by Dante
Questo principio, male inteso, torse →
già tutto il mondo quasi, sì che Giove, →
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Mercurio e Marte a nominar trascorse.
L’altra dubitazion che ti commove → →
ha men velen, però che sua malizia
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non ti poria menar da me altrove.
Parere ingiusta la nostra giustizia →
ne li occhi d’i mortali, è argomento
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di fede e non d’eretica nequizia.
Ma perché puote vostro accorgimento →
ben penetrare a questa veritate,
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come disiri, ti farò contento.
Se vïolenza è quando quel che pate →
nïente conferisce a quel che sforza,
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non fuor quest’ alme per essa scusate:
ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco, →
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se mille volte vïolenza il torza.
Per che, s’ella si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
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possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato lor volere intero, →
come tenne Lorenzo in su la grada,
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e fece Muzio a la sua man severo,
così l’avria ripinte per la strada
ond’ eran tratte, come fuoro sciolte;
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ma così salda voglia è troppo rada.
E per queste parole, se ricolte
l’hai come dei, è l’argomento casso →
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che t’avria fatto noia ancor più volte.
Ma or ti s’attraversa un altro passo →
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
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non usciresti: pria saresti lasso.
Io t’ho per certo ne la mente messo →
ch’alma beata non poria mentire,
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però ch’è sempre al primo vero appresso;
e poi potesti da Piccarda udire
che l’affezion del vel Costanza tenne;
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sì ch’ella par qui meco contradire.
Molte fïate già, frate, addivenne →
che, per fuggir periglio, contra grato
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si fé di quel che far non si convenne;
come Almeone, che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
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per non perder pietà si fé spietato.
A questo punto voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
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sì che scusar non si posson l’offense.
Voglia assoluta non consente al danno; →
ma consentevi in tanto in quanto teme,
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se si ritrae, cadere in più affanno.
Però, quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
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de l’altra; sì che ver diciamo insieme.”
Cotal fu l’ondeggiar del santo rio →
ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva;
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tal puose in pace uno e altro disio.
“O amanza del primo amante, o diva,” →
diss’ io appresso, “il cui parlar m’inonda
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e scalda sì, che più e più m’avviva,
non è l’affezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia; →
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ma quei che vede e puote a ciò risponda.
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
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di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
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se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo, →
a piè del vero il dubbio; ed è natura
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ch’al sommo pinge noi di collo in collo.
Questo m’invita, questo m’assicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
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d’un’altra verità che m’è oscura.
Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi →
ai voti manchi sì con altri beni,
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ch’a la vostra statera non sien parvi.”
Beatrice mi guardò con li occhi pieni →
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
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e quasi mi perdei con li occhi chini.
PARADISO V
“S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore → → → →
di là dal modo che ’n terra si vede,
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sì che del viso tuo vinco il valore,
non ti maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
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così nel bene appreso move il piede. →
Io veggio ben sì come già resplende →
ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
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che, vista, sola e sempre amore accende;
e s’altra cosa vostro amor seduce, →
non è se non di quella alcun vestigio, →
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mal conosciuto, che quivi traluce.
Tu vuo’ saper se con altro servigio, →
per manco voto, si può render tanto
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che l’anima sicuri di letigio.”
Sì cominciò Beatrice questo canto; →
e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
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continüò così ’l processo santo:
“Lo maggior don che Dio per sua larghezza →
fesse creando, e a la sua bontate
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più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti, →
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e tutte e sole, fuoro e son dotate.
Or ti parrà, se tu quinci argomenti, →
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
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che Dio consenta quando tu consenti;
ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
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tal quale io dico; e fassi col suo atto.
Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c’hai offerto,
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di maltolletto vuo’ far buon lavoro.
Tu se’ omai del maggior punto certo; →
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
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che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,
convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che ’l cibo rigido c’hai preso,
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richiede ancora aiuto a tua dispensa.
Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza
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sanza lo ritenere, avere inteso.
Due cose si convegnono a l’essenza → →
di questo sacrificio: l’una è quella
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di che si fa; l’altr’ è la convenenza.
Quest’ ultima già mai non si cancella →
se non servata; e intorno di lei
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sì preciso di sopra si favella:
però necessitato fu a li Ebrei →
pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
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si permutasse, come saver dei. →
L’altra, che per materia t’è aperta, →
puote ben esser tal, che non si falla
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; se con altra materia si converta.
Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
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e de la chiave bianca e de la gialla; →
e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
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come ’l quattro nel sei non è raccolta.
Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
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sodisfar non si può con altra spesa.
Non prendan li mortali il voto a ciancia; → →
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
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come Ieptè a la sua prima mancia; →
cui più si convenia dicer ‘Mal feci,’
che, servando, far peggio; e così stolto
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ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,
onde pianse Efigènia il suo bel volto, →
e fé pianger di sé i folli e i savi
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ch’udir parlar di così fatto cólto.
Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: →
non siate come penna ad ogne vento, →
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e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.
Avete il novo e ’l vecchio Testamento, →
e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
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questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida, →
uomini siate, e non pecore matte,
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sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida! →
Non fate com’ agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
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seco medesmo a suo piacer combatte!”
Così Beatrice a me com’ïo scrivo; →
poi si rivolse tutta disïante
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a quella parte ove ’l mondo è più vivo. →
Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante →
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
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che già nuove questioni avea davante; →
e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
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così corremmo nel secondo regno.
Quivi la donna mia vid’ io sì lieta, →
come nel lume di quel ciel si mise,
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che più lucente se ne fé ’l pianeta.
E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’ io che pur da mia natura
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trasmutabile son per tutte guise!
Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura →
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
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per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
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“Ecco chi crescerà li nostri amori.” →
E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l’ombra piena di letizia →
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nel folgór chiaro che di lei uscia.
Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia →
non procedesse, come tu avresti
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di più savere angosciosa carizia;
e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
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sì come a li occhi mi fur manifesti.
“O bene nato a cui veder li troni →
del trïunfo etternal concede grazia →
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prima che la milizia s’abbandoni,
del lume che per tutto il ciel si spazia →
noi semo accesi; e però, se disii
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di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia.”
Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì →
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sicuramente, e credi come a dii.”
“Io veggio ben sì come tu t’annidi →
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
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perch’ e’ corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se’, né perché aggi, →
anima degna, il grado de la spera
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che si vela a’ mortai con altrui raggi.” →
Questo diss’ io diritto a la lumera →
che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi
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lucente più assai di quel ch’ell’ era.
Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come ’l caldo ha róse
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le temperanze d’i vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose →
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nel modo che ’l seguente canto canta.
PARADISO VI
“Poscia che Costantin l’aquila volse → →
contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio →
3
dietro a l’antico che Lavina tolse,
cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio → →
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
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vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;
e sotto l’ombra de le sacre penne →
governò ’l mondo lì di mano in mano, →
9
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Cesare fui e son Iustinïano, →
che, per voler del primo amor ch’i’ sento, →
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d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.
E prima ch’io a l’ovra fossi attento, →
una natura in Cristo esser, non piùe,
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credea, e di tal fede era contento;
ma ’l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
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mi dirizzò con le parole sue.
Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era, →
vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi
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ogne contradizione e falsa e vera.
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, →
a Dio per grazia piacque di spirarmi
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l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi, →
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
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che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
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mi stringe a seguitare alcuna giunta, →
perché tu veggi con quanta ragione →
si move contr’ al sacrosanto segno
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e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.
Vedi quanta virtù l’ha fatto degno → →
di reverenza; e cominciò da l’ora →
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che Pallante morì per darli regno.
Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora →
per trecento anni e oltre, infino al fine
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che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.
E sai ch’el fé dal mal de le Sabine →
al dolor di Lucrezia in sette regi,
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vincendo intorno le genti vicine.
Sai quel ch’el fé portato da li egregi →
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
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incontro a li altri principi e collegi; →
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro →
negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi →
48
ebber la fama che volontier mirro. →
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi �
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che di retro ad Anibale passaro
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l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott’ esso giovanetti trïunfaro →
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
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sotto ’l qual tu nascesti parve amaro. →
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle → →
redur lo mondo a suo modo sereno,
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Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
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e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna →
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
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che nol seguiteria lingua né penna.
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse →
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sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’ Ettore si cuba;
69
e mal per Tolomeo poscia si scosse. →
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
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ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé col baiulo seguente, →
Bruto con Cassio ne l’inferno latra, →
75
e Modena e Perugia fu dolente. →
Piangene ancor la trista Cleopatra, →
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
78
la morte prese subitana e atra.
Con costui corse infino al lito rubro; →