02 Hold Me. Qui
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«Questo non l’avevo previsto», dice, prendendomi il volto tra le mani e guardandomi negli occhi. «Neanche lontanamente.» Mi bacia sulla fronte.
«Nemmeno io», ammetto. È come se avessi il cervello avvolto nell’ovatta, ma poi l’eccitazione spensierata che mi ha colta quando eravamo sul divano riprende piede. Vengo invasa da una sensazione di felicità mai provata prima, un calore che va molto oltre il semplice sentirmi a mio agio. La vicinanza di Malik provoca in me qualcosa a cui non so dare un nome. Ha ragione lui, non ci sono parole.
Ci accoccoliamo uno vicino all’altra sotto le coperte, mi rannicchio comodamente nel suo braccio, poso la testa sulla sua spalla e inspiro il suo profumo, che è penetrante e sconosciuto, eccitante. Sento le sue labbra sui miei capelli e chiudo gli occhi.
«Sono agitata», dico, anche se in realtà non vorrei farglielo sapere.
«Perché?»
«Be’… perché…» Non concludo la frase.
«Non dobbiamo fare niente che tu non voglia», mi rassicura lui stringendomi ancora di più a sé.
«Ah, no, non intendevo quello.»
«E allora che volevi dire?»
«Be’, è difficile da spiegare.»
«Provaci.»
«Sono un po’… perplessa», mi volto in modo da poter guardare direttamente il suo viso sorridente. «Sei riuscito a fare completo silenzio nella mia testa.»
«Ed è una cosa buona?» Sulla fronte di Malik si forma una ruga.
«È una bella sensazione. Tranquillizzante. Giusta.»
«Allora sono contento.»
«Nella mia testa c’è silenzio, ma nel mio corpo sta succedendo di tutto.»
«Vale anche per me.»
«Me ne sono accorta», dico rivolgendogli un sorrisetto impertinente.
«Questa volta ero io che intendevo qualcos’altro», risponde lui. «Il fatto che tu mi ecciti dal punto di vista fisico non è particolarmente sorprendente.» Mi punzecchia il braccio con le dita.
«Ah no?» chiedo, fingendo di essere stupita. In verità non sto poi tanto fingendo, ma meglio lasciargli credere che sentire affermazioni del genere per me sia normale: sono sdraiata a letto accanto a un ragazzo bellissimo e sto cercando di conquistarlo, perciò non può certo fare male mostrarmi sicura di me.
«No, affatto», dice Malik, accarezzandomi tutto il corpo.
All’improvviso non mi basta più starmene sdraiata qui. Mi alzo lentamente e mi siedo sopra di lui, poi mi chino e poso le labbra sulle sue. Le nostre lingue si trovano, si accarezzano, e io tremo di eccitazione. La morbidezza delle sue labbra mi avvolge e lui mi attira in un abbraccio così stretto da farmi quasi ansimare di desiderio. Percepisco di nuovo qualcosa che si è svegliato tra le sue gambe e, senza interrompere il nostro bacio, non posso fare a meno di ridere. Lui potrà anche non essere sorpreso, ma io sono completamente spiazzata dall’effetto che i miei baci evidentemente hanno su di lui. D’altro canto, la sua vicinanza eccita anche me, in un modo mai provato prima. Però sono abbastanza abituata al fatto che il mio cervello faccia cose inaspettate.
Sento di nuovo un fremito in tutto il corpo, come se avessi una colonia di formiche che si agita nelle mie vene. Dentro di me il desiderio cresce sempre di più, così come il pulsare tra le mie gambe. Voglio essergli ancora più vicina. Il più possibile.
«Ce li hai dei preservativi?»
«Oh certo, per fortuna avevo previsto di finire a letto con te», dice Malik con una risata profonda e roca. «No, non ce li ho. Ma mi sento onorato che tu me l’abbia chiesto.»
Sospiro. Forse è meglio così. Forse è un bene aver riacceso per un attimo il cervello, prima di andare a letto con il coinquilino del fidanzato della mia migliore amica. D’altra parte…
«Secondo te Rhys e Tamsin dormono?»
«Vuoi andare da loro a chiedere dei preservativi?» domanda lui tra l’incredulo e il divertito.
«Se dormono posso sgattaiolare in camera loro e prenderli», ridacchio.
«In questo caso non credo di poterti trattenere.»
«Però mi sa che non ce la faccio», ammetto. Il mio cuore batte sempre più veloce e l’eccitazione non accenna a placarsi. Ma che effetto mi fa?
«Potremmo anche chiacchierare e basta», propone Malik.
«Che splendida alternativa», rido. «Stavo proprio morendo dalla voglia di sapere qual è il tuo colore preferito.»
«Molto divertente. Volevo dire che potremmo anche pensare di avere altre occasioni.» Mi guarda con occhi pieni di aspettative. «Comunque è il blu.»
Sorrido. «Mi stai proponendo di vederci per fare sesso? Sei parecchio diretto, non trovi?» Ma l’idea mi piace.
«No, sto proponendo di frequentarci di più. Di darci appuntamento per passare del tempo insieme e rimanere ‘perplessi’, come hai detto poco fa. E se per caso dovessimo ritrovarci dello stesso umore di adesso, saremo preparati.»
«Mi piacerebbe molto, in effetti», dico. «Adesso però vorrei mettermi addosso qualcosa di più comodo, se per te va bene. E lavarmi i denti. Perché devi sapere che detesto dovermi rialzare quando sono in una situazione confortevole.»
«Allora ci vediamo tra poco», mi saluta Malik. Si alza e va alla porta. Sulla soglia si gira un’ultima volta. «Che pazzia, eh?»
«Già», rispondo. Poi lo guardo uscire dalla camera.
10
Malik
MENTRE mi lavo i denti mi guardo allo specchio. Ho l’aria parecchio accaldata. Accaldata e probabilmente… perplessa. Quello che è appena successo tra me e Zelda è incredibile. È stato tutto bellissimo, nuovo, da togliere il fiato: dal primo contatto fisico all’eccitazione del nostro ultimo bacio, che ha chiaramente sopraffatto entrambi. Solo a ripensarci sento lo stomaco annodarsi per il desiderio. Non saprei davvero come descrivere in altro modo questa sensazione. Eppure, ci conosciamo a malapena.
Tra un pensiero e l’altro si insinuano sempre più domande. Zelda sa del mio passato? Le cose cambierebbero se lo scoprisse adesso? Come devo comportarmi? Posso affrontare la questione di petto, saltare nel buio e raccontarle quello che mi è successo negli ultimi anni, oppure è meglio aspettare che sia lei a chiedermelo? Deve quantomeno sospettare qualcosa, altrimenti come può spiegarsi che io divida l’appartamento con una persona che frequenta un programma di reinserimento sociale? Mi chiedo quanto fosse seria quando ha detto che nella sua testa c’era silenzio. Voleva dire che ha spento il cervello? E cosa succederà quando lo riaccenderà? So di essere una brava persona e di non aver mai voluto comportarmi male. Ma non so se questo basta.
Però anche lei l’ha percepito, ha sentito che c’è qualcosa tra di noi. Qualcosa di speciale. Qualcosa che vale la pena approfondire. Abbiamo deciso di rivederci, quando torneremo in città. Lei vuole vedermi ancora.
«Cazzo», esclamo, perché mi sento sopraffatto dal caos che regna dentro di me. Non sono bravo a prendere decisioni, e il viso allegro di Zelda continua a spuntarmi davanti agli occhi. Voglio tornare da lei, lasciar perdere tutto il resto. Al suo fianco sembra tutto così facile, così semplice. Almeno finora. Lei dice quello che pensa, non devo sforzarmi di interpretare.
Mi spruzzo dell’acqua sul viso per rinfrescarmi, e quando mi guardo di nuovo allo specchio mi accorgo che l’eccitazione ha fatto spazio a qualche preoccupazione. Perché la questione non è soltanto il mio passato. Noi due siamo molto differenti. Veniamo da mondi diversi. Io non so nulla di come sia il suo, e immagino che lei non abbia la più pallida idea di come sia il mio. E se fosse vero che le ragazze bianche portano solo problemi?
«Riprenditi», mi dico. «Va tutto bene.» Inspiro a fondo ed espiro, poi torno al piano di sotto. Davanti alla sua porta mi fermo ed esito per un istante. Non voglio piombare in camera sua all’improvviso, quindi busso.
«Avanti», risponde lei.
Quando apro la porta, si sta togliendo la maglietta e mi guarda con aria provocatoria. Ha ancora i leggings gialli e i pantaloncini neri, ma sopra indossa soltanto un reggiseno rosso scuro.
Tutti i miei pensieri svaniscono. La mia testa si fa leggera e vuota, dentro c’è spazio solo per Zelda.
Mi rendo conto che la sto fissando, perciò distolgo lo sguardo e mi schiarisco la voce.
«Scusa», dico, «però non è leale.»
Lei ride. «Non devi scusarti. Abbiamo appena deciso di rivederci e magari di fare sesso, direi che non ha senso cominciare a vergognarsi proprio ora.»
È incredibile. La naturalezza con cui riesce a essere se stessa mi eccita più di qualsiasi altra cosa.
«Però se adesso ti guardo mentre ti spogli sarò davvero costretto ad andare in camera di Rhys e Tamsin…» la avviso abbassando lo sguardo. La sento ridacchiare.
Dopo un minuto mi informa: «Okay, ora puoi guardare».
Adesso indossa soltanto le mutandine e una maglietta sbiadita di Che Guevara.
«Non ridere. Me l’ha regalata il figlio del nostro ex giardiniere quando ho compiuto quindici anni. È l’unico regalo di compleanno che mi sia mai piaciuto.»
«Ma come?» chiedo. Che razza di regali riceve di solito?
«Non mi piacciono molto i compleanni.»
«Non ti piacciono?» Zelda è l’ultima persona al mondo da cui mi sarei aspettato di sentire un’affermazione del genere. Mi è sempre sembrata una che adora festeggiare. «Quando compi gli anni?»
«Preferisco tenermelo per me.»
«Non vuoi dirmi quand’è il tuo compleanno?» Sono un po’ confuso. È seria?
«No, perché altrimenti potresti decidere di volermi dimostrare che i compleanni sono una cosa meravigliosa.»
Wow, ha veramente un problema serio con questa cosa.
Zelda deve aver notato la mia espressione confusa, perché aggiunge: «Non fanno per me e basta. Natale e il Giorno del Ringraziamento invece mi piacciono. E Halloween è fantastico. Sono festività che uniscono la gente, persino nei posti peggiori le cose sembrano andare un po’ meglio, in quelle giornate. I compleanni, invece, tirano fuori il peggio delle persone. Almeno i miei.»
Mi vengono in mente i compleanni delle mie sorelline. La confusione, la felicità che provano a essere al centro dell’attenzione. «I tuoi genitori non ti organizzavano delle feste?»
Zelda scoppia a ridere. «Oh sì, delle feste fantastiche, con i colleghi di lavoro di mio padre e i loro figli. Puoi immaginare che atmosfera rilassata. E i regali! Per i miei sei anni ho ricevuto una penna Montblanc.»
Questo spiega perché quella vecchia maglietta significhi tanto per lei. Indugio di nuovo con lo sguardo sul viso stilizzato dell’eroe della rivoluzione cubana.
«Quella volta, però, è stato divertente», racconta. «I miei sono andati su tutte le furie. Da allora non sono più cresciuta e quindi adesso la uso per dormire. Non era previsto che tu la vedessi.»
«Non ti sto mica prendendo in giro», rispondo. «Tra l’altro non siamo ancora del tutto ‘fuori pericolo’ se continuo a guardarti.»
È fantastica anche così, con i capelli scompigliati e le guance rosse.
«Okay, basta flirtare, playboy. Adesso chiacchieriamo, come hai proposto.» Salta nel letto, e in una frazione di secondo scompare sotto le coperte.
Mi tolgo la felpa e sto per liberarmi anche della maglietta, quando Zelda esclama: «Fermo!» La guardo perplesso.
«Non puoi accusarmi di non essere leale, e poi farmi uno striptease davanti! Però, se proprio devi, fallo più lentamente.» Incrocia le braccia sul petto e mi lancia un’occhiata colma di aspettative, inarcando un sopracciglio.
Non so bene cosa fare, poi però mi torna in mente il modo in cui ha ballato poco fa. In effetti le devo qualcosa. E quindi comincio lentamente a sfilarmi la maglietta, tendendo al massimo i muscoli dell’addome e senza interrompere il contatto visivo. Lei sorride, e non riesco a trattenermi dal farlo anche io, mentre sollevo la stoffa un centimetro dopo l’altro. Gli occhi di Zelda si fanno sempre più grandi. Quando ormai ho scoperto praticamente tutto il torace, finalmente mi sfilo la maglietta dalla testa.
«Wow», dice lei, annuendo con aria di approvazione. «Adesso capisco come fai a portare in braccio la gente qua e là senza alcuna fatica.»
Mi tolgo anche i jeans e mi infilo sotto le coperte, al suo fianco. Zelda però mi scopre di nuovo.
«Aspetta un attimo, non ho ancora finito.»
«Finito di fare cosa?»
«Di riflettere. C’è una cosa che devo fare. Potresti per favore gonfiare i muscoli del braccio e farmeli toccare?»
Eseguo, e lei avvicina esitante un dito, poi mi punzecchia il braccio.
«Wow», dice di nuovo. «Adesso gli addominali.»
Scoppio a ridere e contraggo i muscoli. Lei comincia a punzecchiarli uno per uno.
«Ehi, sono durissimi. Come mai sei così allenato?»
Questa domanda mi mette un po’ in difficoltà, la risposta potrebbe aprire la strada a una conversazione rischiosa. Ma abbiamo deciso di chiacchierare, e io voglio essere sincero con lei. E poi con Zelda è tutto semplice, giusto?
«Da dove vengo io, la vita è più semplice se sei robusto.»
«Raccontami un po’, da dove vieni?»
Sospiro. «Dalla parte sud di Pearley», dico dopo un attimo di esitazione. «Quella che chiamano Poorley.»
«E com’è lì?»
«Povero e sporco.» Guardo Zelda negli occhi. Lei è l’esatto contrario di Poorley. È semplice, spensierata, colorata e allegra. Ed è la prima ragazza di un’altra zona della città che bacio. La prima ragazza che non c’entra niente con quel posto. E come l’ho baciata! Mi sento di nuovo avvampare, sebbene la mia mente sia occupata a pensare agli aspetti meno belli della mia vita.
«Com’è la gente?» chiede Zelda.
Mi viene da ridere. «Come in ogni posto, ci sono persone buone e persone cattive. La differenza sta nel fatto che a Poorley praticamente nasci già con un piede in galera.» Quest’ultima frase mi è sfuggita di bocca, ed è difficile non notare l’amarezza nella mia voce. Vorrei prendermi a schiaffi.
Zelda si scosta leggermente e mi guarda curiosa. «Posso chiederti una cosa? È una domanda abbastanza diretta.»
Il suo sguardo penetrante mi fa venire la pelle d’oca. So benissimo cosa sta per chiedermi. Ed è tutta colpa della mia stupidità.
«Chiedi pure.» Mi tiro addosso la coperta, come per proteggermi.
«Sei stato in prigione anche tu, vero?» dice lei a bassa voce.
Ecco qua. Questa meravigliosa serata è finita. Quello che doveva inevitabilmente succedere è successo. Ed è stata tutta colpa mia. Ma perché non ho tenuto la bocca chiusa?
«Sì», rispondo con voce roca, deglutendo a fatica. Non riesco nemmeno a guardarla negli occhi. Lei viene da un mondo dove di sicuro queste cose non succedono. Un mondo di bianchi. Un mondo di lezioni private di francese.
«E perché?» mi chiede. Ma come fa a suonare così naturale? È solo una brava attrice?
Ho un momento di esitazione. Forse la cosa migliore è vuotare il sacco e dirle subito la brutale verità, sperando che non mi mandi al diavolo. Visto che non le ho risposto, mi punzecchia di nuovo il braccio. Poi si stringe a me, come per farmi coraggio. Vorrei abbracciarla, ma non oso. Sento come un peso sul petto.
«Malik? Non devi dirmelo per forza, se non vuoi.» Sembra un po’ delusa, come se rifiutarmi di raccontarle il mio passato avesse davvero segnato la fine di questa serata. E probabilmente è proprio così.
I miei pensieri si inseguono l’un l’altro. Vorrei raccontarle tutto. Ha il diritto di sapere. Ma poi non sarà più in grado di guardarmi come prima, e io non voglio rinunciare alla sincerità e all’assenza di pregiudizi che adesso vedo nei suoi occhi azzurri. Ma è impossibile. Sarebbe chiederle troppo.
«È una cosa brutta?» La sua voce si è fatta un po’ più acuta. Ha già paura di non riuscire ad accettare la verità.
«No», dico. Ho la gola serrata, provo a schiarirmi la voce. «Non così brutta. Adesso ti racconto tutto, e poi me ne torno di sopra.»
«Questo lo decido io», ribatte lei, determinata. La sua voce adesso è più ferma. Mi prende la mano, che sembra enorme tra le sue dita così minute.
«Quando avevo quindici anni ho fatto da autista durante una rapina a mano armata.» Mi fermo un
istante per valutare la sua reazione, ma lei non si scompone, né si irrigidisce. «Nessuno si è fatto male», aggiungo, tanto per darle una buona notizia, «ma una rapina è pur sempre una rapina. Sono stato dentro due anni, mi hanno rilasciato in anticipo per buona condotta. Ero felicissimo di essere di nuovo libero, la galera è un posto orribile. Davvero orribile.» Zelda si volta e mi guarda. Non riesco a intuire cosa le passi per la testa, perciò continuo a raccontare. «Però, per qualche motivo, trovavo ancora più orribile il fatto che mia sorella per il suo compleanno non potesse avere la piastra per capelli che desiderava tanto. Perciò sono entrato in un negozio e l’ho presa. È stata una cosa stranissima, come se le mie mani si muovessero senza che il cervello avesse detto loro di farlo. Mezz’ora dopo, davanti a casa nostra, è arrivata una macchina della polizia, e mi hanno riportato dentro. Per dieci mesi.» Deglutisco. Detto ad alta voce suona ancora più stupido.
«Dieci mesi per aver rubato una piastra per capelli? E cos’era, d’oro?» chiede Zelda, stringendomi la mano.
La sua battuta mi coglie alla sprovvista. Le ho appena detto che sono stato due volte in prigione e lei reagisce così? Mi viene quasi da sorridere. «No, ma se vieni da Poorley e sei un pregiudicato, queste cose non contano.» Alzo le spalle.
«Un bel casino», dice lei. «Ma perché hai fatto da autista durante la rapina? Se posso chiedere.»
«Puoi chiedermi tutto quello che vuoi», le rispondo, anche se sto pregando che questa conversazione finisca presto. Non vedo l’ora di tornare nel mio letto e prendermela con me stesso. «Avevo paura che beccassero mio cugino se nessuno fosse rimasto al volante della macchina, e lo spedissero in galera.» Mi sfugge una risata carica di amarezza e frustrazione.
«Okay, wow.» Per un attimo tra noi cala il silenzio. Poi lei riprende: «Quel che si chiama ‘ironia della sorte’, insomma».
«Mmm, sì, immagino che si possa dire così.» Faccio per scostarmi, voglio lasciarla in pace. Ma lei mi trattiene.