02 Hold Me. Qui

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02 Hold Me. Qui Page 3

by Kathinka Engel


  «Benissimo. E tu?»

  «Sono di pessimo umore.»

  «Meglio non chiedere», mi suggerisce Tamsin, e scoppia a ridere.

  «Che è successo?» decido di domandarle, senza badare all’avvertimento.

  «Non ho avuto il dessert», risponde Zelda, sporgendo in fuori il labbro inferiore, per simulare un’espressione triste. «E sento che la mia vita è condizionata.»

  «Be’… sono due ottimi motivi per essere di cattivo umore. Ma da cosa ti senti condizionata?» le chiedo con un sorriso.

  «Dalla pubblicità, dal determinismo… scegli tu.» Alza gli occhi al cielo, esasperata. «Ma la cosa peggiore è non avere il dessert.»

  «A questo possiamo rimediare», propongo. «Cosa ti va? Muffin al cioccolato e peperoncino? Cheesecake? Muffin ai lamponi?»

  «Posso averli tutti quanti?» chiede lei. «Garçon», chiama schioccando le dita in direzione di Rhys. «Vorrei qualsiasi cosa abbiate in menu che contenga dello zucchero, per favore.» Poi, rivolta a me, prosegue: «Forse c’è ancora modo di raddrizzare questa giornata e il mio umore».

  Dopo qualche minuto, Rhys arriva con i muffin e la cheesecake. «Chi ha ordinato cosa?»

  «È tutto mio», risponde Zelda, prendendo i piatti che Rhys ha posato, uno dopo l’altro, al centro del tavolo.

  «Impressionante», commenta lui, prendendo una sedia. Gli altri clienti hanno appena pagato e se ne stanno andando, perciò non ha niente da fare.

  Zelda comincia a ingurgitare la cheesecake e l’espressione del suo viso si fa progressivamente più allegra.

  «Mmm, era proprio quello che mi serviva. Niente dessert, roba da matti! Li hai fatti tu, Malik?»

  «Ho deciso di impiegare così la mia mattinata.»

  «Che dovrebbe ammalarsi più spesso», considera Zelda.

  «Non dire così», si intromette Rhys. «Comunque, da domani Malik non sarà più disponibile, perciò niente più cheesecake quando Che sta male.»

  «Domani comincio il tirocinio per diventare chef», spiego, non senza una punta di orgoglio nella voce.

  «Allora sei la persona giusta», dice Zelda. Quando nota il mio sguardo perplesso, aggiunge: «Per rispondere a uno dei più grandi interrogativi della vita: il sorbetto può considerarsi un dessert, oppure no?»

  La sua domanda mi lascia sconcertato, come del resto quasi tutto di lei. È come se la sua testa saltasse continuamente da un pensiero all’altro. Chissà quanto è faticoso essere come lei. Una cosa è certa: con Zelda non ci si annoia, l’ho capito già al nostro primo incontro.

  «Direi che il sorbetto è un ottimo digestivo per persone dallo stomaco microscopico», rispondo.

  «Esatto! Potresti mettermelo per iscritto, per favore?»

  Il suo entusiasmo mi pare genuino, anche se non ho ben capito per quale motivo le mie parole l’abbiano resa così euforica. Mi porge un foglietto strappato da un taccuino e una penna.

  Il sottoscritto Malik Capela ritiene che il sorbetto sia al massimo un digestivo, scrivo, poi aggiungo firma e data, piego il foglio e lo restituisco a Zelda. Lei legge quello che ho scritto e annuisce soddisfatta.

  «Ti ringrazio, Malik Capela, esperto di sorbetti. Mi hai resa molto felice.» Poi addenta il muffin al cioccolato e chiude gli occhi mentre mastica. «Ha un sapore incredibile.»

  Sorrido tra me e me, i suoi complimenti rafforzano la mia convinzione di aver imboccato la strada giusta con il tirocinio che inizierò domani.

  * * *

  «Adesso tocca a me, adesso tocca a me!» grida Esther, tirandomi per una mano. Avevo promesso ai miei genitori di portare i miei fratellini al parco e, anche se sono parecchio stanco dopo sei ore al bar, non mi andava di annullare. Loro due hanno proprio bisogno di stare un po’ da soli e i bambini sono contenti quando li porto a fare qualcosa. E anche io.

  «No, tu ci sei stata di più!» Ellie mi si aggrappa ai capelli, come se avesse paura di essere lanciata all’improvviso giù dalle mie spalle.

  «Fino al prossimo incrocio, poi facciamo cambio. Così siete pari», dico, sperando di evitare un litigio. Esther però tiene il broncio e si rifiuta di proseguire. Ha incrociato le braccia davanti al petto e sporge in fuori il labbro inferiore. Ma non è divertente come quando lo ha fatto Zelda per finta, poco fa.

  «Ehi, Theo, puoi prendere per mano tua sorella?» chiedo a mio fratello, di otto anni, che è rimasto un po’ indietro perché, come al solito, sta sognando a occhi aperti. «E puoi anche darti una mossa? Guarda quanto sono andate avanti Ebony e Jasmine!»

  Theo, che avanza battendo un bastone sul marciapiede, alza lo sguardo e corre verso di noi per colmare la distanza che si è creata. Prende la mano di Esther, ma lei scuote la testa e si volta.

  «Ehi, non fare la bambina piccola», la rimprovero. «Ci vuoi andare o no al parco?»

  A quel punto, Theo cinge Esther con le braccia e la solleva. È troppo pesante per lui, ma riesce a trasportarla per un paio di metri. Anche se «trasportare» non è esattamente la parola giusta, più che altro la trascina. Esther strilla, ma adesso i suoi sono gridolini divertiti.

  Quando arriviamo all’incrocio, metto giù Ellie con cautela e mi carico Esther sulle spalle. Tra le due quella più ragionevole è senz’altro la prima, che cammina senza protestare per l’ultimo centinaio di metri fino al parco. Da casa dei miei genitori, tutto sommato, è abbastanza vicino, ma non è così semplice se devi portarti dietro due bambine di due anni e uno di otto. Al ritorno mi occuperò di Ebony, che ha cinque anni ed è più facile da gestire. Alle gemelle ci penserà Jasmine.

  Da qualche mese il parco è diventato la principale attrazione del quartiere. L’ha costruito un’associazione che si occupa del benessere pubblico, grazie ad alcune donazioni. Volevano dare ai bambini della zona sud di Pearley – o Poorley, come viene chiamata – un posto per giocare che disponesse di un’attrezzatura migliore rispetto a vecchi scatoloni ammuffiti e bidoni ammaccati. Prima, per giocare, c’era al massimo qualche cortile malandato, così sporco e invaso dai topi che davvero non c’era da stupirsi che nessuno, in questo quartiere, avesse delle prospettive. E nemmeno che metà dei ragazzi che vivono qui sia stata in galera, o abbia buone possibilità di finirci. Chissà per quanto tempo questo parco rimarrà così curato e in buone condizioni. Di sera è già diventato un punto di ritrovo per spacciatori. Mamma mi ha raccontato che, un paio di settimane fa, Esther ha trovato una siringa in mezzo alla sabbia.

  Le gemelle corrono subito alla giostra, dove Ebony ha già preso posto.

  «Ci spingi?» chiede Ellie al fratello maggiore. Theo si è fermato di nuovo, qualcosa lo ha distratto dal suo obiettivo. Adesso però sembra ricordarsi dove si trova, e ovviamente si mette a spingere le sue sorelline.

  Io mi siedo su una panchina accanto a Jasmine.

  «Bah», sospiro, «al ritorno te le becchi tu le gemelle.»

  «Scordatelo», replica lei, mentre digita qualcosa sul cellulare. «Dalla prossima settimana rimarrò da sola con loro.»

  Il pensiero di domani mi fa sorridere. È l’inizio di una nuova vita, il primo passo verso il mio sogno. Il posto me l’ha trovato Amy, la mia assistente sociale. Ho cominciato a cucinare quando ero dentro, senza la cucina della prigione probabilmente ora non sarei qui seduto accanto a mia sorella, sorridente.

  «Sei agitato?» chiede Jasmine.

  «Un po’. Ma in senso buono.»

  «Avrai pochissimo tempo libero, vero? Non passerai più a trovarci così spesso.»

  Allungo un braccio intorno alle spalle della mia sorellina quindicenne. Jasmine e io ci siamo sempre capiti al volo, e da quando sono uscito lei conta molto su di me. E io su di lei. Voglio bene a tutti i miei fratelli, e a volte mi intristisce il pensiero di aver passato così poco tempo con loro. Ma, proprio per questo, è importante che adesso faccia la cosa giusta. Devo trovarmi un lavoro vero. Una routine, come la chiama Amy. E ho intenzione di fare tutto quello che lei mi dice, per non sprecare altro tempo.

  «Verrò tutte le volte che potrò.» Ovviamente Jasmine ha ragione. Tra il lavoro e il viaggio in macchina le mie visite saranno di sicuro più rare
.

  «Vorrei che tornassi a vivere da noi, almeno così potremmo vederci quando rientri a casa.» Jasmine appoggia la testa alla mia spalla.

  Mentre ero in prigione, le gemelle si sono spostate in camera di Theo, dove prima dormivo anch’io, perciò non c’è più spazio per me. Ebony e Jasmine erano in camera insieme già da prima.

  «Quindi posso dormire nel letto con te? O pensi di liberarmi un po’ di spazio sul pavimento? In realtà, sono abbastanza contento di avere una camera tutta per me adesso.»

  «Anche a me piacerebbe avere una stanza mia. Forse dovrei rapinare un benzinaio anch’io.»

  Mi sale il sangue alla testa quando sento quelle parole. Per l’amor del cielo. «Dillo un’altra volta…» Dalla mia voce trapela il panico. La mia paura più grande è che qualcuno dei miei fratelli possa cacciarsi negli stessi guai in cui sono finito io. Spero che il mio esempio li abbia spaventati a sufficienza. «E poi lo sai che non ho veramente rapinato un benzinaio», sibilo tra i denti.

  «Dai, calmati, stavo scherzando.»

  «Non mi piace che si scherzi su questo. Soprattutto davanti ai piccoli. Davvero, Jas, è importante.»

  «Okay, va bene.»

  Vedo che si vergogna di aver detto una cosa così stupida, ma deve capire che le sue parole potrebbero avere delle conseguenze.

  «Sono stato fortunato a entrare nel programma di Amy e ad avere una seconda occasione. Le sono veramente grato. Ogni secondo che ho passato in galera è stato un secondo di troppo. Ho imparato la lezione. E spero che l’abbiate imparata anche voi. Tenetevi alla larga dalla gente che vi tira in mezzo in situazioni di quel genere.»

  Davanti ai miei occhi si materializza l’immagine di mio cugino Darius e dei suoi amici, Andre e Xavier, aspiranti gangster implicati in faccende di droga, o peggio. Modelli da evitare. Se l’avessi saputo allora, quando ero solo uno stupido adolescente, avrei risparmiato a me e alla mia famiglia un sacco di dolore.

  Fisso Jasmine negli occhi e lei distoglie lo sguardo. Non mi piace la sua reazione.

  «Sembri papà. Non metterti a fare l’adulto, adesso, la mia era solo una battuta.»

  Sì, forse era solo una battuta, ma non mi fa ridere. E potrebbe anche aver ragione, magari non sono poi così maturo come credo di essere. Ma il punto è che, da quando sono uscito, non mi permetto più di indugiare sui sentimenti negativi. Mi sono lasciato alle spalle una volta per tutte la nebbia scura che mi ha soffocato e quasi annientato, dopo il mio secondo arresto.

  «Io sono un adulto», ricordo a mia sorella, seppure con un leggero tremito nella voce, e le do un leggero scappellotto sulla nuca. La conversazione è finita, lo so. E so anche che lei ha capito che non mi ha affatto divertito.

  Torniamo a casa dei miei genitori e Jasmine porta le gemelle a letto. Sulla via del ritorno non hanno fatto altro che lamentarsi e poi si sono quasi addormentate davanti ai loro panini, sul tavolo della cucina. Non hanno avuto neanche la forza di lamentarsi perché la mamma non aveva tolto la crosta alle fette di pane.

  I miei sono accoccolati uno accanto all’altra sul divano. Mi siedo di fronte a loro su una vecchia poltrona rivestita di velluto.

  «Grazie di aver portato fuori i piccoli», dice mia madre, «avevamo proprio bisogno di un po’ di tranquillità.»

  Papà le dà un bacio sulla testa. Stanno insieme dai tempi del liceo. Mamma aveva diciassette anni quando è rimasta incinta di me e si sono sposati un paio di mesi dopo. Sono passati quasi ventun anni e sembrano ancora felici come il primo giorno.

  «Hai tutto quello che ti serve per domani?» chiede papà.

  «Credo di sì.» Ho lo stomaco annodato per l’agitazione e la felicità.

  «Sono sicuro che ce la farai senza problemi. Sono fiero di quello che sei diventato, figliolo», continua lui.

  «Adesso non esagerare. Non ho esattamente un passato esemplare alle spalle.»

  Mi gratto la nuca, un po’ imbarazzato. So che i miei genitori hanno sofferto tanto a causa mia, quindi sto cercando di essere la versione migliore possibile di me stesso. Uno che non manda tutto in malora e non spreca le occasioni che gli si presentano. Non potrei sopportare di vedere di nuovo mia madre piangere a causa mia, o mio padre guardarmi deluso. Le facce dei miei genitori mentre venivo portato via per la seconda volta da una macchina della polizia sono impresse nella mia memoria. Mai più. Non farò mai più niente del genere alla mia famiglia.

  «Sai che non ti abbiamo mai rimproverato nulla, Malik. E non lo faremo mai. Qualsiasi cosa tu faccia, sarai sempre nostro figlio», dice mamma.

  Deglutisco a fatica, sento un groppo in gola. Non abbiamo mai parlato apertamente delle cose che sono andate storte nella mia vita.

  «Ti sei trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato», insiste lei. «Eri solo un ragazzino.»

  Anche se fosse, so benissimo che avrei dovuto mollare quell’idiota di Darius e gli altri nel momento in cui hanno tirato fuori l’idea di rapinare il benzinaio. Ero solo un ragazzino, ma sapevo che era una cosa sbagliata. Eppure, credevo che aspettare in macchina mio cugino per consentirgli di scappare fosse un po’ come fare un piacere alla mia famiglia. Almeno non ho partecipato direttamente alla rapina. Darius è ancora dentro.

  «La seconda volta è stata una stupidaggine», commenta papà, e scoppia a ridere.

  La seconda volta. Si riferisce al furto nel negozio. Era il compleanno di Jasmine e io volevo esaudire uno dei suoi più grandi desideri, solo che non avevo soldi. È come se per un attimo il mio cervello si fosse spento: mi sono infilato la piastra per capelli sotto il maglione. E ho passato un altro anno nel carcere minorile di Pearley, per violazione della condizionale. Un afroamericano che viene da una famiglia povera non può permettersi certe cose. «Stupidaggine», quindi, forse non è il termine esatto.

  «Ma sei un bravo figlio, Malik. Ricordatelo.»

  «Vi siete fumati qualcosa?» chiedo, cercando di dissimulare con una risatina il tremito nella mia voce.

  In quel momento, scendono dal piano di sopra Ebony e Theo, in pigiama, per augurare la buonanotte strofinandosi gli occhi.

  «Oggi resti qui, Malik?» chiede Ebony con la sua vocetta acuta di bambina. Le tre treccine che le ha fatto Jasmine le sporgono dalla testa, formando angoli perfetti di novanta gradi.

  «No, tesorino. Stanotte devo fare una bella dormita, così sarò pronto per andare a lavorare.»

  «Okay», risponde lei, arrampicandosi sulle mie ginocchia. Poi si accoccola tra le mie braccia e chiude gli occhi.

  Theo si siede vicino ai nostri genitori e si avvolge in una coperta. I bambini vengono spesso a dormire sul divano mentre noi chiacchieriamo, più tardi papà li porterà a letto. Stringo tra le braccia il minuscolo corpicino di Ebony, che profuma di sicurezza e di famiglia. Nel giro di poco il suo respiro si fa regolare.

  Arriva anche Jasmine, che si prende una limonata dalla cucina e si siede per terra davanti a me. Appoggia la testa alla mia gamba e apre la lattina con un sibilo.

  «Le gemelle si sono addormentate di nuovo nel mio letto», dice. «Vorrei proprio avere una stanza tutta mia. Se avessi il permesso di…»

  Papà la interrompe, questa è una conversazione che Jasmine e i miei genitori hanno affrontato fin troppe volte questa settimana. «Non se ne parla. Devi finire la scuola, dopodiché puoi andare a lavorare dove vuoi. Anche in quel centro estetico, se ti va. Ma, finché saremo responsabili per te, continuerai ad andare a scuola.»

  I nostri genitori non sono particolarmente severi, ma su questo non transigono. Per fortuna. A volte vorrei che mi avessero lasciato meno libertà, anche se non ho nessuna intenzione di rimproverarglielo. Però, quando ho cominciato a stare sempre di meno a casa dopo la scuola, a uscire con Darius, Andre e Xavier e ad atteggiarmi a gangster, forse avrebbero dovuto preoccuparsi un po’ di più. Ogni tanto mi chiedo se le cose sarebbero andate diversamente.

  Jasmine sbuffa, infastidita. «Non è giusto.»

  «La vita non è sempre giusta», replica mia madre.

  Trattengo una risata, per non svegliare Ebony.

  Sono questi i momenti che mi sono mancati di p
iù, mentre ero in prigione, e che d’ora in poi non voglio perdermi. Vedere mio fratello e le mie sorelle crescere, essere parte della famiglia, ecco cosa è importante per me. Voglio che mi considerino sempre il loro allegro fratellone. E che, grazie al mio esempio, sappiano che possono fare qualsiasi cosa nella vita. È per loro che voglio diventare qualcuno.

  3

  Zelda

  DOPO aver passato il weekend a interrogarmi su questioni cruciali come: Devo sposare quello sconosciuto? e Il sorbetto è un dessert? (risposte: No e No), oggi sono in biblioteca da circa due ore a scrivere un saggio di filosofia morale. O meglio: sono in biblioteca e dovrei scrivere un saggio, ma i miei pensieri continuano a scivolare via. L’ultima frase l’ho scritta circa venti minuti fa, e quando l’ho riletta mi sono accorta che fa davvero schifo. Ma non la cancello, così almeno potrò dire di aver fatto qualcosa.

  Non che trovi poco interessante il corso di filosofia, anzi, tutto il contrario. Però, più mi addentro nelle vicende dei filosofi e delle correnti, più la mia passione per la materia cala. Mi succede così con tutto, non c’è niente che mantenga vivo il mio entusiasmo. A volte penso che sia colpa mia. Forse sono troppo superficiale? O troppo pigra? Certe altre sono certa che dipenda dai miei fratelli, loro sono così impegnati ad avere successo che io, di riflesso, tendo a fare esattamente il contrario. Altre volte ancora penso che i veri responsabili siano i miei genitori, perché so benissimo che, se anche trovassi qualcosa che mi interessa davvero, presto dovrei abbandonarlo. Ma forse è solo il mio cervello pazzo che si rifiuta di restare fermo su un argomento e salta da un pensiero all’altro. Alla fine, credo che sia un miscuglio di tutti questi fattori.

  «Ehi», mi sussurra qualcuno all’orecchio.

  Quando mi volto, vedo Tamsin che mi guarda.

  «Ehi!» Il mio umore migliora all’istante. È impossibile vedere Tamsin e non sorridere, ha un viso che rende felici le persone all’istante.

  «Ti va di uscire un po’ con me? C’è bel tempo e ho un’ora libera.»

  «Tanto qui non sto combinando nulla», sussurro, chiudendo il computer.

 

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