Paradiso (The Divine Comedy series Book 3)
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sì fatta, che le genti lì malvage
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commendan lei, ma non seguon la storia.” →
Così un sol calor di molte brage →
si fa sentir, come di molti amori
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usciva solo un suon di quella image.
Ond’ io appresso: “O perpetüi fiori →
de l’etterna letizia, che pur uno
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parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi, spirando, il gran digiuno → →
che lungamente m’ha tenuto in fame,
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non trovandoli in terra cibo alcuno.
Ben so io che, se ’n cielo altro reame →
la divina giustizia fa suo specchio,
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che ’l vostro non l’apprende con velame.
Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
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dubbio che m’è digiun cotanto vecchio.”
Quasi falcone ch’esce del cappello, →
move la testa e con l’ali si plaude, →
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voglia mostrando e faccendosi bello,
vid’ io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
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con canti quai si sa chi là sù gaude.
Poi cominciò: “Colui che volse il sesto → →
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
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distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
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non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa certo che ’l primo superbo, →
che fu la somma d’ogne creatura,
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per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
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che non ha fine e sé con sé misura.
Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi de la mente
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di che tutte le cose son ripiene,
non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
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molto di là da quel che l’è parvente.
Però ne la giustizia sempiterna →
la vista che riceve il vostro mondo,
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com’ occhio per lo mare, entro s’interna;
che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
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èli, ma cela lui l’esser profondo.
Lume non è, se non vien dal sereno →
che non si turba mai; anzi è tenèbra
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od ombra de la carne o suo veleno.
Assai t’è mo aperta la latebra →
che t’ascondeva la giustizia viva,
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di che facei question cotanto crebra; →
ché tu dicevi: ‘Un uom nasce a la riva → →
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
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di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
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sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna? →
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ov’ è la colpa sua, se ei non crede?’
Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, → →
per giudicar di lungi mille miglia
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con la veduta corta d’una spanna? →
Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse, →
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da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse! →
La prima volontà, ch’è da sé buona,
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da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. →
Cotanto è giusto quanto a lei consuona: →
nullo creato bene a sé la tira,
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ma essa, radïando, lui cagiona.”
Quale sovresso il nido si rigira →
poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
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e come quel ch’è pasto la rimira;
cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l’ali
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movea sospinte da tanti consigli. →
Roteando cantava, e dicea: “Quali →
son le mie note a te, che non le ’ntendi,
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tal è il giudicio etterno a voi mortali.”
Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno →
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che fé i Romani al mondo reverendi,
esso ricominciò: “A questo regno →
non salì mai chi non credette ’n Cristo, →
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né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’ →
che saranno in giudicio assai men prope
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a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe, →
quando si partiranno i due collegi, →
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l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.
Che poran dir li Perse a’ vostri regi, →
come vedranno quel volume aperto →
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nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? →
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto, → →
quella che tosto moverà la penna,
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per che ’l regno di Praga fia diserto.
Lì si vedrà il duol che sovra Senna →
induce, falseggiando la moneta, →
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quel che morrà di colpo di cotenna. →
Lì si vedrà la superbia ch’asseta, →
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
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sì che non può soffrir dentro a sua meta.
Vedrassi la lussuria e ’l viver molle →
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
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che mai valor non conobbe né volle.
Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme →
segnata con un i la sua bontate,
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quando ’l contrario segnerà un emme.
Vedrassi l’avarizia e la viltate →
di quei che guarda l’isola del foco,
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ove Anchise finì la lunga etate;
e a dare ad intender quanto è poco, → →
la sua scrittura fian lettere mozze,
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che noteranno molto in parvo loco.
E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia → →
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nazione e due corone han fatte bozze.
E quel di Portogallo e di Norvegia →
lì si conosceranno, e quel di Rascia
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che male ha visto il conio di Vinegia.
O beata Ungheria, se non si lascia → →
più malmenare! e beata Navarra,
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se s’armasse del monte che la fascia!
E creder de’ ciascun che già, per arra →
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,
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che dal fianco de l’altre non si scosta.” →
PARADISO XX
Quando colui che tutto ’l mondo alluma →
de l’emisperio nostro sì discende,
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che ’l giorno d’ogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui pr
ima s’accende,
subitamente si rifà parvente
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per molte luci, in che una risplende; →
e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’l segno del mondo e de’ suoi duci →
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nel benedetto rostro fu tacente;
però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
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da mia memoria labili e caduci.
O dolce amor che di riso t’ammanti, →
quanto parevi ardente in que’ flailli,
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ch’avieno spirto sol di pensier santi!
Poscia che i cari e lucidi lapilli →
ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
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puoser silenzio a li angelici squilli, →
udir mi parve un mormorar di fiume →
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
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mostrando l’ubertà del suo cacume.
E come suono al collo de la cetra →
prende sua forma, e sì com’ al pertugio
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de la sampogna vento che penètra,
così, rimosso d’aspettare indugio,
quel mormorar de l’aguglia salissi
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su per lo collo, come fosse bugio.
Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
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quali aspettava il core ov’ io le scrissi. →
“La parte in me che vede e pate il sole → →
ne l’aguglie mortali,” incominciommi,
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“or fisamente riguardar si vole,
perché d’i fuochi ond’ io figura fommi, →
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
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e’ di tutti lor gradi son li sommi.
Colui che luce in mezzo per pupilla, → →
fu il cantor de lo Spirito Santo,
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che l’arca traslatò di villa in villa:
ora conosce il merto del suo canto, →
in quanto effetto fu del suo consiglio,
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per lo remunerar ch’è altrettanto.
Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, →
colui che più al becco mi s’accosta,
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la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
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di questa dolce vita e de l’opposta. →
E quel che segue in la circunferenza →
di che ragiono, per l’arco superno,
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morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che ’l giudicio etterno →
non si trasmuta, quando degno preco
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fa crastino là giù de l’odïerno.
L’altro che segue, con le leggi e meco, →
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
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per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
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avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.
E quel che vedi ne l’arco declivo, →
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
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che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
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del suo fulgore il fa vedere ancora.
Chi crederebbe giù nel mondo errante →
che Rifëo Troiano in questo tondo
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fosse la quinta de le luci sante? →
Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
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ben che sua vista non discerna il fondo.”
Quale allodetta che ’n aere si spazia → →
prima cantando, e poi tace contenta
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de l’ultima dolcezza che la sazia,
tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio
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ciascuna cosa qual ell’ è diventa.
E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio → →
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
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tempo aspettar tacendo non patio,
ma de la bocca, “Che cose son queste?”
mi pinse con la forza del suo peso:
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per ch’io di coruscar vidi gran feste.
Poi appresso, con l’occhio più acceso, →
lo benedetto segno mi rispuose
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per non tenermi in ammirar sospeso:
“Io veggio che tu credi queste cose
perch’ io le dico, ma non vedi come;
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sì che, se son credute, sono ascose.
Fai come quei che la cosa per nome →
apprende ben, ma la sua quiditate →
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veder non può se altri non la prome. →
Regnum celorum vïolenza pate →
da caldo amore e da viva speranza,
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che vince la divina volontate:
non a guisa che l’omo a l’om sobranza, →
ma vince lei perché vuole esser vinta, →
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e, vinta, vince con sua beninanza.
La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
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la regïon de li angeli dipinta.
D’i corpi suoi non uscir, come credi, →
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
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quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.
Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede →
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
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e ciò di viva spene fu mercede: →
di viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
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sì che potesse sua voglia esser mossa.
L’anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
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credette in lui che potëa aiutarla;
e credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
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fu degna di venire a questo gioco.
L’altra, per grazia che da sì profonda →
fontana stilla, che mai creatura
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non pinse l’occhio infino a la prima onda,
tutto suo amor là giù pose a drittura: →
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
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l’occhio a la nostra redenzion futura;
ond’ ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
126
e riprendiene le genti perverse. →
Quelle tre donne li fur per battesmo →
che tu vedesti da la destra rota,
129
dinanzi al battezzar più d’un millesmo.
O predestinazion, quanto remota →
è la radice tua da quelli aspetti
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che la prima cagion non veggion tota!
E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo, →
135
non conosciamo ancor tutti li eletti;
ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
138
che quel che vole Iddio, e noi volemo.”
Così da quella imagine divina, →
per farmi chiara la mia corta vista,
141
data mi fu soave medicina. →
/>
E come a buon cantor buon citarista →
fa seguitar lo guizzo de la corda,
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in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,
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con le parole mover le fiammette.
PARADISO XXI
Già eran li occhi miei rifissi al volto →
de la mia donna, e l’animo con essi,
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e da ogne altro intento s’era tolto.
E quella non ridea; ma “S’io ridessi,”
mi cominciò, “tu ti faresti quale →
6
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende, →
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com’ hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
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sarebbe fronda che trono scoscende.
Noi sem levati al settimo splendore, →
che sotto ’l petto del Leone ardente
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raggia mo misto giù del suo valore.
Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, →
e fa di quelli specchi a la figura
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che ’n questo specchio ti sarà parvente.”
Qual savesse qual era la pastura → →
del viso mio ne l’aspetto beato
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quand’ io mi trasmutai ad altra cura,
conoscerebbe quanto m’era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,