia,
12 E pongansi in oblio le andate cose.
E per emenda io vorrò sol che faccia,
Quai per uso faresti, opre famose:
Chè in danno de’ nemici, e ‘n pro de’ nostri
16 Vincer convienti della selva i mostri.
III.
L’antichissima selva, onde fu innanti
De’ nostri ordigni la materia tratta,
(Qual si sia la cagione) ora è d’incanti
20 Secreta stanza e formidabil fatta:
Nè v’è chi legno ivi troncar si vanti:
Nè vuol ragion che la Città si batta
Senza tali instrumenti: or colà dove
24 Paventan gli altri, il tuo valor si prove.
IV.
Così disse egli: e ‘l cavalier s’offerse,
Con brevi detti, al rischio e alla fatica:
Ma negli atti magnanimi si scerse
28 Ch’assai farà, benchè non molto ei dica.
E verso gli altri poi lieto converse
La destra e ‘l volto all’accoglienza amica.
Quì Guelfo, quì Tancredi, e quì già tutti
32 S’eran dell’oste i Principi ridutti.
V.
Poi che le dimostranze oneste e care
Con que’ soprani egli iterò più volte;
Placido affabilmente e popolare
36 L’altre genti minori ebbe raccolte.
Non saria già più allegro il militare
Grido, o le turbe intorno a lui più folte,
Se, vinto l’Oriente e ‘l Mezzogiorno,
40 Trionfante ei n’andasse in carro adorno.
VI.
Così ne va sino al suo albergo; e siede
In cerchio quivi ai cari amici accanto:
E molto lor risponde, e molto chiede
44 Or della guerra, or del silvestre incanto.
Ma quando ogn’un partendo agio lor diede,
Così gli disse l’Eremita santo:
Ben gran cose, signore, e lungo corso
48 (Mirabil peregrino) errando hai scorso.
VII.
Quanto devi al gran Re che ‘l mondo regge!
Tratto egli t’ha dalle incantate soglie:
Ei te smarrito agnel fra le sue gregge
52 Or riconduce, e nel suo ovile accoglie:
E per la voce del Buglion t’elegge
Secondo esecutor delle sue voglie.
Ma non conviensi già che, ancor profano,
56 Nei suoi gran ministerj armi la mano.
VIII.
Chè sei della caligine del mondo
E della carne tu di modo asperso,
Che ‘l Nilo, o ‘l Gange, o l’Ocean profondo
60 Non ti potrebbe far candido e terso.
Sol la grazia del Ciel quanto hai d’immondo
Può render puro; al Ciel dunque converso
Riverente perdon richiedi, e spiega
64 Le tue tacite colpe, e piangi e prega.
IX.
Così gli disse; ed ei prima in se stesso
Pianse i superbi sdegni, e i folli amori:
Poi chinato a’ suoi piè, mesto e dimesso,
68 Tutti scoprigli i giovanili errori.
Il ministro del Ciel, dopo il concess
o
Perdono, a lui dicea: co’ novi albóri
Ad orar te n’andrai là su quel monte
72 Che al raggio mattutin volge la fronte.
X.
Quinci al bosco t’invia, dove cotanti
Son fantasmi ingannevoli e bugiardi.
Vincerai (questo so) mostri e giganti;
76 Purch’altro folle error non ti ritardi.
Deh nè voce che dolce o pianga, o canti,
Nè beltà che soave o rida, o guardi,
Con tenere lusinghe il cor ti pieghi:
80 Ma sprezza i finti aspetti, e i finti preghi.
XI.
Così il consiglia; e ‘l Cavalier s’appresta,
Desiando e sperando, all’alta impresa.
Passa pensoso il dì, pensosa e mesta
84 La notte: e pria che in Ciel sia l’alba accesa,
Le belle arme si cinge, e sopravvesta
Nova, ed estrania di color s’ha presa:
E tutto solo, e tacito, e pedone
88 Lascia i compagni, e lascia il padiglione.
XII.
Era nella stagion che anco non cede
Libero ogni confin la notte al giorno;
Ma l’Oriente rosseggiar si vede,
92 Ed anco è il Ciel d’alcuna stella adorno;
Quando ei drizzò ver l’Oliveto il piede,
Con gli occhj alzati contemplando intorno
Quinci notturne e quindi mattutine
96 Bellezze incorruttibili e divine.
XIII.
Fra se stesso pensava: o quante belle
Luci il tempio celeste in se raguna!
Ha il suo gran carro il dì: l’aurate stelle
100 Spiega la notte, e l’argentata Luna;
Ma non è chi vagheggi o questa o quelle:
E miriam noi torbida luce e bruna,
Ch’un girar d’occhj, un balenar di riso
104 Scopre in breve confin il fragil viso.
XIV.
Così pensando, alle più eccelse cime
Ascese; e quivi, inchino e riverente,
Alzò il pensier sovra ogni Ciel sublime
108 E le luci fissò ne l’Oriente:
La prima vita e le mie colpe prime
Mira con occhio di pietà clemente,
Padre e Signor, e in me tua grazia piovi,
112 Sì che ‘l mio vecchio Adam purghi e rinnovi.
XV.
Così pregava, e gli sorgeva a fronte
Fatta già d’auro la vermiglia aurora
Che l’elmo e l’arme e intorno a lui del monte
116 Le verdi cime illuminando indora;
E ventillar nel petto e ne la fronte
Sentia gli spirti di piacevol’ ora,
Che sovra il capo suo scotea dal grembo
120 De la bell’alba un rugiadoso nembo.
XVI.
La rugiada del Ciel su le sue spoglie
Cade, che parean cenere al colore,
E sì l’asperge che ‘l pallor ne toglie
124 E induce in esse un lucido candore;
Tal rabbellisce le smarrite foglie
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