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02 Hold Me. Qui

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by Kathinka Engel


  «Sst», si sente sibilare dall’ingresso. Il tipo dietro il bancone prende il suo lavoro un po’ troppo sul serio. In fondo, anche lui è entusiasta di quello che fa… anche se si tratta solo di mantenere il silenzio in biblioteca.

  Sul prato dell’università gli studenti sono seduti da soli o in piccoli gruppi sotto ai platani e ai pini, e bevono caffè dai bicchierini di carta. È bello studiare qui a Pearley, mi piace l’atmosfera studentesca, i pub e i bar del quartiere universitario. Il campus è un ambiente vivace e gli edifici sono imponenti e solenni quanto basta, in particolare quello principale, che ospita la biblioteca da cui io e Tamsin siamo appena uscite. È una costruzione di mattoni rossi con due torri squadrate sui lati e fregi bianchi che decorano tutta la facciata. Alle sue spalle si estende il campus vero e proprio, con edifici più moderni ma sempre di mattoni, in modo da mantenere una certa armonia concettuale.

  Ci sediamo sull’erba.

  «Allora? Hai superato il trauma di sabato?» mi chiede Tamsin. Le ho raccontato cos’hanno architettato i miei genitori, perché almeno in lei ho un’alleata.

  «I dolci di Malik hanno fatto un miracolo», dico.

  «È incredibile come reagisci a certe situazioni. Io non riuscirei a scherzarci su.»

  «Non ho molta scelta. Almeno, non finché non avrò dimostrato ai miei che posso essere qualcosa di più che una brava moglie. E poi chiudermi in casa a piangere abbracciata a un cuscino non è nel mio stile.»

  «Pensi che ti lascerebbero in pace se avessi lo stesso successo dei tuoi fratelli?»

  Alzo le spalle. «È la mia unica possibilità, non credi? A parte tagliare i ponti con loro ed essere costretta a mollare gli studi. Non potrei mai permettermi le tasse universitarie.» Dopo una breve pausa aggiungo: «E poi, non so se ce la farei a sparire così. A non avere più una famiglia».

  Tamsin annuisce e per qualche minuto restiamo in silenzio.

  «Non riesci ad andare avanti con il saggio?» chiede poi.

  «Non me ne parlare. Se c’è qualcosa di più triste dei matrimoni combinati è la mia incapacità di entusiasmarmi per qualcosa. Tu hai la letteratura, Malik la cucina… Rhys almeno ha te.» So che non è una cosa carina da dire, ma devo sfogarmi. «Scusa, non volevo.»

  «Non ti preoccupare. E poi è vero. Lui ha me. E in due è tutto più facile.»

  Annuisco e mi mordicchio il labbro inferiore. «Ecco un buon motivo per gioire all’idea del matrimonio.»

  Tamsin mi cinge le spalle con un braccio e mi tira a sé.

  «Andrà tutto bene. So che è facile a dirsi, ma da qualche parte ci sarà pure un tizio ricco che fa al caso tuo.»

  Scoppio a ridere. «E poi potrei sempre scoprire una passione segreta per gli origami!»

  «O per la pittura su stoffa. O per qualsiasi altra cosa. Dimmi un po’», prosegue, tornando seria, «hai un appuntamento al buio anche questo weekend o ti prendi una pausa?»

  «I miei genitori sono invitati a un matrimonio. Bingo! Staranno tutta la settimana alle Hawaii. La settimana dopo, invece, mi toccherà andare a un evento di beneficenza organizzato da mia madre, che vuole ‘presentarmi qualcuno’.» Le faccio l’occhiolino. «Hai capito, no? Ma perché me lo chiedi?»

  «Rhys e io vorremmo andare fuori città. Abbiamo affittato una casetta. Dopo l’agitazione delle ultime settimane, penso che ci farà bene mollare tutto per un paio di giorni, non credi?»

  Annuisco. Dio solo sa quanto sono state complicate le ultime settimane. Rhys ha scoperto che sua madre, che non vedeva da anni, è morta; poi è andato a prendere la sua sorellina di dieci anni, Jeannie, ma senza dire nulla al padre di lei, che in ogni caso è un criminale, perciò tutti avevano paura che potessero arrestarlo per sequestro di minore. Per fortuna la sua assistente sociale, Amy, è riuscita a ottenere la custodia temporanea di Jeannie, che ora vive con lei.

  «Ve lo siete meritato», dico. «Ci sono novità dal padre di Jeannie?»

  «No, quello stronzo non si è fatto vivo neanche una volta. Se le cose restano così, ci sono buone possibilità che il giudice decida a favore di Amy.»

  «Lei è proprio forte», commento con una certa ammirazione. «Prendersi cura in questo modo di una bambina sconosciuta non è da tutti.»

  «Per niente», risponde Tamsin. «Non conosco nessuno che sia capace di aiutare gli altri con la naturalezza con cui lo fa lei. Per quanto possa crearle problemi.»

  «Speriamo non troppi.»

  «Per il momento fila tutto liscio, anche per questo Amy ha detto che non c’è problema se vogliamo partire per il weekend.»

  «Torniamo al punto», dico sorridendo.

  «Ecco, penso che farebbe bene anche a te distrarti un po’. Ti va di venire?»

  «Wow, Tamsin, è molto carino da parte tua. Ma non voglio rovinare la vostra fuga romantica.» Sono commossa che abbia pensato a me, ma non voglio fare da terzo incomodo.

  «Non c’è problema, viene anche Malik. Voglio far divertire un po’ Rhys, non passare un intero weekend da soli a guardarci negli occhi e a scambiarci stupide romanticherie.»

  Scoppio a ridere. «Se vuoi possiamo fare dei turni, in questo caso ci sto. Ho sempre voluto sussurrare stupide romanticherie a Rhys. Ha delle preferenze? Complimenti classici o battute audaci?»

  «Non ci provare!» esclama Tamsin, ma sta sorridendo. «Allora, ci stai?»

  «Certo!» Sono felicissima. «È proprio quello che mi ci vuole.»

  Un’ora dopo sono seduta a lezione di fondamenti di economia aziendale, e mi annoio a morte. La conversazione con Tamsin è stata l’apice della mia giornata. Mastico la matita, guardo fuori dalla finestra e spero che queste due ore passino più veloci del solito. Il professore è uno di quei tipi tutti grigi – dentro e fuori, ne sono sicura – e ha appena cominciato a sproloquiare sull’equilibrio di mercato.

  «L’equilibrio di mercato ha origine dal rapporto tra domanda e offerta. Più il prezzo si abbassa, più il numero dei compratori sale; più il prezzo si alza, più il numero dei compratori scende. Allo stesso tempo, a un prezzo più basso corrisponde, in genere, anche un minor numero di offerte mentre, come tutti sanno, nel caso di prezzi alti è vero il contrario: il totale delle offerte sale.»

  Sento le palpebre farsi pesanti, tento di prendere appunti, ma a parte un paio di parole chiave come «equilibrio» e «prezzo di mercato», il mio foglio resta bianco. Sono sicura al novantanove per cento che, qualunque sia la mia passione, non è l’economia. Ma nell’improbabile ipotesi che lo fosse, di certo non me ne accorgerei grazie a questa lezione.

  Mi guardo intorno. Gli altri studenti sono tutti impegnati a prendere appunti. Forse è il caso di diventare amica di qualcuno da cui copiarli, prima dell’esame finale.

  Tutto a un tratto sento una gran confusione intorno a me, e mi risveglio dalla trance. La lezione, a quanto pare, è finita. Raccolgo le mie cose e mi avvio verso la prossima. Per fortuna è l’ultima, oggi pomeriggio ho ancora un po’ di tempo da dedicare al saggio.

  Il seminario di scienze politiche è tutto il contrario della lezione di economia. L’insegnante è una giovane donna, molto motivata, che ci ha chiesto di chiamarla semplicemente Miranda e si aspetta che partecipiamo attivamente alla lezione. Più il dibattito si fa acceso, meglio è, ha detto. Un paio di volte mi sono lanciata anche io in mezzo a una discussione, senza quasi rendermene conto. Alcuni dei miei compagni fanno commenti così arroganti che proprio non riesco a tenere la bocca chiusa. Dicono cose che prima d’ora ho sentito solo dai miei genitori o dai miei fratelli, stupidaggini che tengono conto degli interessi dei singoli e nascono dalla paura per tutto ciò che è diverso. È una sorta di miracolo che anch’io non sia rimasta prigioniera di simili opinioni, e per questo devo ringraziare soprattutto la mia insegnante di inglese delle medie. Rimase solo per un semestre, poi il comitato dei genitori la mandò via. Ma le sue lezioni ci aprirono un mondo, imparai che avere dei privilegi significa anche avere delle responsabilità, che i pregiudizi sono, appunto, pre-giudizi e non corrispondono necessariamente alla verità, e che la gentilezza e la sincerità, anche se praticate su scala individuale, re
ndono il mondo un posto migliore.

  Quando entro in aula, tutti gli altri sono già arrivati; io vengo dall’edificio principale e devo attraversare il campus, perciò, se la lezione precedente dura qualche minuto in più, arrivo sempre un po’ in ritardo. Ma Miranda lo sa e per lei non è un problema.

  Mi siedo senza far rumore sull’unica sedia rimasta libera, a un’estremità del tavolo posizionato al centro della stanza. Faccio per prendere il mio quaderno, quando un tizio antipatico di nome Jason riprende a parlare: «Quello che stavo dicendo, prima che Zelda ci interrompesse, è che certamente la politica deve occuparsi di tutti, ma il problema è che certe persone sono troppo stupide per capire quali sono le cose importanti».

  «E, quindi, quale sarebbe la tua idea?» chiede Miranda.

  «Il punto è che non sono in molti ad avere le capacità intellettuali per decidere cosa è giusto. Del resto, la pianificazione famigliare non viene certo affidata ai bambini. Perciò io credo che la cosa migliore sia affidare il potere esclusivamente alle persone sufficientemente intelligenti.»

  Non riesco a credere alle mie orecchie. «Come, scusa?» chiedo con tono indignato. «Quindi, secondo te, i cittadini maggiorenni sono come dei bambini e sarebbe giusto togliere loro il diritto di esprimere un’opinione politica? In pratica, vuoi abbattere il sistema democratico?» Mi sto accalorando, la sua presunzione mi disgusta.

  «Sarebbe così terribile?» risponde lui, con aria compiaciuta. Alcuni miei compagni scuotono impercettibilmente la testa.

  Miranda mi lancia uno sguardo incoraggiante. «Sì, ovviamente lo è. A parte il fatto che mi pare un’idea piuttosto arrogante, dove porresti il limite? A chi daresti il potere di stabilirlo? Chi non ha finito le scuole superiori rimane automaticamente fuori? O vorresti costringere tutti gli americani a sottoporsi a un test di intelligenza?»

  «Questa non sarebbe una cattiva idea», concede Jason.

  Tutta questa idiozia rischia di farmi scoppiare la testa. «Non so se ne sei al corrente», dico, «ma misurare l’intelligenza è un po’ più complicato che misurare peso o altezza.»

  Qualcuno ride, uno batte le mani ed esclama: «Esatto!»

  «Prima di tutto devi definire cos’è l’intelligenza», riprendo. «I test del quoziente intellettivo coprono solo alcuni campi. O vuoi negare che esista l’intelligenza creativa, o quella emotiva?»

  «No, ovviamente andrebbero misurate anche quelle», dice Jason, adesso però a voce un po’ più bassa.

  «E lo sai che ci si può allenare per risolvere i test del quoziente intellettivo?» chiedo per infliggergli il colpo finale. «Più ne fai, più risulti ‘intelligente’, anche se in realtà non è cambiato nulla. Non mi pare un sistema molto affidabile.»

  «E va bene, magari il test di intelligenza non è la soluzione migliore», ammette lui.

  «Non esiste una soluzione per quello che proponi», insisto. Ormai ci ho preso gusto. «Hai presente di quante persone cattive si dice che fossero intelligentissime? Io non vorrei mai che la loro opinione avesse più peso di quella di una madre single, che non si è potuta permettere un’istruzione superiore perché ha dovuto cominciare a occuparsi della sua famiglia a sedici anni. Anzi, nel dubbio, mi fiderei di più delle sue decisioni!»

  «Amen!» esclama una ragazza seduta accanto a me.

  «Diciamo che Jason deve riflettere un po’ di più sulla sua proposta», commenta Miranda, facendomi l’occhiolino.

  Sorrido. Prima la prospettiva di un weekend con gli amici, adesso la vittoria su Jason… oggi poteva decisamente andarmi peggio!

  4

  Malik

  «SOUS-CHEF, commis de cuisine, chef de partie, demi-chef de partie, saucier, gardemanger, hors d’oeuvier, entremetier, légumier, poissonnier…» Per ognuna di queste definizioni, la ragazza che mi sta facendo fare il giro delle cucine – e di cui ho già dimenticato il nome insieme a quello di tutti gli altri – mi indica una persona vestita di bianco intenta a lavorare in piedi davanti al bancone d’acciaio. Man mano che vengono nominati, i diretti interessati alzano brevemente la testa e sollevano una mano per salutare, dopodiché tornano ai loro compiti.

  C’è un sacco di confusione. Tra l’acqua che bolle, i sibili, i coperchi che sbattono, le grida e le imprecazioni mi riesce difficile farmi un’idea generale di questo posto. La temperatura dev’essere vicina al punto di ebollizione, sulla mia fronte si materializzano immediatamente delle goccioline di sudore. La prima impressione è che sia un gran casino. Ma poi sento gli odori intensi, freschi, diversi. Un miscuglio di vino rosso, sedano, cipolla e un sacco di altri ingredienti che non riesco a identificare. Mi viene l’acquolina in bocca.

  Sono l’unico afroamericano che lavora qui, e probabilmente l’unico che non parla francese. Mi vengono elencati un sacco di nomi durante il giro di presentazioni, ma il mio non viene mai pronunciato. Non mi piace essere escluso in questo modo, la trovo una mancanza di rispetto. La sensazione di essere fuori luogo è soverchiante, ma so bene che non ho altra scelta. Devo trovare il modo di farcela.

  «All’inizio sarai alle dipendenze di Alec, il légumier», mi informa la ragazza.

  Alec, un tipo magro sulla quarantina, mi fa un cenno con il capo. «Coltello, tagliere, carote», dice, indicando il piano di lavoro già preparato. «Tagliare alla brunoise.»

  Un’altra incomprensibile parola francese. Un ragazzo cicciottello con le guance rosee che sta pelando delle patate davanti a me alza lo sguardo e nota la mia espressione perplessa.

  Quando Alec si volta, mi sussurra: «Brunoise vuol dire che devi tagliarle a dadini piccoli, massimo due millimetri.»

  Annuisco. «Grazie.»

  «Non c’è di che. Ci vuole un po’ per imparare il francese da cucina. Io, comunque, sono Lenny», aggiunge.

  «Malik», mi presento. «Sei qui da tanto?»

  «Un paio di mesi.»

  «Parlare meno, lavorare di più», ci rimprovera Alec, e io mi metto subito a pelare la montagna di carote che ho davanti.

  È un lavoro estenuante, ma voglio farlo al meglio. Piano piano perdo la cognizione del tempo, lavoro concentratissimo e cerco di essere veloce, ma allo stesso tempo di tagliare le carote con precisione.

  «Carote brunoise?» grida un tizio che credo si chiami Clément, il sous-chef.

  «Arrivano», rispondo, raccogliendo con la mano i dadini sul tagliere e versandoli in una ciotola. Clément si avvicina.

  «Ehi, ragazzo nuovo, sei lento», commenta, infilando la mano nella ciotola che gli porgo. «E queste cosa sarebbero? Carote in polvere? Che ci devo fare?»

  «Brunoise?» dico con voce un po’ incerta.

  «Esatto, dovevi farle alla brunoise, non ridurle in polvere, idiota. Qualcuno può far vedere al ragazzo nuovo come si taglia en brunoise?» grida Clément al di sopra della confusione generale. Poi butta la ciotola sul pavimento, senza battere ciglio. Rimango impietrito. «Forza, rifalle.»

  «Mi dispiace, pensavo…» Mi chino a raccogliere con le mani i resti delle carote.

  «Non interessa a nessuno. Adesso forza, vedi di sbrigarti. Non credo tu voglia confermare quello che già penso di te.» Dà un calcio alla ciotola di metallo con la punta della scarpa e se ne va con fare teatrale.

  Non è certo la prima volta che qualcuno mi tratta in maniera così sgradevole, sarebbe eccessivo dire che ci sono abituato, ma non è niente di nuovo per me. Eppure, sento un fremito in tutto il corpo, e le guance che avvampano. Avrei una gran voglia di prendere a pugni qualcosa. Ma mando giù l’orgoglio e proseguo.

  Mentre rimetto i dadini di carote nella ciotola li tasto con le dita. Sono piccoli, è vero, ma non sono certo polvere.

  «Ehi», dice una voce accanto a me. È Lenny, che è accorso in mio aiuto. «Non ci fare caso, si comporta così con tutti. Ritagliale e basta. Non hai fatto niente di male, è che a lui piace umiliare le persone.»

  «Grazie per il consiglio.» Tento di tirare fuori un sorriso.

  Lui prende una manciata di carote. «Tra l’altro, secondo me sono perfette», dice a bassa voce.

  Sospiro e rovescio il contenuto della ciotola nella
spazzatura, poi mi procuro un’altra montagna di carote, le pelo e ricomincio a tagliarle perfettamente en brunoise.

  Quando Alec viene da me e Lenny per annunciare che il turno è finito e che possiamo tornarcene a casa, vorrei fare i salti di gioia, ma con i piedi gonfi e la schiena indolenzita riesco a malapena a muovermi. Il piano di lavoro è troppo basso per la mia altezza, perciò devo stare sempre chinato, e mi sono venute le vesciche alle mani per tutte le verdure che ho tagliato. Solo quando poggio il coltello mi rendo conto che mi fanno male. Ma non voglio che gli altri se ne accorgano, stringerò i denti, costi quel che costi. E un giorno comincerò a imparare qualcosa, stando qui dentro: devo solo resistere finché non vedranno che faccio sul serio.

  Seguo Lenny nello spogliatoio.

  «Sei sopravvissuto al primo giorno», si complimenta lui, «fammi un po’ vedere le mani.»

  Gli mostro i palmi.

  «Wow, niente male! Ma non preoccuparti, è normale all’inizio. Le vesciche devono scoppiare un paio di volte e poi si formeranno i calli. Stai solo attento che non succeda mentre lavori.»

  Deglutisco e osservo le mie ferite.

  «La cosa migliore è inciderle a casa, disinfettarle e poi avvolgere le dita con del nastro adesivo telato, abbastanza elastico da permetterti di lavorare.»

  «Grazie per il consiglio.»

  Sono così stanco che riesco a malapena a parlare. Devo elaborare tutto quello che è successo oggi, per tornare ad avere delle reazioni da persona normale.

  Recuperiamo le nostre cose dagli armadietti e usciamo dalla porta di servizio. L’hotel è un edificio imponente che si affaccia direttamente sul lungomare di questa località marittima da cartolina. L’ingresso è incorniciato da siepi di bosso accuratamente potate e una fila di limousine nere attende i clienti sul vialetto. L’esterno è un tripudio di eleganza e modernità. Chissà quanto costa tenere pulita una vetrata così grande… Probabilmente il Fairmont Hotel ha un esercito di lavavetri. E scommetto che anche quelli hanno dei nomi francesi.

  Nel parcheggio dei dipendenti, nascosto da alcune siepi a destra dell’edificio, saluto Lenny davanti alla sua macchina.

 

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