02 Hold Me. Qui
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Ringraziamenti
Copyright
Copertina
Frontespizio
Inizio del libro
Copyright
Il libro
Erede di una ricca dinastia, ogni fine settimana Zelda è costretta a tornare a casa dai genitori che, determinati a combinarle un matrimonio di convenienza, le presentano un pretendente dietro l’altro nella speranza che si sistemi con un rampollo dell’alta società. Finito il supplizio, torna a Pearley, dove studia e si diverte con gli amici. Tramite la sua compagna di corso e il ragazzo di lei, conosce Malik, che proviene da una numerosa famiglia afroamericana, affettuosa ma modesta, e che ha appena iniziato il tirocinio per diventare chef, la sua grande occasione dopo la detenzione in riformatorio.
Anche se è evidente che Malik non rientra per nulla nei canoni dei genitori, Zelda perde la testa per lui e la felicità che il ragazzo le dona fa passare in secondo piano ogni dubbio e preoccupazione. Con il trascorrere del tempo, però, i due si troveranno costretti a combattere contro tutto e tutti per realizzare i loro sogni e soprattutto per difendere il loro amore.
Con il secondo capitolo della sua trilogia bestseller, Kathinka Engel, grande promessa del New Adult, descrive con meravigliosa delicatezza le emozioni dell’amore, conquistando il cuore di ogni lettrice.
L’autrice
KATHINKA ENGEL vive tra Monaco e Londra, ed è laureata in Letterature Comparate. In passato, ha lavorato per un’agenzia letteraria, per una rivista letteraria, e come traduttrice e editor. Quando non scrive o legge, fa un tifo sfegatato per la sua squadra di calcio del cuore e viaggia con lo zaino in spalla.
kathinka-engel.de
Twitter: @KathinkaEngel
Instagram: @kathinka.engel
Kathinka Engel
Hold Me. Qui
Traduzione di Angela Ricci
1
Zelda
UNA parrucca bionda copre i miei capelli rosa brillante. Le lentiggini sono scomparse sotto uno spesso strato di fondotinta. Ho messo un sobrio smalto rosso scuro sulle unghie, e sulle labbra un rossetto in tinta. In realtà, la maggior parte del colore è finita su un dischetto struccante, per evitare di assomigliare troppo a una bambola. Cerco di ravvivare con un tocco di rosso il mio colorito pallido, ma tutte le volte che lo faccio mi sembra assurdo dover camuffare la mia carnagione naturale.
La donna che mi guarda dallo specchio non ha niente a che fare con la ragazza che ero solo venti minuti fa. Perfetto. Se con il trucco potessi coprire anche la mia personalità, per mia madre sarebbe un sogno che si avvera.
Apro con cautela la porta del bagno. Voglio evitare a tutti i costi che qualcuno dei miei coinquilini mi veda conciata in questo modo. Via libera, posso filarmela in camera mia. Trovo sul letto ad aspettarmi l’abito grigio scuro che mi è stato recapitato per posta un paio di giorni fa e che, probabilmente, costa un patrimonio. Il corpetto è di pizzo e mette in risalto la mia graziosa silhouette, mentre l’ampia gonna di tulle fa sembrare le mie gambe ancora più magre di quanto non siano.
Mi tolgo l’accappatoio, infilo l’abito dalla testa e me lo sistemo. Con la mano destra tiro su la cerniera sulla schiena più che posso, poi la afferro con la sinistra per chiuderla del tutto. Sarebbe molto più facile farmi aiutare da Leon o da Arush, ma questo look mi mette troppo in imbarazzo.
Infilo in borsa le scarpe scamosciate con il tacco, ovviamente in pendant, che sono arrivate insieme al vestito. Ogni minuto in cui posso evitare di maltrattare i miei piedi è un vero e proprio regalo. Mi metto le scarpe da ginnastica, una giacca nera, e sgattaiolo fuori da camera mia. Prendo le chiavi dalla credenza del corridoio e le butto in borsa, accanto alle scarpe. Sulla soglia lancio un saluto veloce: «Ciao ragazzi, a domani». Senza attendere una risposta, mi richiudo la porta alle spalle.
Da Pearley, dove frequento l’università, fino a Paloma Bay ci vuole un’ora di macchina. La casa dei miei genitori sorge alle spalle di questa idilliaca località marittima, in cima a una collina. Quando l’aria è limpida, da lì si può ammirare un meraviglioso panorama della baia, uno dei soggetti preferiti delle cartoline spedite ogni anno dalle centinaia di turisti che vengono qui da tutto il Paese.
Durante il viaggio in macchina rinuncio sempre alla musica, per mettermi nella giusta disposizione d’animo, ovvero provo a pensare al peggio che potrebbe accadere e immagino la situazione in tutti i suoi dettagli: un noioso bellimbusto con indosso un completo dal taglio perfetto che cerca di compiacere i miei genitori e, allo stesso tempo, di allungare le mani sotto il tavolo, dimostrandomi di non avere alcun rispetto per le donne in generale e per me in particolare. Adesso devo solo peggiorare un po’ questo quadretto, e saprò più o meno cosa mi aspetta.
Se non fossi economicamente dipendente dai miei genitori, e se loro non mi tenessero in pugno per questo, non mi presterei a simili farse. Ma l’istruzione costa, e il periodo degli studi è l’unica possibilità che mi rimane per essere me stessa. Perciò, praticamente ogni fine settimana permetto loro di relegarmi in questo ruolo umiliante, in cambio di un po’ di libertà.
Scelgo la strada che attraversa Paloma Bay, anche se quella che le passa accanto sarebbe in teoria la più rapida: arrivare in anticipo non è certo una delle mie priorità. E poi mi piace guidare nella cittadina in cui sono cresciuta, è come se qui le lancette dell’orologio si muovessero più lentamente. Se davvero esiste un posto dove il tempo si ferma, dev’essere Paloma Bay. Oltre ai moderni edifici di vetro degli hotel, con davanti una fila di limousine in attesa degli ospiti, ci sono soprattutto graziosi bar sulla spiaggia ed eleganti ristoranti di pesce, dalle cui terrazze, guardando oltre la strada fiancheggiata dalle palme, si riesce a scorgere il mare. Metà di essi, ovviamente, appartiene alla mia famiglia. La stagione non è ancora cominciata, ma qui, affacciati sul mare, la temperatura rimane piacevole tutto l’anno. Il lungomare però non è molto popolato e gli stabilimenti balneari – una delle invenzioni più stupide della storia – non hanno ancora aperto. Da queste parti solo i turisti sono così matti da pagare per farsi una nuotata in mare.
Poco prima della fine del paese, imbocco una stradina che si inerpica su per Paloma Hill. Qua e là si vedono delle imponenti ville in stile moderno, ma più si sale, più il paesaggio si fa solitario, fino a un massiccio cancello di ferro. Aspetto solo pochi istanti, poi i due battenti si aprono, come sospinti da una mano invisibile. In realtà so benissimo che è stato Rory, il nostro portiere.
Percorro lentamente il vialetto che conduce alla casa, che si staglia enorme e possente contro il blu scuro del cielo. La facciata bianca è illuminata, e anche dalla maggior parte delle finestre al pianterreno e al primo piano arriva una luce fredda. Davanti casa spengo il motore della Mini – un regalo dei miei genitori quando ho finito le superiori –, prendo le scarpe dalla borsa e, dalla comodità del
le sneaker, passo al non avere più circolazione nelle dita dei piedi. Poi scendo, con passo un po’ incerto. Miloš, l’autista dei miei genitori, si avvicina subito per prendere le chiavi e andare a parcheggiare.
«Buonasera, signorina Zelda», mi saluta. «Che bello vederla.»
«Zelda e basta, Miloš, ne abbiamo già parlato», lo correggo. «Come sta?»
«Bene, grazie», dice lui con un sorriso. «Però lei manca molto a tutti.»
«Anche voi mi mancate», rispondo, e sono assolutamente sincera. Il personale di casa è sempre stato un altro pezzo di famiglia, per me; sono gli esseri umani migliori che abbia mai conosciuto.
«Viene a fare un salto in cucina, più tardi?» chiede Miloš mentre gli do le chiavi.
«Se riesco a defilarmi, molto volentieri!» gli prometto. Non potrei mai affrontare questa serata senza prendere almeno un caffè con le uniche persone simpatiche di questa casa.
Mi avvicino all’imponente porta d’ingresso. Dopo soli tre passi sono costretta a fermarmi per sistemare la scarpa sinistra. Mi tengo in equilibrio sulla gamba destra, il che non è affatto facile, visto che implica sostenere tutto il peso del mio corpo su un tacco a spillo e su una punta microscopica. Non credo proprio che farò l’equilibrista in questa vita, poco ma sicuro.
Tutto a un tratto sento un’auto arrivare alle mie spalle. Provo a voltarmi, ma dimentico che il mio piede sinistro non ha ancora un appoggio saldo. Perdo l’equilibrio e devo appoggiarmi a una delle grandi colonne bianche che adornano l’ingresso. Ottimo, adesso il piede mi è scivolato anche dall’altra scarpa.
«Ehi, attenta», dice l’uomo al volante dell’auto, che ha appena aperto la portiera. Mi sorride. «Mi chiamo Philip Englander. E credo proprio di essere qui a causa tua.»
In un baleno mi rimetto le scarpe. «Ciao, io sono Zelda», dico.
Philip Englander si avvicina e mi stringe la mano. «Piacere di conoscerti.»
«Piacere mio», rispondo, tentando di limitare al minimo il tono ironico che si insinua automaticamente nella mia voce quando pronuncio frasi del genere. Se lo offendo già adesso, la serata diventerà veramente intollerabile.
Miloš torna per portare via l’auto di Philip. Mentre lui è occupato a dargli le chiavi, osservo il mio cavaliere di questa sera. Sembra carino, e anche intelligente, il che è una novità. Ha i capelli biondo-rossiccio, una barbetta curata e degli occhiali tondi. Al contrario degli altri giovani che i miei genitori hanno invitato negli scorsi weekend, non indossa un completo, ma dei pantaloni blu scuro, una camicia azzurra e un gilet grigio. Noto subito che è molto gentile con Miloš. Ho imparato che essere gentili con i domestici per molte persone non è affatto scontato, perciò rimango piacevolmente stupita quando Philip lo ringrazia.
«Bene», dice dopo che Miloš si è allontanato con la sua macchina, «apriamo le danze.» Poi mi fa l’occhiolino.
«L’hai detto», rispondo.
Nell’istante in cui sto per aprire la porta, qualcuno la spalanca dall’interno.
«Mi pareva di aver sentito qualcuno», squittisce mia madre con la sua vocina zuccherosa. Poi si gira verso l’interno della casa e grida: «L’avevo detto che erano loro». Infine, rivolta di nuovo a noi: «L’ho detto per tre volte ad Agnes che doveva venire a vedere, ma a quanto pare qui bisogna fare tutto da soli». Sorride ostentando un’aria afflitta.
«Mi perdoni, signora Redstone-Laurie», sentiamo dire ad Agnes, che probabilmente ha corso fin qui dalle cucine, dove ha già parecchio da fare. Quando arriva nell’atrio, l’accolgo con un sorriso.
«Posso prendere le giacche?» chiede a me e a Philip, e noi le porgiamo i nostri indumenti.
«Ha davvero una casa spettacolare, signora Redstone-Laurie», si complimenta Philip con mia madre. Si guarda intorno nell’atrio, che in effetti agli occhi di uno sconosciuto fa una certa impressione. Il pavimento è un mosaico di marmo rosso, bianco e verde, che ha al centro lo stemma di famiglia: un cervo rampante, circondato da vari ornamenti, tra cui un elmo da cavaliere che campeggia in cima. A sinistra e a destra delle scale che portano al piano di sopra, è appesa una galleria di ritratti dei nostri antenati, e dal soffitto pende un lampadario enorme, che di sicuro un giorno farà secco qualcuno cadendogli sulla testa.
«Andiamo a fare l’aperitivo in salotto», ci invita mia madre, «il signor Redstone-Laurie ci sta già aspettando.»
Mia madre ha la fastidiosissima abitudine di chiamare mio padre «il signor Redstone-Laurie» in presenza di altre persone. Io lo trovo terribilmente pretenzioso.
La seguiamo nel salotto. Philip mi cede il passo, da vero gentiluomo. Quando entriamo, mio padre si alza dal divano antico che lo scorso autunno i miei genitori hanno fatto ritappezzare con della seta turchese per un prezzo indecente. Porge la mano a Philip e gli dice, con la sua autoritaria voce baritonale: «Philip. Che piacere vederla. Incontro spesso suo padre al club. Lei non gioca a golf?»
Tipico di mio padre intimorire subito il suo interlocutore. Per esempio, con un rimprovero travestito da innocente domanda.
«No, signore. Lo studio non mi lascia molto tempo per dedicarmi agli hobby», risponde Philip, sottraendosi con eleganza alla trappola. Chapeau, Philip Englander.
Mio padre allora si volta verso di me. «Zelda!» Il suo tono suona un po’ più entusiasta di quanto lui non voglia, ne sono sicura. Ci baciamo sulle guance. La sua barba di tre giorni mi graffia la pelle come carta vetrata.
Mentre lui e Philip riprendono a scambiarsi cortesie, mia madre mi afferra per un braccio e mi tira da parte. «È una parrucca, questa?» sibila, dopo essersi assicurata che nessuno ci possa sentire.
«E allora?» dico alzando le spalle. «Non mi va di dovermi tingere i capelli tutte le volte che vengo da voi.»
«Spero per te che sia fissata bene. Dio non voglia che ti scivoli.»
Le sue unghie affondano dolorosamente nel mio braccio e il suo profumo dolciastro mi invade le narici. Mi costringo a sorridere e le scosto la mano. Non capisco quale sia il suo problema. La parrucca sembra vera, l’unica persona a cui dà fastidio sono io, che ho la cute in fiamme. Ma, ovviamente, lei deve farne per forza una questione di Stato. Io mi sto forse lamentando di problemi che non esistono? Non mi pare proprio, signora Redstone-Laurie. Tra circa quattro ore questa serata sarà finita e potrò andarmene a letto. E prima di colazione sarò già in viaggio verso casa. Mi volto con una piroetta, che spero risulti graziosa, e torno da mio padre e da Philip. E proprio al momento giusto.
«Gradite qualcosa da bere?» chiede Agnes, porgendoci un vassoio d’argento con dei calici di champagne.
Per un attimo osservo lo sguardo di Philip che si posa sul gigantesco ritratto di famiglia appeso sopra il caminetto. È un quadro davvero improbabile, ma i miei genitori ci hanno speso un patrimonio. Nella foto io ho undici anni e indosso un orribile abito giallo con un fiocco rosso, delle calze di pizzo e delle scarpe bianche di vernice. Mio padre ha l’aria di credersi il presidente in persona, mentre mia madre, sullo sfondo, è un miscuglio tra la mantenuta ingioiellata, la moglie orgogliosa e la madre amorevole.
Le labbra di Philip si curvano impercettibilmente quando distoglie gli occhi dal ritratto spostandoli su di me.
«A questa bella serata», esclama mio padre, mentre facciamo tintinnare i bicchieri e ci sediamo.
Sul tavolino basso – anche quello in stile antico – sono già pronti i sottobicchieri. Philip e io ci accomodiamo su un divano, i miei su quello di fronte.
«Suo padre mi ha detto che sta studiando Giurisprudenza», esordisce mio padre, dando il via all’interrogatorio.
«Esatto. Studio a Berkeley.»
«Notevole, notevole. Anche nostro figlio maggiore, Elijah, si è laureato lì, proprio in Giurisprudenza. E Sebastian la frequenta ancora. I professori sono molto bravi, non trova?»
«Certamente.»
«E quando prevede di laurearsi?» chiede mia madre.
«Se tutto va secondo i piani, l’anno prossimo. A quel punto potrò entrare nello studio di mio padre. L’obiettivo è diventare socio il prima possibile.»
Mando giù un’altr
a sorsata di champagne.
Questi discorsi sono tutti uguali. I miei genitori fanno domande a raffica al giovanotto seduto accanto a me, che fornisce una risposta soddisfacente. Questa serata non fa eccezione. Philip si differenzia dai suoi predecessori solo perché lo vedo meno infervorato. Le orecchie non gli sono diventate rosse, per esempio, ma sono rimaste di un colore normale.
«Avremmo voluto che anche Zelda si iscrivesse a Berkeley», prosegue mio padre, spostando la conversazione su un altro tema inevitabile: i miei fallimenti. «Ma lei aveva altre priorità e noi abbiamo assecondato il suo desiderio di dare un’occhiata a come funziona la vita della gente comune.»
Rimango seduta immobile: qualsiasi mio gesto, infatti, potrebbe essere interpretato come una reazione provocatoria. La mia lunga esperienza mi ha insegnato che in situazioni come questa la cosa migliore è fingersi morti. Ma dentro di me sento ribollire la rabbia. Mio padre è un maledetto ipocrita. Ricordo benissimo quanto ho dovuto lottare per strappargli il permesso di continuare a studiare, dopo i miei scarsi risultati alle superiori! Se non avessi promesso di restare vicino a casa e di impegnarmi per il mio «futuro» dopo l’università, probabilmente mi avrebbero costretta a sposarmi con qualche ricco rampollo. Il mio cuore accelera di colpo.
«E sai già in cosa vuoi specializzarti?» chiede Philip. È la prima volta che qualcuno si rivolge direttamente a me da quando ci siamo seduti.
Faccio un bel respiro e penso a qualcosa di appropriato da dire. Ma quando sto per aprire bocca…
«Finora non ha ancora trovato la cosa giusta», risponde mia madre al posto mio. «Vero, tesoro?»
«Impeccabile analisi, mamma», commento a bassa voce, sicura che la mia risposta non interessi a nessuno. Per l’ennesima volta torno a chiedermi se sia davvero così strano, a diciotto anni, non aver ancora programmato tutta la propria vita.
«Siamo molto felici che invece i fratelli di Zelda abbiano capito molto presto cosa volevano fare nella vita. E per fortuna le ragazze hanno meno pressioni, in questo senso. Certo, nessuno vuole una moglie senza istruzione, ma nemmeno una che si senta superiore a suo marito. Non è così?» chiede mia madre rivolta a mio padre. Lui annuisce e le accarezza la mano. Mi viene da vomitare.