Paradiso (The Divine Comedy series Book 3)
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mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.
Ma perché ’n terra per le vostre scole → → →
si legge che l’angelica natura
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è tal, che ’ntende e si ricorda e vole,
ancor dirò perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
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equivocando in sì fatta lettura. →
Queste sustanze, poi che fur gioconde
de la faccia di Dio, non volser viso
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da essa, da cui nulla si nasconde:
però non hanno vedere interciso →
da novo obietto, e però non bisogna
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rememorar per concetto diviso;
sì che là giù, non dormendo, si sogna, →
credendo e non credendo dicer vero;
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ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.
Voi non andate giù per un sentiero →
filosofando: tanto vi trasporta
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l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!
E ancor questo qua sù si comporta
con men disdegno che quando è posposta
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la divina Scrittura o quando è torta.
Non vi si pensa quanto sangue costa →
seminarla nel mondo e quanto piace
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chi umilmente con essa s’accosta.
Per apparer ciascun s’ingegna e face → →
sue invenzioni; e quelle son trascorse
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da’ predicanti e ’l Vangelio si tace.
Un dice che la luna si ritorse →
ne la passion di Cristo e s’interpuose,
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per che ’l lume del sol giù non si porse;
e mente, ché la luce si nascose →
da sé: però a li Spani e a l’Indi
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come a’ Giudei tale eclissi rispuose.
Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi → →
quante sì fatte favole per anno
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in pergamo si gridan quinci e quindi: →
sì che le pecorelle, che non sanno, →
tornan del pasco pasciute di vento,
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e non le scusa non veder lo danno.
Non disse Cristo al suo primo convento: →
‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
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ma diede lor verace fondamento; →
e quel tanto sonò ne le sue guance, →
sì ch’a pugnar per accender la fede
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de l’Evangelio fero scudo e lance.
Ora si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
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gonfia il cappuccio e più non si richiede. →
Ma tale uccel nel becchetto s’annida, →
che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe
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la perdonanza di ch’el si confida:
per cui tanta stoltezza in terra crebbe, →
che, sanza prova d’alcun testimonio,
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ad ogne promession si correrebbe.
Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio, →
e altri assai che sono ancor più porci,
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pagando di moneta sanza conio. →
Ma perché siam digressi assai, ritorci →
li occhi oramai verso la dritta strada,
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sì che la via col tempo si raccorci.
Questa natura sì oltre s’ingrada →
in numero, che mai non fu loquela
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né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela →
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
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determinato numero si cela.
La prima luce, che tutta la raia, →
per tanti modi in essa si recepe,
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quanti son li splendori a chi s’appaia.
Onde, però che a l’atto che concepe
segue l’affetto, d’amar la dolcezza
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diversamente in essa ferve e tepe.
Vedi l’eccelso omai e la larghezza →
de l’etterno valor, poscia che tanti
speculi fatti s’ha in che si spezza,
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uno manendo in sé come davanti.”
PARADISO XXX
Forse semilia miglia di lontano → →
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo →
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china già l’ombra quasi al letto piano, →
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, → →
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
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perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella →
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
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di vista in vista infino a la più bella. →
Non altrimenti il trïunfo che lude →
sempre dintorno al punto che mi vinse, →
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parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude, →
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
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nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice →
fosse conchiuso tutto in una loda, →
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poca sarebbe a fornir questa vice. →
La bellezza ch’io vidi si trasmoda →
non pur di là da noi, ma certo io credo
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che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo →
più che già mai da punto di suo tema
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soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema, →
così lo rimembrar del dolce riso
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la mente mia da me medesmo scema. →
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso → →
in questa vita, infino a questa vista,
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non m’è il seguire al mio cantar preciso; →
ma or convien che mio seguir desista →
più dietro a sua bellezza, poetando,
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come a l’ultimo suo ciascuno artista. →
Cotal qual io la lascio a maggior bando →
che quel de la mia tuba, che deduce
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l’ardüa sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: “Noi siamo usciti fore →
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del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: →
luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
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letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l’una e l’altra milizia →
di paradiso, e l’una in quelli aspetti →
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che tu vedrai a l’ultima giustizia.”
Come sùbito lampo che discetti →
li spiriti visivi, sì che priva
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da l’atto l’occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva, →
e lasciommi fasciato di tal velo
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del suo fulgor, che nulla m’appariva.
“Sempre l’amor che queta questo cielo →
accoglie in sé con sì fatta salute, →
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per far disposto a sua fiamma il candelo.”
Non fur più tosto dentro a me venute →
queste parole brievi, ch’io compresi
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me sormontar di sopr’ a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
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che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera → →
fulvido di fulgore, intra due rive → →
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dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive, →
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
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quasi rubin che oro circunscrive; →
poi, come inebrïate da li odori, →
riprofondavan sé nel miro gurge, →
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e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
“L’alto disio che mo t’infiamma e urge, →
d’aver notizia di ciò che tu vei,
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tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest’ acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi”:
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così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi →
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe →
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son di lor vero umbriferi prefazi. →
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
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che non hai viste ancor tanto superbe.”
Non è fantin che sì sùbito rua →
col volto verso il latte, se si svegli
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molto tardato da l’usanza sua
come fec’ io, per far migliori spegli →
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
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che si deriva perché vi s’immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
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di sua lunghezza divenuta tonda. →
Poi, come gente stata sotto larve, →
che pare altro che prima, se si sveste
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la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi → →
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ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi →
l’alto trïunfo del regno verace,
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dammi virtù a dir com’ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face → →
lo creatore a quella creatura
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che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura, →
in tanto che la sua circunferenza
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sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
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che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo →
si specchia, quasi per vedersi addorno,
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quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
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quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie →
sì grande lume, quanta è la larghezza
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di questa rosa ne l’estreme foglie! →
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza →
non si smarriva, ma tutto prendeva
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il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
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la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna, → →
che si digrada e dilata e redole →
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odor di lode al sol che sempre verna, →
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: “Mira
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quanto è ’l convento de le bianche stole! →
Vedi nostra città quant’ ella gira; → →
vedi li nostri scanni sì ripieni,
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che poca gente più ci si disira.
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni →
per la corona che già v’è sù posta, →
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prima che tu a queste nozze ceni, →
sederà l’alma, che fia giù agosta, →
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia →
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verrà in prima ch’ella sia disposta. →
La cieca cupidigia che v’ammalia → →
simili fatti v’ha al fantolino
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che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino → →
allora tal, che palese e coverto
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non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto →
nel santo officio: ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto, →
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e farà quel d’Alagna intrar più giuso.” →
PARADISO XXXI
In forma dunque di candida rosa → →
mi si mostrava la milizia santa →
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che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l’altra, che volando vede e canta →
la gloria di colui che la ’nnamora →
6
e la bontà che la fece cotanta,
sì come schiera d’ape che s’infiora → →
una fïata e una si ritorna
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là dove suo laboro s’insapora, →
nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
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là dove ’l süo amor sempre soggiorna. →
Le facce tutte avean di fiamma viva →
e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,
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che nulla neve a quel termine arriva.
Quando scendean nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de l’ardore →
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ch’elli acquistavan ventilando il fianco.
Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore →
di tanta moltitudine volante
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impediva la vista e lo splendore:
ché la luce divina è penetrante →
per l’universo secondo ch’è degno,
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sì che nulla le puote essere ostante.
Questo sicuro e gaudïoso regno, →
frequente in gente antica e in novella,
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viso e amore avea tutto ad un segno.
Oh trina luce che ’n unica stella →
scintillando a lor vista, sì li appaga!
30
guarda qua giuso a la nostra procella! →
Se i barbari, venendo da tal plaga →
che ciascun giorno d’Elice si cuopra, →
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rotante col suo figlio ond’ ella è vaga,
veggendo Roma e l’ardüa sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
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a le cose mortali andò di sopra;
ïo, che al divino da l’umano, →
a l’etterno dal tempo era venuto,
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e di Fiorenza in popol giusto e sano, →
di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e ’l gaudio mi facea
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libito non udire e starmi muto.
E quasi peregrin che si ricrea →
nel tempio del suo voto riguardando,
45
e spera già ridir com’ ello stea,
su per la viva luce passeggiando,
menava ïo li occhi per li gradi,
48
&nb
sp; mo sù, mo giù e mo recirculando. →
Vedëa visi a carità süadi, →
d’altrui lume fregiati e di suo riso,
51
e atti ornati di tutte onestadi. →
La forma general di paradiso →
già tutta mïo sguardo avea compresa,
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in nulla parte ancor fermato fiso;
e volgeami con voglia rïaccesa →
per domandar la mia donna di cose →
57
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendëa, e altro mi rispuose: →
credea veder Beatrice e vidi un sene →
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vestito con le genti glorïose.
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
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quale a tenero padre si convene. →
E “Ov’ è ella?” sùbito diss’ io. →
Ond’ elli: “A terminar lo tuo disiro →
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mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
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nel trono che suoi merti le sortiro.”
Sanza risponder, li occhi sù levai, →
e vidi lei che si facea corona →
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reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella regïon che più sù tona →
occhio mortale alcun tanto non dista,
75
qualunque in mare più giù s’abbandona,
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige →
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non discendëa a me per mezzo mista.