02 Hold Me. Qui

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02 Hold Me. Qui Page 2

by Kathinka Engel


  Bevo un altro sorso di champagne. Il mio bicchiere è quasi vuoto, perciò mi volto a cercare la bottiglia. Purtroppo non la vedo da nessuna parte.

  Sotto la parrucca sento la testa sempre più bollente e ho la sensazione di soffocare per via di tutto il trucco che ho addosso. Ma forse è solo la gigantesca pesantezza di questa famiglia che mi schiaccia. Comunque sia, un altro goccetto non mi farà male.

  Come se mi avesse letto nel pensiero, Agnes si materializza accanto a me e mi riempie il bicchiere.

  «Grazie», sussurro prima di mandare giù una bella sorsata.

  Torno a concentrarmi sulla conversazione, mio padre sta illustrando a Philip i pro e i contro di una serie di investimenti. Mia madre sposta il suo sguardo rapito dall’uno all’altro, e annuisce zelante, sebbene non abbia la minima idea di cosa stiano dicendo.

  Quando finalmente il tintinnio leggero di un campanello annuncia che la cena è servita, mi sento sollevata.

  La tavola è apparecchiata a festa, come al solito. Candele bianche, fiori bianchi, tovaglioli bianchi che ciascun commensale si adagia in grembo. Mia madre è ossessionata dall’armonia cromatica. In sottofondo si sente della musica classica.

  Viene servita la prima portata, tartare di trota con insalata, accompagnata da un fenomenale vino bianco che conosco bene, e che va giù come l’acqua. È assolutamente impossibile sopravvivere a questa serata da sobria, ma devo stare attenta a non esagerare, come è successo altre volte. Ci sono già passata. Perciò durante l’antipasto mi sforzo di bere solo acqua.

  Mio padre e Philip sono passati a parlare di auto.

  «Io colleziono vecchi modelli», sta dicendo mio padre, «una passione che condivido con mio figlio minore. Ma da quando lui è andato a studiare alla Brown, sono rimasto solo io a curarmi del parco macchine.»

  Ovviamente, «curare il parco macchine» in questo caso significa «comprare nuove auto». Quanto vorrei potermi grattare la testa.

  La portata principale è filetto di vitello con verdure, e qui mi concedo un bicchiere di vino rosso. Ma solo uno, devo riuscire a mantenere intatta la mia maschera di indifferenza.

  «Visto che si parla di lui», dice mia madre, «Zachary ti manda i suoi saluti. Ha ottenuto un tirocinio molto ambito in una società di consulenze e passerà l’estate a lavorare lì.»

  «Buon per lui», replico a bocca piena. Non mi aspettavo che qualcuno mi rivolgesse la parola direttamente, questa sera, e per ben due volte. Oltretutto, come mio fratello ha deciso di passare la sua estate è decisamente in basso nella lista delle cose che mi interessano. Certo, sarebbe bello sapere cosa c’è in cima a questa benedetta lista. Come ha detto mia madre, non ho ancora trovato quello che fa per me, e vorrei tanto sapere se esiste davvero qualcosa per cui io abbia una vera passione. Altrimenti, come potrei mai dimostrare ai miei genitori che sono brava in qualcosa e che loro possono essere fieri di me, se non ho idea di cosa sia questo «qualcosa»? Certo, c’è anche da considerare che, se anche lo capissi, prima o poi dovrei abbandonarlo, perché a nessun marito piace una moglie che si sente superiore in qualcosa.

  Vero, mamma?

  Come dessert c’è un sorbetto ai frutti di bosco, e io so benissimo cosa sta per succedere. La scelta di questo dolce non è affatto casuale.

  «Nella nostra famiglia il sorbetto è un argomento molto discusso», inizia mia madre, e io alzo gli occhi al cielo. Ci siamo. Questo è uno dei suoi aneddoti preferiti, sono sicura che continui a servire il sorbetto solo per avere a disposizione un argomento di conversazione in cui si sente sicura di quel che dice. «Zachary, Sebastian e io riteniamo che sia il dessert perfetto dopo un pasto sostanzioso, mentre il nostro maggiore, Elijah, e Zelda ritengono che del succo di frutta congelato non possa neanche considerarsi un dessert», esclama, ridendo.

  Decido di fare un favore a mia madre e intervengo nella conversazione. «Secondo me, se ci si dà la pena di servire un dessert, dovrebbe essere il coronamento della cena. Una crème brûlée, una mousse al cioccolato, una cheesecake… certo non un sorbetto!»

  La risata di mia madre si fa ancora più acuta. Da qualche parte, probabilmente, un vaso di cristallo è appena andato in frantumi. «Vede, Philip, è un argomento molto spinoso… lei che ne pensa?»

  Lui si schiarisce la gola, si pulisce la bocca con il tovagliolo e lo posa sul tavolo. «Be’, questo era un sorbetto davvero eccellente.»

  Mia madre sposta il suo sguardo trionfante da Philip a me.

  «Del vino per chiudere il pasto?» chiede mio padre, imbarazzato quanto me da questo teatrino.

  «Volentieri, signore», risponde Philip, lasciandosi riempire il bicchiere da mio padre. «Dopo questa meravigliosa cena mi piacerebbe prendere un po’ d’aria. Per caso ti va di mostrarmi il giardino, Zelda?»

  «Che idea splendida», cinguetta mia madre, che probabilmente sente già risuonare nelle orecchie la marcia nuziale.

  So già come andrà a finire. Lui cercherà di palparmi e io gli mollerò un ceffone. Lui sarà in imbarazzo. A me farà male la mano.

  Mi alzo e gli faccio cenno di seguirmi. Porto con me il bicchiere di vino.

  Arrivata sulla terrazza, prendo un bel respiro. L’aria della notte ha un buon profumo di primavera e di vita. Sembra quasi che sappia di tutto quello che mi sto perdendo.

  «Ti va di fare due passi?» chiede Philip, come se non sapessi a cosa mira. Lontano dalle finestre illuminate della casa non ci vedrà nessuno. In realtà dovrei essere contenta. Un altro candidato di cui mi libererò presto.

  Scendiamo le scale della terrazza e io mi tolgo le scarpe. Non voglio rovinarle sull’erba umida. Mi piacerebbe anche saltellare un po’ qua e là, ma non è appropriato per una signorina del mio rango. Non lo era già dodici anni fa, e di certo non lo è adesso. Mi volto per vedere se Philip mi sta seguendo.

  È rimasto un po’ indietro ad ammirare la parte posteriore della casa, che sembra risplendere incorniciata dal cielo notturno.

  «Mi sento un po’ intimidito da tanta imponenza.»

  «Ti capisco.»

  Per un po’ passeggiamo in silenzio, uno accanto all’altra. Non ho voglia di alzare lo sguardo e, magari, dovergli spiegare cosa rappresentano le sculture che mia madre compra per noia e piazza qua e là in tutto il giardino. Sento l’erba umida tra le dita dei piedi, una sensazione di fresco che mi placa un po’. Andiamo verso una panchina di pietra seminascosta dagli alberi, a sinistra dell’edificio principale. Prima Philip cerca di infilarmi la lingua in bocca, prima finirà questa serata.

  Mi siedo, e lui prende posto accanto a me.

  «Allora», dice, «quanto spesso devi sottoporti a questi tentativi di accoppiamento?»

  I suoi modi diretti mi sorprendono. Non dovremmo fingere che sia un caso essere qui insieme stasera? Questo va decisamente contro l’etichetta.

  «Quasi ogni fine settimana», rispondo.

  «Wow, ce la stanno mettendo tutta, eh?»

  Sospiro. «A quanto pare.»

  «Non fraintendere, ti prego, ma io non mi sento pronto a sposarmi.»

  Alzo lo sguardo e lo fisso nei suoi occhi. Sta sorridendo. «Per me va benissimo», rispondo, «perché di certo nemmeno io sono pronta.»

  «Bene, sono contento che abbiamo chiarito le cose. In verità, sono dell’opinione che prima ci si dovrebbe almeno conoscere un po’.» Ridacchia. «Per esempio, mi piacerebbe sapere se prima tua madre ti ha davvero chiesto se porti una parrucca», dice tirandomi lievemente una ciocca di capelli.

  «Ah, sì, me l’ha chiesto», rispondo. Quindi ha sentito tutto. «Sotto questi capelli biondi, e sotto tutto questo trucco, sono letteralmente l’incubo dei miei genitori.»

  Philip ride. «E come sarebbe questo incubo?»

  Mi tolgo lentamente la parrucca e i miei capelli rosa spuntano fuori.

  «Wow!» esclama Philip. «A dir la verità mi piaci di più così. Prima avevi un’aria un po’ spenta.»

  «Oh, grazie per il complimento, signor parliamo-di-investimenti-e-di-quando-entrerò-nello-studio-di-mio-padre! Quand’è che prevedi di diventare socio, scusa?»

  «Forse avrei do
vuto dire che dopo la laurea voglio fare il giro del mondo a piedi nudi.»

  Nella penombra intravedo il suo sorrisetto ironico.

  «Probabilmente sarebbe stato meglio per entrambi.»

  «Probabilmente.»

  Restiamo seduti un altro po’, in silenzio. Poi Philip riprende: «E comunque anche secondo me il sorbetto non è un dessert. Se proprio voglio un frullato di frutta, mi compro una centrifuga».

  Quando ci salutiamo, dopo che mia madre ha controllato per la terza volta se ci siamo scambiati i numeri di telefono, Philip mi bisbiglia all’orecchio: «Mi ha fatto piacere conoscerti, anche se non ci sposeremo».

  Poi mi abbraccia e mi rendo conto che sono contenta di aver incontrato una persona capace di sorprendermi. E di non doverla sposare per forza.

  2

  Malik

  È DOMENICA mattina e, quando apro la porta del Mal’s Café, non c’è molto movimento. È troppo presto, le persone stanno ancora smaltendo la sbornia della sera prima.

  «Meno male che sei arrivato! Mi salvi il culo!» mi saluta Rhys, il mio coinquilino, che sta sistemando delle tazze dietro al bancone.

  «Non c’è problema, vecchio mio. Da dove comincio?»

  Rhys mi ha buttato giù dal letto mezz’ora fa, perché sia il cuoco sia il panettiere che lavorano al bar si sono dati malati, perciò non c’è niente per colazione, né muffin, né torta. Di domenica è una piccola catastrofe, e quindi mi ha chiesto di venire in suo aiuto. Mi sento onorato che abbia pensato subito a me, significa che è convinto delle mie capacità. È proprio il genere di incoraggiamento di cui ho bisogno. E poi, mi fa molto comodo poter guadagnare qualche soldo extra, e distrarmi fino al pomeriggio con il lavoro in cucina, senza indugiare in dubbi e nervosismi. Domani, infatti, comincio il tirocinio per diventare cuoco in un hotel extralusso. Per me è un passo importante, significa lasciarmi alle spalle la mia comfort zone ed entrare in un mondo che non conosco. Un mondo più ricco, che ha poco a che vedere con quello da cui vengo io. Anche se, ovviamente, ci entrerò solo da servitore.

  «Non agitarti, in frigo c’è ancora una torta di carote e qualche cupcake, con cui dovremmo poter resistere per un po’.»

  «Cosa ti serve, per prima cosa?» chiedo a Rhys.

  «Muffin. Al cioccolato e ai lamponi. E poi Che mi ha mandato la ricetta per la cheesecake alle fragole.» Rhys mi porge il suo cellulare, sullo schermo vedo la foto sfocata di un foglietto con sopra degli appunti scritti a mano.

  «Quella so farla anche senza ricetta. Per che ora è previsto il panico della colazione?»

  «Diciamo che a partire dalle nove cominciano ad arrivare le prime ordinazioni. Ma, se siamo fortunati, potrebbe volerci un po’ di più.»

  Seguo Rhys in cucina. Mentre la sala aperta al pubblico è immersa in una luce calda e un’atmosfera confortevole, con mobili di legno, riviste, libri, quadri incorniciati alle pareti, qui il materiale dominante è l’acciaio lucido. Passo una mano sulla superficie del banco di lavoro. È piacevolmente fredda.

  «In realtà, non so bene com’è organizzato qui dentro», dice Rhys, «ma negli armadi dovresti trovare tutto quello che ti serve.» Apre un paio di ante, tanto per farmi vedere che si sta impegnando, e poi le richiude.

  «Non preoccuparti, me la cavo.» Mi basta qualche occhiata per prendere le misure di questa cucina. Non è molto grande. I fornelli hanno l’aria di aver visto giorni migliori, ma di fronte c’è un forno nuovo di zecca, incassato nella struttura di metallo ad altezza occhi. A sinistra della finestra, invece, si trova un gigantesco frigorifero, e gli scaffali accanto sono pieni di roba da mangiare.

  «Grazie ancora per essere venuto. So che è il tuo ultimo giorno di libertà e probabilmente avevi di meglio da fare.»

  «Ah, non ci pensare. Sono felice di potermi distrarre.» Do a Rhys una pacca sulla spalla. Lui non è solo il mio coinquilino, è diventato anche il mio migliore amico, l’unico bianco. Non lo lascerei mai nei pasticci. «Adesso sparisci, così posso mettermi a lavorare.» Lo spingo verso la porta.

  «Fammi sapere se ti serve una mano. Che ha detto che possiamo chiamarlo.»

  Quando Rhys esce dalla cucina, faccio un respiro profondo, batto le mani e le sfrego tra loro, pregustando il momento. Poi apro gli armadi e tiro fuori ciotole, mixer, misurini, tutto quello che serve per fare dei muffin, dopodiché mi dedico agli ingredienti. Non conosco molto bene Che, il cuoco del Mal’s Café, ma non avrei mai pensato che la sua cucina potesse essere così ordinata e ben organizzata. Mi è sempre sembrato un tipo piuttosto caotico. Per fortuna mi sbagliavo, trovo subito ciò che mi serve.

  Per prima cosa preparo l’impasto. Mentre cerco il cioccolato fondente trovo un paio di peperoncini rossi e mi viene un’idea. Non so quanto i clienti di questo bar siano inclini alle sperimentazioni, ma magari qualcuno potrebbe aver voglia di provare qualcosa di nuovo.

  Dispongo sulla teglia i pirottini di carta per i muffin e comincio a riempirli di impasto. Una metà sono classici al cioccolato, agli altri invece ho aggiunto un po’ di peperoncino. Non dovrebbero risultare troppo piccanti, ma solo lasciare un piacevole retrogusto in bocca. Infilo tutto in forno e imposto i gradi e il timer. Saranno pronti tra venti minuti.

  Mi dedico, quindi, a quelli al lampone, i preferiti della mia sorellina Jasmine. Per lei i lamponi nell’impasto non sono mai abbastanza, ma c’è da considerare il rischio che rilascino troppo liquido. Il segreto è trovare il punto di equilibrio perfetto tra un muffin troppo pastoso e uno troppo secco, ma fortunatamente è una cosa che so fare a occhi chiusi. Tra l’altro, anch’io sono dell’idea che non si debba essere troppo avari con i lamponi.

  Il forno è ancora occupato dai muffin al cioccolato, perciò nell’attesa mi do da fare con la cheesecake alle fragole. La base si fa in un attimo, basta mescolare briciole di biscotti e burro sciolto, e nel ripieno aggiungo delle fragole fresche.

  «Malik», sento la voce di Rhys, che si è appena affacciato dalla porta. «Mi serve un bagel con salmone e formaggio fresco e un sandwich al tonno, grazie.»

  «Arrivano», rispondo.

  Il timer del forno comincia a suonare, e io lo spengo. I muffin che tiro fuori hanno decisamente un bell’aspetto. Infilo quelli al lampone e riprogrammo il forno – questa volta aggiungo cinque minuti al tempo di cottura –, quindi mi dedico all’ordinazione di Rhys.

  Lavoro senza interruzioni, è un flusso in cui ogni movimento ha un senso. È questo che mi piace del cucinare, niente accade per caso, e niente di quello che si fa è inutile. Il risultato finale è che la gente non è solo sazia, ma anche felice.

  Con una mano faccio cuocere i pancake in padella, con l’altra sbatto le uova, e nel giro di qualche minuto la seconda infornata di muffin è pronta. Poi arriva il turno della cheesecake di farsi un giro in forno.

  Lavorare in cucina mi fa lo stesso effetto della meditazione. Ho le mani così occupate che al mio cervello non resta altro che dare loro ordini e seguire quello che fanno. Il mio corpo è in completa armonia con l’ambiente che lo circonda. In cucina, il multitasking assomiglia quasi a una danza, solo che qui, invece del ritmo, sono i diversi passaggi e movimenti di una ricetta a determinare il risultato.

  E così le ore passano, una dopo l’altra. Preparo bagel, friggo uova, abbrustolisco fette di pane e spalmo crema di avocado. Aggiungo spezie, assaggio, affetto, taglio a dadini, spremo. E non appena ho un minuto libero, ricomincio.

  «Ehi Malik», grida infine Rhys, affacciandosi di nuovo in cucina. «Sono le due, ho ritirato i menu della colazione, puoi rilassarti.»

  Mi volto verso di lui e alzo i pollici, poi mi asciugo le mani sul grembiule bianco.

  «Grazie, vecchio mio, ci voleva proprio.»

  A dir la verità, non mi sono nemmeno accorto di quanto siano state frenetiche le ultime ore. Adesso che ho un momento per respirare, però, mi rendo conto di essere sfinito.

  «Togliti il grembiule e vieni di qua, ti faccio un caffè», dice Rhys.

  Annuisco, grato. Mi serve proprio una bella dose di caffeina.

  Mi lavo le mani e il viso ed entro nella sala. Tre dei tavolini
sono occupati, tutti hanno da mangiare. Il mio lavoro è finito.

  Passo in rassegna la sala una seconda volta e noto due ragazze sedute a uno dei tavoli. Nello stesso istante, una di loro alza la testa e mi vede.

  «Malik», mi chiama, «che bello vederti!» È Tamsin, la ragazza di Rhys, uno dei motivi, e non da poco, per i quali lui oggi se la passa così bene. La sua è una delle storie più incredibili che abbia mai sentito. Si è fatto sei anni di prigione, da innocente. Quando è tornato in libertà, ci ha messo mesi per riabituarsi al mondo. So bene come dev’essersi sentito, perché anche io ho un passato nel carcere minorile di Pearley, ma la mia unica giustificazione per essere finito lì è l’avventatezza giovanile e il colore della mia pelle, che non è molto ben visto da certe istituzioni. Però, al contrario di Rhys, non ho dovuto passare tutta l’adolescenza dietro le sbarre.

  Tamsin si avvicina e mi abbraccia. Devo chinarmi su di lei, perché è un po’ più bassa di me, o meglio, io sono un bel po’ più alto di lei. Sono quasi due metri, quindi mi capita spesso di essere il più alto.

  «Ti siedi con noi?», mi chiede.

  Rhys mi porge una tazza di caffè caldo e io seguo Tamsin al tavolo. Mi basta vedere la nuca della ragazza rimasta seduta per capire che si tratta di Zelda, la sua amica. Ha i capelli rosa shocking, perciò si riconosce al volo.

  «Ti ricordi di Zelda, vero?» chiede Tamsin, mentre la sua amica si volta. Che domanda! Come se fosse possibile dimenticarla. Per la verità, l’ho vista soltanto una volta, ma già al nostro primo incontro sono rimasto colpito dalla sua disinvoltura, dalla sua vivacità e dal suo senso dell’umorismo così particolare. È spiritosa, ma in un modo davvero unico e inconsueto. Ed è molto carina, con le lentiggini e gli occhi luminosi e impertinenti.

  «Ciao, Malik», dice lei. «Come va?»

 

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